Tratto dall’edizione di Venerdì 14 giugno dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

Il 14 giugno del 1987 si spegneva a Bruxelles, all’età di 72 anni, il cardinale Joseph-Albert Malula, compianto arcivescovo di Kinshasa. Figura emblematica della Chiesa congolese, fu un protagonista esemplare e coraggioso della storia africana del ‘900, le cui iniziative, prese di posizione e scelte pastorali suscitarono una profonda eco in tutto il continente. Dalla partecipazione al concilio Vaticano II, alla promozione dell’inculturazione del messaggio evangelico in Africa; dall’attenzione nei confronti della vita spirituale e la liturgia, alla difesa dei diritti umani e alla promozione del laicato, il cardinale Malula fu sempre in prima linea, a fianco dei poveri, esprimendo col cuore e con la mente, sia una notevole capacità di discernimento sia grande coraggio nell’esercitare la profezia.

Nato il 17 dicembre 1917 a Léopoldville, l’attuale Kinshasa, l’abbé Joseph-Albert Malula venne ordinato sacerdote il 9 giugno 1946, distinguendosi per l’indole carismatica che lo rese capace di esprimere con disinvoltura le virtù umane e cristiane, unitamente a una notevole statura intellettuale. Il 22 settembre del 1959, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, fu consacrato vescovo, con il titolo della sede di Attanasus, per svolgere il ministero episcopale a Léopoldville come ausiliare. In quella occasione pronunciò un celebre discorso in cui prese coraggiosamente posizione a favore di «una Chiesa congolese in uno Stato congolese». Fu il preludio di ciò che avverrà poco dopo con l’indipendenza dal Belgio, il 30 giugno 1960, e la successiva enunciazione di un tema che i politici del tempo ripresero, distorcendone il senso, dieci anni dopo, sotto la bandiera dell’autenticità zairese. Nel frattempo, a seguito dell’annuncio, da parte di Papa Roncalli, del concilio Vaticano II, venne istituita, il 6 giugno 1960, una commissione liturgica, presieduta dal cardinale Gaetano Cicognani, di cui fece parte anche monsignor Malula. Egli si distinse in particolare nel vivace dibattito liturgico, soprattutto sulla questione del latino e dell’uso delle lingue volgari. Il 4 dicembre 1963, i padri del concilio votarono la Costituzione Sacrosanctum Concilium: tra i 2.147 voti a favore (su un totale di 2.152 votanti) ci fu anche quello del presule congolese. Nel corso dell’assise conciliare, l’allora monsignor Malula non perse mai occasione di manifestare l’esigenza di un riconoscimento della dignità delle giovani Chiese africane. E l’esperienza del Vaticano II entrò così fortemente nel suo vissuto personale che egli ne divenne un autentico paladino, sia per quanto concerne il rinnovato impianto ecclesiologico (Lumen gentium e Gaudium et spes), come anche per quello missiologico (Ad gentes), seguendo poi scrupolosamente le fasi attuative del dettato conciliare nel vastissimo continente africano.

Il 28 aprile 1969, Papa Paolo VI lo creò cardinale. A Kinshasa fu davvero festa grande, trattandosi di un riconoscimento non solo nei confronti del vescovo, ma dell’intera Chiesa congolese e del suo paese, l’ex Congo Belga. Il 27 ottobre del 1971 questa giovane nazione dell’Africa occidentale venne ribattezzata Repubblica dello Zaire per volere dell’allora presidente Mobutu Sese Seko. E il regime di Kinshasa annunciò la volontà di adottare una politica all’insegna dell’autenticità, imponendo pesanti restrizioni sui diritti civili. Si trattò di un’iniziativa dalla forte valenza ideologica che intendeva recidere ogni forma di legame con il passato coloniale, imponendo, ad esempio, l’abbandono dei nomi cristiani. In quel frangente la tensione tra Stato e Chiesa crebbe a dismisura col risultato che l’arcivescovo di Kinshasa venne costretto all’esilio in Vaticano per cinque mesi. Eppure, nonostante il porporato fosse inviso al regime, riuscì pazientemente a tessere un rapporto dialogico tra la Santa Sede e il governo di Mobutu, al punto che non solo gli vennero riconfermati i suoi diritti, ma si crearono addirittura le condizioni per accogliere, in ben due circostanze, Papa Giovanni Paolo II nello Zaire: la prima del 1980 e la seconda nel 1985.

Una delle note caratteristiche del cardinale Malula, fu la sua spiritualità incentrata nella fede in Gesù Cristo. Un indirizzo dell’anima che gli impresse — in quanto cristiano, diacono, prete, vescovo ausiliare, arcivescovo e cardinale — la forza di percorrere la sua strada fino in fondo, fino al dono totale di sé. La sua personalità venne dunque forgiata da un’autentica e dinamica vita interiore, attraverso la quale coniugò le istanze dello spirito cristiano con le sfide del suo popolo. E fu proprio questa “esistenza secondo lo Spirito” che gli consentì d’innescare e promuovere l’africanizzazione della Chiesa affidatagli dalla Provvidenza, in termini di autentica incarnazione della Parola di Dio nella Storia umana.

Il “rito” zairese da lui promosso fu esemplare. Va ricordato che, già diversi anni prima del concilio Vaticano II, il cardinale Malula aveva rilevato l’importanza e l’urgenza dell’inculturazione della fede. Un’operazione questa estremamente impegnativa che diventò missione, nel vero senso della parola, sviluppandosi nel suo animo con un crescendo d’emozioni e convinzioni, soprattutto dopo la partecipazione all’assise conciliare. Sia nelle prediche, come anche nei suoi scritti, avvertì il bisogno di parlare di una “Nuova evangelizzazione” che vedesse come protagonisti i laici, in forza della loro consacrazione battesimale. Fu un tenace sostenitore della “mystique de la christification” (“la mistica della cristificazione”, una congiunzione del suo essere africano con l’imitazione di Cristo, per cui, parafrasando l’apostolo Paolo, arrivò alla conclusione che «Per me vivere è Cristo!» (Filippesi 1, 21). Non a caso, in uno dei suoi scritti, oggi accessibile nell’Oeuvres completès du Cardinal Malula, egli affermò convintamente che «Il concilio insiste sull’essenziale di tutta la santità cristiana: la carità di cui il Signore ha fatto il più grande comandamento…». E lui ne fu davvero testimone.