Rafah, la Corte Internazionale chiede il cessate il fuoco.

La sentenza impone l'apertura del valico e l'ingresso degli aiuti, ma resta ambigua sull'interpretazione delle operazioni militari. Gli inquirenti potranno accedere a Gaza per indagare sulle accuse di genocidio. Israele dichiara: "Non ci fermeremo".

Israele deve fermare “immediatamente” le operazioni militari in corso contro Rafah: la Corte di Giustizia Internazionale ha compiuto un ulteriore passo legale emettendo oggi [ieri per chi legge, ndr] una sentenza legalmente vincolante ma che non ha gli strumenti per far rispettare.

Nella sentenza – adottata con tredici voti favorevoli e tre contrari – La Corte si è detta “non convinta” che lo sgombero di Rafah e le altre misure annunciate da Israele siano sufficienti per alleviare le sofferenze della popolazione civile.

La Corte ha inoltre ordinato a Israele di permettere l’accesso nella Striscia di Gaza agli inquirenti che dovranno indagare sulle accuse di genocidio, e di aprire il valico di Rafah per l’ingresso degli aiuti in vista di una situazione umanitaria definita “disastrosa”.

E tuttavia la sentenza – accolta con favore dal Sudafrica, il Paese che ha sollecitato il parere della Corte, dai Paesi arabi, dall’Anp e in parte anche da Hamas – contiene una certa ambiguità che dà luogo a due possibili interpretazioni.

Di fatto il tribunale ordina allo Stato ebraico di “fermare immediatamente la propria offensiva militare od ogni altra azione che possa infliggere alla popolazione condizioni di vita che possano portare alla distruzione fisica, totale o parziale”: l’interpretazione dei Paesi arabi è che si tratta di una cessazione di ogni attività.

Ma i giudici dissenzienti notano come in base alla formulazione delle operazioni limitate che non mettano a rischio la popolazione civile in modo grave siano consentite: in altre parole, finché Israele rimane entro i limiti della Convenzione sul Genocidio può continuare a combattere.

Non a caso, questa è l’interpretazione sposata dal Ministero degli Esteri israeliano, che cita testualmente la sentenza affermando che lo Stato ebraico “non ha condotto né condurrà operazioni militari nella zona di Rafah che creino le condizioni per la distruzione parziale o totale della popolazione palestinese” e che “dopo il terribile attacco terroristico del 7 ottobre Israele si è imbarcato in una guerra difensiva giusta per eliminare l’organizzazione terroristica di Hamas e per liberare i nostri ostaggi: lo ha fatto in accordo con il diritto di difendere il proprio territorio e i propri cittadini, nel rispetto dei propri valori morali e del diritto internazionale”. Insomma, lo Stato ebraico non ha alcuna intenzione di fermarsi e verosimilmente il premier Benjamin Netanyahu – che ha riunito il governo per consultazioni ribadirà il concetto dopo che il suo ministro Benny Gantz – al termine di un colloquio telefonico con il Segretario di Stato americano Antony Blinken – ha già avvertito che Israele ha il dovere di “continuare a combattere”.

La sentenza tuttavia potrebbe dare maggior peso alle insistenze della Casa Bianca perché le operazioni a Rafah assumano un carattere strettamente limitato, in un momento in cui Washington cerca di far rivivere i negoziati per un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi; resta però da vedere se questo secondo rovescio giuridico – “antisemita”, nelle parole del ministro per la Sicurezza israeliano, l’esponente del’ultradestra Itamar ben Gvir – non finirà per indurire le posizioni di Netanyahu, sempre più prigioniero del sostegno della destra nazionalista e religiosa.