RaiNews | Cosa ha rappresentato il settimanale Settegiorni? Intervista a Guasco.

Oggi pomeriggio, alle 15.00, presso la Sala Capitolare del Senato (il Chiostro del Convento di S. Maria sopra Minerva, piazza della Minerva 38), la Fondazione Donat-Cattin presenterà l’edizione digitalizzata della rivista.

Riportiamo di seguito il testo centrale dell’intervista curata da Pierluigi Mele (RaiNews) allo storico Alberto Guasco, uno dei relatori del convegno odierno.

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Sono passati più di cinquant’anni da quel lontano 18 giugno del 1967 quando uscì un settimanale, “Settegiorni” appunto, davvero unico nel panorama del giornalismo politico italiano. Cosa rendeva unico il settimanale?

Direi la sua capacità di porsi in maniera del tutto originale nella grande temperie politica e culturale (come pure ecclesiale) che l’Italia attraversa tra il 1967 e il 1974. Ovvero, muovendosi su una linea di frontiera più culturale che politica e più politica che di corrente e – negli anni della ricezione del Concilio – facendo coabitare cattolici senza partito, cattolici irregolari, socialisti cattolici, cattolici comunisti, non cattolici e chi più ne ha più ne metta.

 

Come nasce l’idea di “Settegiorni”? Da chi è partita l’idea? Puoi darci qualche “retroscena”?

 

Come si dice in questi casi, la “pistola fumante” è difficile da trovare. Mi pare però che ci siano ben pochi dubbi sul fatto che l’idea del settimanale maturi da un lato dall’intelligenza politico-culturale di Carlo Donat Cattin e degli ambienti a lui più vicini, dall’altro dalla loro capacità di scorgere quelli che pochi anni prima Giovanni XXIII aveva definito i “segni dei tempi”. In termini spicci: di leggere culturalmente i mutamenti sociali degli anni Sessanta e Settanta e di fornire loro una interpretazione politica.

 

Quali sono le ragioni sociali che sono alla base della nascita di “Settegiorni”?

 

Quelle legate ai grandi mutamenti che il nostro paese attraversa tra il 1967 e il 1974: in primo luogo, la contestazione studentesca e il protagonismo operaio; ma anche – essendo tempo di post-Concilio – la crisi dei rapporti tra identità politica e ragioni della fede. Poi ci sono tutti gli altri fenomeni in cui è “immersa” la parabola di “Settegiorni”: i mutamenti economici dei primi anni Settanta (la fine del regime dei cambi fissi dollaro-oro; lo shock petrolifero, l’avvio di robotica e computeristica); quelli relativi al mondo del lavoro e al sindacato; ancora, dei diritti collettivi e dei mutamenti, diciamo così, di costume.

 

Il settimanale è stata una palestra per una generazione di giovani, democristiani e non, che successivamente hanno fatto un percorso significativo nel giornalismo e nella politica . Ma non c’erano solo giovani, c’erano anche prestigiosi collaboratori. Puoi ricordarci qualche nome significativo?

 

Lidia Menapace, Alberto Papuzzi, David Maria Turoldo, Luigi Accattoli, e moltissimi altri. Tra tutti questi, ne ricordo solo tre. In primis Walter Tobagi, che per “Settegiorni” firma una ventina di articoli, perché questa pagina della sua biografia non è molto ricordata. In secondo luogo Sandro Magister: scorrendo le sue biografie online sembra non aver avuto una vita prima del 1974 e de “L’Espresso”, ma per “Settegiorni” firma oltre 300 articoli. In terzo luogo Adriana Zarri, lei pure autrice di oltre 300 articoli, in larga parte editi nella sezione “Religioni”.

 

La direzione e la redazione di “Settegiorni” era in via della colonna Antonina, a Roma, sede della corrente DC di Forze Nuove.. Questo non ha mai limitato l’autonomia di analisi politica e culturale della rivista. Ed è lo stesso leader della sinistra sociale dc, Carlo Donat-Cattin , a ricordare questa caratteristica, qualche anno dopo, in una intervista: “La vita di Settegiorni – affermava Donat-Cattin- fu sempre autonoma rispetto al gruppo di Forze Nuove. Sviluppò una linea che sembrò voler stabilire tra il pensiero di Aldo Moro (…) e il pensiero di Franco Rodano e dei suoi amici, provenienti dal partito della sinistra cristiana e poi inseriti nel PCI”. Insomma moroteismo, integrato dai contenuti duella sinistra sociale, e rodanismo agirono da propulsori 

 

“ideologici” tale da consentire alla rivista di esercitare una egemonia culturale e politica in quel periodo. Si può dire che la rivista anticipò la strategia morotea dell’attenzione al PCI?


Forse, più che anticiparla, la accompagnò, le viaggiò parallela, contribuì da un punto di vista culturale a preparare il terreno che lo stesso Aldo Moro – al quale Donat Cattin riconosceva un’intelligenza politica superiore – avrebbe tentato di dissodare in quegli anni e in quelli successivi. In una parola, a Donat Cattin e a Forza Nuove l’asse con lo statista pugliese appare la via più opportuna per contrastare i ritorni di fiamma per la vecchia formula centrista e per assecondare – talora con formule inclini alla lotta di classe – lo spostamento a sinistra del baricentro del paese.

 

Torniamo alla battaglia politica del settimanale. La rivista si battè contro la “doroteizzazione” della DC. Qual era l’idea della DC che aveva il settimanale?

 

Verso la Democrazia Cristiana l’atteggiamento è, diciamo così, critico-possibilista; critico poiché il grande tema sotteso alle cronache dell’attualità è quello della fine del collateralismo e delle vie che si aprono ai cattolici; di più, critico verso i dorotei, definiti senza mezzi termini “estremisti della moderazione, uomini che vogliono far tornare il paese ai tempi ormai tramontati del centrismo se non più a destra; e possibilista, anzi favorevole, al progetto del tutto differente tessuto da Moro, non a caso ritenuto un’incarnazione della “politica che pensa”.

 

Il settimanale era piuttosto contrario ad un secondo partito cattolico, perché?

 

Sfumerei. Almeno per un momento, Donat Cattin intravede l’eventualità di portare la sua sinistra sociale fuori dalla Dc e di fondare un nuovo soggetto politico a sinistra dello scudo crociato, grazie all’incontro con ciò che va elaborando prima dentro e poi fuori dalle Acli Livio Labor, l’ala lombardiana del Psi e con la sinistra cristiana del Pci. “Settegiorni” si muove lungo questa linea di frontiera, oscillando tra la convinzione che la Dc abbia ancora un ruolo e quella che l’unità politica dei cattolici sia finita.

 

Un settimanale così robusto sul piano politico culturale, con grande attenzione anche alla politica internazionale, com’era visto dal mondo della grande stampa laica?

 

A questa domanda proprio non saprei rispondere. Forse bisognerebbe distinguere a quale stampa laica ci si riferisce e a quale tema specifico.

 

Com’era vista dal Vaticano la rivista?

 

Anche il termine “Vaticano” è molto flessibile. Diciamo così, gli uomini che guidano la rivista – il direttore Ruggero Orfei e il condirettore Piero Pratesi sono cattolici “irregolari” che hanno avuto qualche problemino con la Cei, anzi con la stampa legata alla Cei hanno avuto qualche problemino – non sono profili del tutto malleabili e tranquillizzanti. E le loro posizioni come quelle di quasi tutti i redattori del giornale appartengono più al campo di coloro che ritengono il Concilio “tradito” che alla linea progressivamente sempre più moderata imposta da Paolo VI allo sviluppo conciliare. Come tali, diventano particolarmente problematiche quando si tratta di valutare documenti magisteriali come Humanae vitae, o di prendere posizione in merito al divorzio. 

 

La rivista cessa le pubblicazioni nel luglio del 1974, dopo il Referendum sul divorzio. Una chiusura che renderà più povera la battaglia politica dei cattolici democratici italiani. Quali furono le ragioni profonde della chiusura?

 

La fine dell’esperienza di “Settegiorni” avviene sì all’indomani del Referendum sul divorzio del 1974. Esperienza terribile che mette in gioco cosucce come la comunione ecclesiale, la valenza sacramentale e civile del matrimonio, la libertà di coscienza dei cattolici e l’impalcatura d’una repubblica costruita, fin dai tempi dell’asse De Gasperi-Montini, sull’unità politica dei cattolici. Ma il motivo della chiusura non sono le posizioni della rivista generalmente favorevoli al “No”. Certo, c’è un bilancio in rosso. Ma più ancora, l’opzione politica per la quale “Settegiorni” ha lavorato si è esaurita. L’idea di formare un altro partito a sinistra della Dc naufraga sullo scoglio delle elezioni del 1972. Dalle quali, invece, esce rafforzato il Msi, che raddoppia i consensi salendo dal 4,5% all’8,5%).  E a seguito delle quali il governo – con il Psi che esce e il Pli che entra – si sposta a destra. Non c’è più spazio per il progetto di “Settegiorni”.

 

Per saperne di più

https://www.rainews.it/articoli/2023/06/settegiorni-una-rivista-di-frontiera-intervista-ad-alberto-guasco–200fc94b-c0dc-4ca8-8e12-4ce2304d0a1d.html