Ritornano finalmente le politiche sociali? Torna alla memoria l’azione di Donat Cattin.

 

 

La questione sociale” richiede in Italia un credibile progetto politico e di governo. Riflettiamo sul ruolo di una credibile e rinnovata sinistra sociale” dispirazione cristiana nella società contemporanea.

 

Giorgio Merlo

 

Al netto delle polemiche dei populisti dei 5 stelle e delle solite, e ormai anche un po’ noiose, prediche della sinistra radicale e massimalista della Schlein contro la “minaccia fascista “e la “destra illiberale, autoritaria e retrograda”, forse è giunto il momento affinchè le politiche sociali ritornino centrali nella vita politica italiana. Non nella loro deriva assistenzialista e pauperista promossa e cavalcata dai populisti pentastellati. No, parliamo della politica sociale come elemento decisivo e determinante di un progetto politico nazionale e di governo. Di un progetto di crescita, di competitività, di giustizia sociale e, soprattutto, di difesa dei ceti popolari e di tutti coloro che continuano a vivere in situazioni drammatiche se non addirittura incivili.

 

Un elemento, questo, che ci riporta ad una fase che ha caratterizzato una delle migliori stagioni della politica italiana. Mi riferisco a quella della fine degli anni ‘60 e all’inizio degli anni ‘70 che coincise con la nomina di Carlo Donat-Cattin a Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale. Certo, era una stagione dominata da una durissima e violenta contrapposizione sociale che sfociava in un altrettanto violento conflitto politico. Ebbene, proprio in quegli anni Donat-Cattin sosteneva che “l’istanza sociale doveva farsi Stato”. Trovare, cioè, piena ed irreversibile cittadinanza ad ogni livello dell’organizzazione amministrativa e della gestione della cosa pubblica.

 

In effetti, la preoccupazione principale di uomini come Carlo Donat-Cattin di porre la “questione sociale” al centro di ogni indirizzo politico non si risolveva solo nello sforzo di condizionare le scelte di politica economica e salariale ponendosi dal punto di vista dei ceti subalterni: scelte che ebbero conseguenze incalcolabili nel determinare lo sviluppo complessivo della società italiana per le enormi potenzialità di lavoro, di intelligenza, di imprenditorialità diffusa che le classi popolari italiane seppero sprigionare in un paese come l’Italia, privo di materie prime e di capitali e ricco solo di braccia e di intelligenza pratica. La sua ambizione, come di altri esponenti di quella sinistra sociale della DC, era più grande ancora. Egli, cioè, voleva che nell’architettura amministrativa dello Stato democratico quei ceti e quelle istanze non avessero un ruolo residuale nè meramente aggiuntivo. E quando, non a caso, pervenne alla guida del Ministero del Lavoro non tardò, infatti, a rendersi conto che – sono parole sue – “nell’organizzazione attuale del Governo non esiste un vero e proprio centro di politica sociale: si è costituito nel tempo un Ministero del Lavoro perchè con i sindacati bisognava trattare; vi si è aggiunta la competenza della previdenza sociale perchè le lotte dei lavoratori avevano ottenuto alcune norme per la sicurezza della vita e così via. Ma è tutto strumentale da parte delle classi dirigenti verso il lavoro subordinato”. Donat-Cattin, infatti, era convinto che il dato politico nuovo “doveva consistere nel dare alla politica sociale complessiva un ruolo non più subalterno, ma primario per la vita dello Stato, anche nella sua espressione politico/amministrativa”.

 

Ora, è di tutta evidenza che non esiste più la Dc, la sinistra sociale di ispirazione cristiana, quella classe dirigente fatta di leader e di statisti ma, al contempo, persiste una sorta di “questione sociale” permanente, strisciante e strutturata. E a domanda di fondo a cui si deve dare una risposta politica convincente è molto semplice e al tempo stesso complessa e articolata: ovvero, c’è la forza e la volontà politica, la coerenza culturale e il coraggio civile di porre nuovamente la “questione sociale” al centro di ogni indirizzo politico e di governo? Possono i cattolici popolari e sociali assentarsi da tutto ciò? Possono le forze politiche né populiste e né estremiste e demagogiche fingere che i problemi sono altrove? E, infine, può una vera e consapevole classe dirigente politica voltarsi dall’altra parte rifugiandosi solo nella ridicola, aristocratica e salottiera difesa e promozione dei cosiddetti “diritti civili” individuali abbandonando, di fatto, quelli “sociali” , al di là della solita e sempre più insopportabile propaganda della sinistra radical chic?

 

È attorno a queste risposte che si gioca, adesso, la credibilità di una classe dirigente e la capacità della politica – di maggioranza come di opposizione – di affrontare e sciogliere i veri nodi strutturali della società contemporanea. Il resto appartiene solo al mondo delle chiacchiere e della propaganda spicciola e politicamente insignificante e sterile.