In genere i conflitti genitoriali riguardano figli minori molto o relativamente piccoli. A cominciare dalla prima fase dell’adolescenza, i ragazzini e le ragazzine compensano in parte il fatto di essere “contesi” da entrambi i genitori con occasioni di socializzazione extra domestiche, a partire dalla scuola e dalle frequentazioni dei coetanei. Non mancano le debite eccezioni che peraltro coincidono con i casi più dolorosi, quelli che presentano un elevato indice di coinvolgimento emotivo nelle vicende sentimentali del padre e della madre, sovente vissuti con sofferta partecipazione.
Questo accade in particolare quando uno dei due genitori, se non entrambi, chiedono più o meno esplicitamente al figlio o alla figlia di parteggiare, di schierarsi dalla loro parte forzando inevitabilmente i suoi spontanei sentimenti. Quando il conflitto si fa così aspro, costellato da episodi incongruenti o dannosi e comunque da situazioni ingarbugliate sotto il profilo emotivo, sono gli stessi genitori che allargano il fronte della contesa invocando reciprocamente e molto spesso anche per il figlio la necessità di valutazioni del profilo personologico e comportamentale, al fine di individuare ed evidenziare eventuali patologie da curare o rimuovere.
Si rivolgono pertanto di loro iniziativa a “consulenti tecnici di parte”(CTP) o sollecitano perizie d’ufficio (CTU), per avere una descrizione analitica e particolareggiata del carattere e dei comportamenti del figlio e magari la chiedono anche a carico dell’altro genitore. Se non disposte motivatamente da chi ne ha la responsabilità, si tratta in genere di scelte ossessive che esasperano e acuiscono realtà già compromesse, vanno nella direzione della problematizzazione dei vissuti e costringono sovente i figli a estenuanti sedute terapeutiche, oggettivamente non necessarie. Eppure ci sono padri e madri che ritengono con lucida determinazione che questa scelta rientri nei propri doveri genitoriali, alla stregua di quelli che natura e buon senso solitamente attribuiscono loro: il mantenimento, l’affetto, le cure, la tutela.
Come dire: pane, amore e perizie a 360°. Che cosa mette vicendevolmente in competizione i padri e le madri nei confronti dei loro figli? Sicuramente – prima di ogni altra cosa- la paura di perderli. Non è solo il timore della privazione di un rapporto di ‘fisicità’, di frequentazione, c’è anche l’ansia, la preoccupazione che vengano espropriati i sentimenti, le relazioni, gli affetti. Sono le ragioni del cuore quelle che spingono i genitori a spendersi nella contesa: se mai ne esiste una è la metafora della ‘lancia’ e dello ‘scudo’ quella che più compiutamente ne spiega i comportamenti. Da un lato devono attrezzarsi per la difesa ad oltranza: rintuzzare gli attacchi dell’altro contendente, ritagliarsi uno spazio di gestione del figlio, una specie di fortino invalicabile, un presidio, uno zoccolo duro da cui partire per realizzare strategie di appropriazione e di conquista, spostando sempre più in là il confine dei propri diritti.
Dall’altro sono costretti generalmente ad attaccare per primi, cercando di evidenziare le carenze altrui, utilizzando in modo improprio il figlio conteso: una ‘testa d’ariete’ per sfondare il fronte avverso. Quando queste strategie riescono in genere producono risultati dannosi per sé e per i figli stessi. Ogni volta che ci sono relazioni sentimentali che si chiudono ciò non avviene solitamente in modo improvviso e repentino, si tratta in genere di un lento declino dei rapporti affettivi che sfocia in una decisione a volte unilaterale e altre volte condivisa: concludere, finire, voltare pagina, magari ricominciare altrove. Se c’è un figlio di mezzo bisogna considerare che ogni decisione che riguarda la vita di coppia dei suoi genitori ricade, nel bene o nel male, anche e soprattutto su di lui, che in genere – per età o inconsapevolezza rispetto ai loro vissuti – è estraneo alle ragioni del conflitto e ne subisce solo le ricadute.
La storia rimane “a tre” (pensando al caso tipico di due genitori e un figlio) e comunque “al plurale” ma va riscritta da capo. A volte i genitori ce la fanno da soli: prendono atto della fine del rapporto e civilmente e pacificamente si dividono responsabilità, presenze, diritti e doveri che riguardano la prole. Riescono a programmare anche una fase così delicata cercando di evitare al figlio il trauma della rottura, sfumano le presenze, attenuano i toni della separazione, mantengono un clima di cordiale coesistenza, creano un ambiente più ovattato magari coinvolgendo altre figure di sicuro riferimento affettivo nell’ambito del nucleo familiare più allargato (ad es. i nonni, gli zii).
Ciò comporta, è opportuno interiorizzare questo concetto, che entrambi i genitori sappiano fare un passo indietro rispetto alla prevalenza delle proprie ragioni e un passo avanti verso il benessere emotivo ed esistenziale del proprio figlio. Ovvio che questo interesse “terzo” possa essere riconosciuto e rispettato solo a costo di rinunciare, dall’una e dall’altra parte, al desiderio di voler chiarire tutto, ma proprio tutto, di una vicenda che sarebbe più onesto accettare nell’evidenza della sua attualità. Prendere atto della fine di un rapporto di coppia non è una cosa facile da metabolizzare: ci sono sempre da rimarcare vicende, accuse, manchevolezze, episodi, fatti, circostanze che inevitabilmente riemergono nella narrazione dei rispettivi vissuti.