Giovanni Palladino, proseguendo sulle orme del padre Giuseppe, economista ed esecutore testamentario di Sturzo, porta avanti da anni il suo qualificato impegno intellettuale come cultore della memoria di don Luigi. Anche solo per questa ragione, né piccola né banale, devo essere grato per l’attenzione da lui prestata al mio recente intervento sulla “opzione sturziana” – confesso, per me sorprendente! – di Marco Taradash. Con parole garbate, di cui lo ringrazio, ha voluto tuttavia sollevare una obiezione cruciale, che merita una ricognizione e una replica.
Ecco, dunque, quello che ha scritto nel suo intervento riproposto ieri dal nostro giornale online. “Il Direttore de “Il Domani d’Italia”, nello scrivere un equilibrato e in definitiva favorevole commento alla svolta sturziana di Marco Taradash (svolta che tuttavia non è una sorpresa, perché già compiuta da tempo), fa due riferimenti non corretti. Nel primo, non solo storpia il cognome di Gobetti con Giretti, ma sembra fare del giovane Gobetti il leader di una scuola radical-democratica alla quale avrebbe aderito anche Sturzo, nato ben 30 anni prima di Gobetti”.
Ora, con altrettanto garbo, vorrei replicare all’obiezione del mio interlocutore. Naturalmente non ho proposto una lettura incongrua di Sturzo, trasformandolo in un radicale pannelliano ante litteram. Semmai ho posto l’accento sulla convergenza di giudizi tra il sacerdote calatino e alcuni democratici radicali degli anni ‘20, specie sul punto dell’antigiolittismo e quindi sulla polemica contro la politica statalista, di fatto corriva con gli interessi monopolisti dei grandi gruppi industriali del nord, a tutto danno del Meridione.
Salvemini e Sturzo, ad esempio, convergevano sulla battaglia tesa ad affrancare l’economia e la politica italiana dal blocco di potere giolittiano, salvo il bon ton del fondatore del Ppi, che a differenza di Salvemini mai avrebbe chiamato “Ministro della malavita” lo statista di Dronero. Ciò nondimeno la forte personalità di Sturzo non consente di confondere, né in sede storiografica né in ambito strettamente politico, il cattolico sociale con il democratico radicale. I due rimarranno se stessi, facendosi entrambi paladini della libertà e della democrazia, ma certo con premesse e contenuti ideali affini e diversi, tanto prima quanto dopo l’avversata esperienza della dittatura mussoliniana.
Ora, se mi è consentito, devo ricorrere a una citazione di Sturzo per non soccombere all’accusa più antipatica rivoltami da Palladino, quella cioè di aver storpiato il cognome Gobetti in Giretti, tanto da associare in maniera inopinata il leader popolare al giovane e combattivo fautore della “Rivoluzione liberale”. Mi dispiace, non è affatto una storpiatura e non mi sono confuso. Edoardo Giretti è stato un economista e uomo politico, di matrice appunto liberista, aderente al Partito radicale del pre-fascismo (non omologabile, questo, al posteriore partito di Marco Pannella). Sturzo lo chiarisce da par suo in un articolo pubblicato su “La Via” il 6 ottobre del 1951 (ora in Opere scelte di Luigi Sturzo – II Stato, Parlamento e partiti, Bari 1992, pp. 119-124). La lettura cancella ogni dubbio e chiarisce, fin dal titolo (Un “liberista” fuori stagione) quale fosse la “vera” posizione di Sturzo, mai sostanzialmente modificata nel corso della propria vita.
“Secondo il prof. Ernesto Rossi – esordisce in questo suo illuminante scritto l’ideatore del popolarismo – io sarei un liberista manchesteriano di cento anni fa. Non c’è dubbio che io sia stato sempre coerente ad un ideale temperatamente “liberista”, fin da quando, sull’altra sponda, mi trovavo sulla medesima linea di Napoleone Colajanni, combattendo contro il dazio sul grano, e partecipando alla corrente guidata da Edoardo Giretti. Però, e prima e dopo il fascismo – continua Sturzo -, in Italia e all’estero, ho sempre ammesso e, occorrendo, sostenuto apertamente, un equilibrato intervento statale a fini politici e sociali ben chiari e determinati”.
Dunque, questo era il modello a cui il primo segretario del Ppi sentiva di appartenere, senza tema di abiura o misconoscimento anche a molti anni di distanza dall’incontro, amichevole e dialettico, con i liberisti alla Giretti. Spero allora di aver contribuito a far chiarezza, ben al di là, s’intende, di questioni formali, ovvero di presunti errori che avrebbero intaccato alla radice, ove confermati, la mia sintetica valutazione in ordine a tale decisivo aspetto del pensiero e l’opera di Luigi Sturzo.
Lo sforzo di precisazione non ha nulla di lezioso. In vista del centenario, il prossimo 19 gennaio 2019, dell’Appello ai liberi e forti, abbiamo necessità di non appiattirci sulla canonica e dunque ripetitiva rappresentazione di Sturzo. Urge interpretare e capire, con spirito nuovo, il grande significato dell’invenzione sturziana, ovvero il popolarismo. L’intuizione della sua originalità, tuttora valida per il suo carattere di dottrina politica incentrata sulla libertà e la responsabilità, ha bisogno di essere inverata in una proposta di riaggregazione dell’area dei democratici, portando a sintesi i contributi migliori provenienti dai progressisti e dai conservatori