Meglio non cedere alla demagogia del terzo mandato

Non si possono abbattere i paletti che un sistema ben ordinato deve comunque prevedere, pena la distorsione dei meccanismi di salvaguardia dell’esercizio in forma equilibrata del potere pubblico.

La questione del terzo mandato, ovvero la rimozione in sede legislativa nazionale del vincolo che impedisce ai presidenti di Regione, a causa di norme statutarie, di presentarsi al corpo elettorale anche dopo aver espletato le loro funzioni nell’arco di due mandati consecutivi, richiede un’attenta riflessione politica per non cadere emotivamente nella trappola della semplificazione.

Sì dice che la stabilità degli esecutivi sia un bene e sia ancor più un bene lasciare al popolo la libertà di giudizio sull’operato di un presidente (o per estensione di un sindaco di medie-grandi città, assunto che negli enti di minori dimensioni demografiche il blocco è stato già tolto da tempo). Per giunta, a conforto di questa duplice tesi si portano esempi di altri Paesi, dando vita a comparazioni di vario tipo. Chi si oppone dimostra pertanto di voler imbrigliare la democrazia operando, in buona sostanza, a vantaggio di una partitocrazia sempre in agguato. A fare da arbitro non sarebbe più il cittadino, come auspicava il compianto Ruffilli, ma un sovrano nascosto nelle pieghe di piccoli o grandi apparati di partito.

Le cose stanno proprio così? Bisogna farsi largo nella giungla delle mezze verità e, subito appresso, delle conclusioni azzardate. I riferimenti alle regole di altre nazioni europee sono imprecisi: l’assenza di un tetto ai mandati va di pari passo alla elezione dei presidenti (o dei sindaci) nelle assemblee consiliari, e dunque non mediante investitura da parte del popolo. 

Va da sé, allora, che l’elezione diretta contempli e contrario uno o più momenti di equilibrio, in particolare la fissazione di un limite alla cumulabilità dei mandati. A questo riguardo, l’esperienza degli Stati Uniti è altamente istruttiva: non sono ammesse eccezioni al  dei quattro anni, più altri quattro in caso di rielezione, già a partire dall’inquilino della Casa Bianca. Inoltre, come andrebbe correttamente ricordato, in America non esiste il simul stabunt simul cadent che porta all’imbigliamento delle assemblee consigliari, mettendo sotto ricatto i singoli eletti come avviene nella prassi vigente del nostro Paese. A tutto discapito in questo caso della  funzionalità e trasparenza, e nondimeno dell’efficienza, della democrazia locale.

Non si possono abbattere i paletti che un sistema ben ordinato deve comunque prevedere, pena la distorsione dei meccanismi di salvaguardia dell’esercizio in forma equilibrata del potere pubblico. La demagogia di qualche sindaco o presidente di Regione – perché di questo alla fine si tratta – non può essere il motore di un sano rinnovamento delle istituzioni democratiche.