Pietro Parolin ricorda Achille Silvestrini, figura eminente della diplomazia vaticana.

Pubblichiamo stralci dal contributo del cardinale Segretario di Stato al volume «Il cardinale Silvestrini. Dialogo e pace nello spirito di Helsinki», a cura di Carlo Felice Casula e Pietro Sebastiani (Libreria Editrice Vaticana).

Tante sono le parole che andrebbero spese anzitutto sulla persona del cardinale Silvestrini, anché per meglio comprendere il peso che la sua sensibilità umana e cristiana ebbe sugli eventi che precedettero e seguirono la Conferenza di Helsinki del 1975.

Come spesso accade, la migliore introduzione al ruolo eminente svolto da un protagonista delle vicende del suo tempo si evince dalle sue stesse parole. Dall’analisi di quanto egli ci ha lasciato cogliamo con precisione i passaggi storici che condussero la Chiesa a collocarsi sulla scena internazionale in modo nuovo rispetto all’epoca del grande schiacciamento nei Paesi a regime marxista e stalinista. Egli ricorda che i primi passi della Ostpolitik — un termine nato con il cambiamento della politica verso l’Est della Germania Federale del cancelliere Willy Brandt — sono antecedenti e si fondano su alcuni gesti resi possibili dall’attenuazione delle persecuzioni nei Paesi comunisti: l’invio dei delegati della Chiesa ortodossa russa per assistere al Concilio Ecumenico Vaticano II , l’udienza pontificia ai coniugi Adjubei, le prime visite di monsignor Casaroli in Ungheria e in Cecoslovacchia nel maggio del 1963. Si trattava di aperture avviate dalla lungimiranza di san Giovanni XXIII che, secondo le parole di Agostino Casaroli, «parve fondere una profonda barriera di ghiaccio».

Il cardinale Silvestrini fu un interprete sapiente ed efficace delle motivazioni e delle linee della Ostpolitik vaticana, le cui basi erano state poste da san Paolo VI nell’Enciclica Ecclesiam suam del 1967, allorché affermò: «Noi non disperiamo che quei regimi possano aprire un giorno con la Chiesa un positivo colloquio che non sia quello presente della nostra deplorazione, del nostro obbligato lamento». «Questa — aggiunge il cardinale Silvestrini — è la chiave della Ostpolitz’k di Paolo VI . Fu questa Spes contra spem che determinò la sua azione a non desistere da possibili tentativi anche con successo ridotto e anche quando addirittura si dimostrassero infruttiferi».

In questo quadro, la Conferenza di Helsinki «ha rappresentato un’esperienza unica nel suo valore. Era la prima volta, dopo il Congresso di Vienna del 1815, che la Santa Sede partecipava come full member in un congresso di Stati». E soprattutto, «la presenza della Santa Sede ad Helsinki ha rappresentato un segno concreto della concezione della pace tra le nazioni come valore morale prima ancora che come questione politica, e un’occasione per rivendicare la libertà religiosa come una delle libertà fondamentali di ogni persona e come valore e di correlazione nei rapporti fra i popoli».

Per meglio comprendere questo aspetto centrale delle scelte della Santa Sede, è bene ricordare che più volte, sia Agostino Casaroli che Achille Silvestrini hanno avvertito le difficoltà e le incomprensioni, emerse nella Chiesa Cattolica (e in altre comunità religiose), a proposito della Ostpolitzk, perché alcuni la intendevano quasi come una illusione, come una politica non lungimirante rispetto a un gigante politico e militare che comprendeva solo il linguaggio della forza. Il cardinale Silvestrini respinse nettamente questa interpretazione e offrì come testimonianza della scelta di fondo a favore della adesione e partecipazione alla Conferenza di Helsinki l’opinione di Paolo VI , per il quale si faceva forza del fatto che sul piano dei principi la Santa Sede «è competente a titolo speciale», e che dunque era un bene costringere gli avversari a riconoscere diritti, quand’anche essi, come nel caso del blocco sovietico, fossero poi denegati all’atto pratico, perché — sono sempre parole di Paolo VI — «quando il diritto è riconosciuto, anche se poi non è osservato, ha forza in sé». Un pensiero chiaramente profetico. Lo scenario che giunge fino agli inizi degli anni Sessanta è, infatti, quello della devastazione, della persecuzione, del tentativo d’annientamento della presenza religiosa e delle Chiese, con provvedimenti che sembrano scaturire da un’unica volontà distruttiva. «Dopo gli arresti, le condanne, la prigionia o la relegazione della maggioranza dei vescovi cattolici negli anni posteriori al ‘45, e in primo luogo del monsignor Stepinac, del cardinale Mindszenty, di monsignor Beran, di monsignor Wyszynski, e la rottura delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede nei Paesi comunisti dell’Europa orientale e centrale era scesa una pesante coltre di gelo».

Su questo sfondo, con l’esperienza della terribile glaciazione stalinista che pesò a lungo sul comunismo, inizia quel martirio della pazienza che ha condotto la Chiesa a cogliere ogni pur minino spiraglio di apertura, portando Casaroli e Silvestrini a quel pellegrinaggio doloroso in alcuni Paesi dell’Est europeo, come l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia, e che è sfociato nella accettazione della prospettiva di una Conferenza che si sarebbe tenuta ad Helsinki, nel quadro di un Paese neutrale. Fin dall’inizio, la Santa Sede ha profuso il proprio impegno in favore della proposta di una Conferenza europea avanzata dagli Stati del Patto di Varsavia, andando «avanti con buona volontà e fiducia, ma senza fretta». È risaputo che «fu Achille Silvestrini, a Helsinki e a Ginevra, con grande tenacia, abilità, coraggio e costanza, a condurre le complicate trattative con le delegazioni degli Stati del Patto di Varsavia, a predominanza sovietica, e le portò a buon fine». In questo procedere lento, ma coraggioso e ragionato, non mancarono gesti significativi, e agli occhi di oggi clamorosi, tra i quali l’adesione, sollecitata dall’Unione Sovietica, della Santa Sede al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Proprio Achille Silvestrini fu capo-delegazione della Santa Sede alla Conferenza dell’Onu sull’uso dell’energia atomica del 1971 e alla Conferenza sul Trattato di non proliferazione delle armi atomiche del 1975. Tale ruolo di protagonista lo portò dunque a essere presente a tutti gli incontri ufficiali, informali, interlocutori e alle innumerevoli riunioni della Conferenza di Helsinki.

L’esito di tutto lo sforzo negoziale dei partecipanti alla Conferenza, fu la sottoscrizione dell’Atto finale di Helsinki, con al suo interno la Dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli Stati partecipanti.

 

Il libro raccoglie gli atti del convegno tenutosi il 14 settembre 2020 all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Lo stralcio qui riportato è quello proposto dall’Osservatore Romano nell’edizione dell’altro ieri (19 ottobre).