Stupro di Palermo, una condanna severa dovrebbe scaturire dal pentimento.

Non si deve cadere nel perdonismo. Gli autori dello stupro dovrebbero invocare per loro stessi la più severa delle condanne in quanto giusta e sola occasione di possibile riscatto sociale.

La città di Palermo dai Fenici era chiamata “fiore” mentre i Greci le diedero nome di “ampio porto”. Questa volta il suo fiore ha visto i suoi petali strappati da sette probabili delinquenti che hanno giorni fa violato il corpo di una ragazza che è rimasta vittima di una indicibile brutalità.  Hanno immaginato la giovane donna fosse un porto di accoglienza delle loro fantasie sessuali e hanno avuto bisogno di essere in tanti per essere sicuri di poter competere con il genere femminile. O forse l’hanno fatto ben numerosi così da poterselo vicendevolmente raccontare con quelle sfumature che solo i presenti sulla scena possono cogliere.  Ci penserà la giustizia a stabilire la verità dei fatti che per come appaiono hanno turbato i sentimenti di chiunque ne abbia appreso la notizia. 

Non sono esattamente dei delinquenti quelli che hanno perpetuato il misfatto. Delinquere indica il tralasciare qualcosa, più precisamente venir meno a un dovere. Questa volta i sette indagati per il reato commesso non si sono affatto tirati indietro, hanno piuttosto fatto tutti un passo avanti nel proporsi alla violenza perpetuata. Non hanno avuto l’onore ed il coraggio dei protagonisti del film “I sette samurai”, non sono neppure paragonabili agli uomini de “I magnifici 7” dove il tema è stato quello di una giusta causa da difendere mettendo a repentaglio le proprie vite. Neppure sono assimilabili ai “ 7 uomini d’oro” dove l’obiettivo era il furto di sette tonnellate del prezioso metallo ma non era per questo prevista alcuna violenza. Tanto meno sono stati sette fratelli per sette spose. Si sono accontentati di una sola ragazza per sfogare i propri istinti bestiali.

Lascia sconcertati, da quanto si legge in cronaca, come dopo il reato gli stupratori abbiano pensato di continuare la serata ritemprandosi in una rosticceria che è un posto dove si vendono al minuto pietanze che possono essere sbrigativamente portate via o consumate. Evidentemente sentivano di rifocillarsi sempre con lo stile e la tempistica di “una botta e via” senza troppo intrattenersi seduti formalmente ad un tavolo. Hanno consumato lo scempio con inaudita superficialità, tanto che perfino il male si è sentito trascurato per la scarsa considerazione che ha goduto presso quelli che pure lo hanno provocato e che non ne hanno colto la consistenza ed il valore. Ancor peggio la strategia di difesa degli indagati si è appellata al consenso della vittima e questa sarà materia di avvocati e giudici. Con senso di vomito andrebbero commentate le prime reazioni degli indagati la stessa sera della bravata riportate dai giornali.

A volte procedere per paradossi può aiutare ad avere chiarezza di ragionamento. Il punto decisivo è infatti un altro. Se si volesse, solo per esercizio teorico, accettare la ipotesi di una disponibilità della vittima a quel trattamento da bestie, resterebbe il fatto che nessuno di quelli, che si sono distinti per brutalità, si sia reso estraneo o rinunciatario alla ghiotta occasione di macelleria umana.  Nessuna repulsione è scattata nella intimità della loro coscienza per chiamarsi fuori dall’azione. Così, sempre proseguendo per paradossi, se invece di sette fossero stati invece settanta o settecento non avrebbero comunque avvertito alcuna censura, giustificati com’erano dal consenso della giovane donna che tutto assolveva e tutto permetteva. C’è da esserne sgomenti.

Salvini pare abbia rispolverato il vecchio tema della castrazione chimica; per le piante si usa il termine “emasculazione”, ma non sembra questa la soluzione che lega la pena, che indubbiamente va inflitta ai responsabili del fatto, con il loro futuro recupero. Nelle prime pagine di un bel saggio del teologo Camine Di Sante sul tema del “perdono” si legge che quest’ultimo presuppone necessariamente un ordine relazionale, riconoscendosi quindi colpevoli “alla presenza di un Tu al quale si chiede un gesto non di condanna, ma di benevolenza….”.  Inoltre il perdono “suppone il riconoscimento della dignità dell’altro che con la parola, il gesto o l’azione non si è onorata, ma violata. Non si chiede perdono a chi ci è indifferente o lo si è ridotto a oggetto o strumento…Il perdono, sia nel chiederlo che nel donarlo, è riconoscimento sempre dell’altro”. Nella circostanza in questione è facile commentare come sia stata negata ogni dignità alla vittima dello stupro ma sia stata nel contempo annientata la dignità all’interno della coscienza di ogni componente del gruppo che ha agito in modo animalesco, nel quale, per natura, è assente ogni senso di colpa per le uccisioni commesse. Infine il perdono pretende l’esistenza e la coscienza della colpa “che esige l’assunzione della responsabilità”. Di Sante porta l’esempio del caso di Carlo Lissi che dopo aver ucciso la moglie e due figli piccoli, chiese che gli fosse comminata la massima pena, una dichiarazione non autogiustificativa ma decisiva appunto della sua responsabilità.

Non si deve anche questa volta cadere nel perdonismo che 

ha il solo effetto di produrre una reazione ancora più aspra in termini di condanna. L’unica riparazione ammissibile sarebbe la piena confessione del delitto compiuto e il desiderio di voler impegnarsi per cancellare la macchia che ha sfregiato il cuore di una innocente. Gli autori dello stupro dovrebbero invocare per loro stessi la più severa delle condanne in quanto giusta e sola occasione di possibile riscatto sociale. Sarebbe di consolazione se in sede di giudizio si disponesse non uno sconto di pena per eventuali buone condotte ma, all’opposto, un aggravio di pena se i colpevoli non superassero, durante gli anni di detenzione carceraria, impegnative prove di formazione e di studi volti a ridefinire personalità smarrite nel totale annichilimento del capriccio del male. 

La prigione è una fabbrica di violenza e rabbia contro lo Stato che ti fa stare costretto più di venti ore al giorno in cella con altri, in una condizione di frustrazione e noia senza limiti. Può essere anche il tempo, se positivamente condotto, di una riflessione di consapevolezza del male fatto e di una ricostituzione di se stessi per una nuova relazione verso il prossimo. In questa prospettiva la pena diventa una meta agognata per cominciare una resurrezione già qui sulla terra. Per adesso vale l’affermazione del poeta Paul Eluard quando dice che non c’è salvezza sulla terra finché si può perdonare ai carnefici. Restiamo in attesa che i sette malvagi di Palermo sappiano con il tempo smentirlo.