Bisogna vincere l’ultimo ostracismo sulla via di un “fronte repubblicano” quanto mai aperto, altrimenti si finisce per mettere in mano a Renzi, spinto a giocare la carta del “terzo polo”, l’occasione per acciuffare la rappresentanza di una cultura politica – quella popolare – che vive oltre la dimensione di una sua autonoma dimensione di partito. E il Pd senza l’anima del popolarismo cosa diventa?
La potenza di fuoco delle destre non consente alcuna distrazione: essere realisti significa disporsi a ricercare a tutti i costi l’unità dei riformisti, allargando il centro sinistra. Va bene, dunque, l’accordo siglato da Pd, Azione e +Europa. Come sempre, i singoli dettagli possono anche far discutere, ed è giusto che sia così; ma il disegno nel suo insieme rispecchia un’esigenza fondata e indica una prospettiva, quella della più robusta competitività sul terreno elettorale, che le divisioni non potrebbero garantire.
Questa è la premessa, certamente lusinghiera. Non è un dettaglio, tuttavia, il potenziale fattore di emarginazione dell’area popolare. A Calenda si delega un compito che vedeva, all’origine dell’Ulivo, esaltata la funzione del Ppi. Oggi il centro viene consegnato nelle mani degli ex radicali e Dalla Vedova ne rivendica persino l’esclusività nell’ottica della distinzione dal Pd. Si tratta di una modificazione genetica dell’alleanza tra centro e sinistra, di cui proprio il Pd doveva e deve rappresentare l’emblema più significativo. Chi ha vissuto quell’esperienza – dal Ppi alla Margherita, e poi dalla Margherita al Pd – può raccontare con orgoglio la “resistenza”, in nome degli ideali presenti nella tradizione democratica cristiana, alla tumultuosa e ambigua insorgenza del berlusconismo.
Per certi versi, i popolari furono più intransigenti dei post-comunisti; lo furono, ad esempio nella difesa della Costituzione, con l’alta testimonianza di Dossetti; più intransigenti, insomma, per un lascito di coerenza che rendeva più limpida ed autentica la lezione del “riformismo cattolico” rispetto all’implicito e quindi poco leggibile il “riformismo di fatto” che si è voluto riconoscere all’interno della tradizione comunista italiano. A fondamento del Pd non c’era la cancellazione del passato, ma il suo possibile superamento, andando oltre, come si diceva, le fratture e gli errori del Novecento. Era e rimane il paradigma di un’autentica rigenerazione della politica riformatrice, avente come motore insostituibile il cattolicesimo sociale e democratico.
E adesso, che succede?
Può essere Calenda – lui che rilancia nei discorsi la cultura liberal-socialista dei vecchi azionisti – l’interprete del popolarismo, magari con l’improvvisa scoperta di quel popolarismo europeo (imperniato sui tedeschi della Cdu-Csu) che la stessa Dc italiana considerava prigioniero di un cliché di rigido anticomunismo? Il Ppi ne fuoriuscì quando si volle accogliere la richiesta di adesione al Ppe da parte di Forza Italia. Bisogna avere memoria di tutto ciò per evitare sgradevoli funambolismi. Non è pertanto questo il discorso che possa corrispondere alla battaglia condotta dai popolari in una fase cruciale della nostra vita democratica. E non lo è anche perché, se non si vince l’ultimo ostracismo sulla via di un “fronte repubblicano” quanto mai aperto, si finisce per mettere in mano a Renzi, spinto a giocare la carta del “terzo polo”, l’occasione per acciuffare la rappresentanza di una cultura politica che vive oltre la dimensione di una sua autonoma dimensione di partito.
Se così fosse, e certamente questo dipende in gran parte da Renzi, ovvero dalla sua capacità di farsi portabandiera di una storia, crollerebbe un pilastro del Pd. Illudersi che le biografie personali siano comunque una barriera di fronte alla percezione degli eventi, sicché l’ex democristiano Letta dovrebbe rassicurare sulla bontà di un’operazione implicante l’eclisse del cattolicesimo democratico, è segno di scarsa avvedutezza. Ci sono ragioni che giustificano il contrasto, essendo la polemica sul renzismo ancora forte, ma la politica non può soggiacere allo spirito di revanscismo. Siamo al cospetto di scelte decisive, con questo “dettaglio” che nasconde, dentro una campagna elettorale che già furoreggia, il dilemma attorno alla sopravvivenza del popolarismo nella configurazione della politica dei riformisti, e segnatamente del Pd.