U ma’. Il mare di Genova Pra’…che non c’è più.

In mezzo alle vicende giudiziarie della Liguria, l’autore ci propone questo suo racconto scritto per gli amici. Parla di un altro sfacelo, non morale ma ambientale, che riguarda il litorale del ponente genovese.

Sono nato in riva al mare, una domenica mattina di ormai tanti anni fa. Chi ha la fortuna di venire al mondo e di crescere davanti al mare ne conserva l’immagine e il ricordo per il resto della sua vita: è come se avesse ricevuto il battesimo direttamente da una delle meraviglie del creato. Un tempo che non tornerà più – e non solo per me ma per tutti coloro che hanno visto lentamente e inesorabilmente mutare il volto e la fisionomia di quell’ambiente che ci era stato conservato e tramandato da millenni di storia – quella “maenn-a” (la spiaggia, la marina) davanti alle case, oltre la ferrovia, faceva profondamente parte della nostra esistenza, era una risorsa, una certezza e una speranza.

Una forza devastante, violenta che neanche i pirati turchi e saraceni che sbarcavano sulle nostre coste per depredare hanno avuto, si è come materializzata in pochi anni della contemporanea civiltà e ha distrutto l’ambiente nel quale fino ad allora, da generazioni e generazioni, molti avevano consumato intere esistenze. Non è vero che il mare è tutto uguale, non lo è neanche a se stesso: ora calmo e mite, ora minaccioso, piatto o mosso, burrascoso, si fa piccolo o gigantesco, increspato o flagellato dai venti, amico oppure ribelle, sta zitto, borbotta, urla, ti chiama e ti vuole sempre dire qualcosa di diverso.

Ma anche lungo l’intero litorale della mia Liguria non c’è un punto di costa che sia uguale agli altri. Ciascuno ha le sue preferenze e, in questo caso, mi riferisco solo a chi viene da fuori, per vacanza o per turismo, perchè chi invece è del posto il ‘suo’ mare lo riconosce a occhi chiusi, guardandolo, accarezzandolo o entrandoci per lasciarsi abbracciare da lui.

Non potrebbe averne o desiderarne un altro, sarebbe come un tradimento d’amore. Il mio amico Mario ’Puccin’ mi ripete da sempre che non c’è mare più bello di quello che ha davanti da tanti decenni: “meglio un pisciatoio a Voltri che una villa altrove”. Io lo provoco perché la sua risposta arricchisce anche me, mi conforta, mi rassicura la sua saggezza più dell’expertise’ di qualunque vuoto sapientone: “Mario – gli dico –  e se ti dessero in cambio una casa a Cortina oppure una a Montecarlo?”…”Niente da fare, io voglio stare qui”, mi risponde.

Puccin al mare gli parla, gli confida i suoi sentimenti, lo va a trovare come si fa con l’amico più caro: sono sicuro che in riva al mare ci ha pianto, ci ha riso e ci ha fatto l’amore. Penso che quando lui e Lolò, il Feipà, il Maneggia, il Picaggetta, U russu, il Bùru e gli altri pescatori del posto scrutavano la distesa d’acqua sapevano vedere ciò che invece restava invisibile ai nostri occhi: tra loro e il mare c’era più di un contatto fisico, c’era un’intesa, una confidenza, un sentimento, una passione.

Gente di una volta, cotta dal sole e impregnata di salino: facevano poche parole ma se ti stringevano la mano sentivi che era un gesto sincero, avvertivi la loro lealtà. Ricordo, bambino, le barche allineate dei pescatori di Prà e le loro reti – ‘tristi’ come quelle descritte da Troisi ne ‘Il postino’, perché fonte di dura fatica ma affettuosamente conservate e curate anche nel momento del loro riposo, cucite e riparate come un indumento, un capo da indossare.

Ancora adesso che abito a Pavia la prima cosa che vedo appena mi sveglio è un quadro che raffigura quelle barche: l’aveva dipinto un valente pittore genovese – il sig. Porcile – che esponeva le sue tele a Crocefieschi, un ridente paesino dell’entroterra ligure. Guardandolo intensamente ogni mattina si rinnova un’antica e tacita alleanza tra me e il mare. I gesti di un pescatore che stendeva la rete dalla barca erano sapienti e rituali, come se si ripetesse un’antica preghiera che chiede ogni volta indulgenza e fortuna: la barca partiva dalla riva e poi faceva un giro a semicerchio, lasciando cadere la rete. Poi da terra si tirava con forza sperando che il raccolto fosse clemente.

I pescatori sanno tutto del mare ma ne conservano molti segreti, come un buon montanaro fa con i suoi alberi. Tra il loro “ ma’ “ e quello dei bagnanti c’è come un abisso, due cose completamente diverse ma la differenza sta solo negli occhi e nel cuore di chi guarda perché un buon mare ti sa dare ciò che ha e sempre in rapporto a quello che gli chiedi.

Andavamo anche noi ragazzini a pescare con la canna in un tratto di spiaggia più riparato ma generalmente tiravamo su solo ‘baecche’ (pesci viscidi e grassi, pieni di spine). Nelle sere d’estate, anche con i nostri genitori, scendevamo a prendere i ‘muscoli’ (i mitili) che erano attaccati agli ’scoggi’ (gli scogli) e poi si mangiavano sulla spiaggia, tra i fuochi accesi, dopo aver fatto il bagno.

Il mio rapporto con il mare era cominciato molto presto, da quando ero piccolino. Mi hanno detto – io non posso ricordare – che mio padre mi portava a cavalluccio sulle spalle, attraversando la ferrovia dallo stretto sottopasso e io ogni volta gli dicevo: “tento tetta papà” (‘attento alla mia testa, papà), mentre lui camminava lì sotto e poi, una volta usciti:”pù tento tetta papà”(‘basta attento testa, papà). Quella cantilena mi è stata ripetuta per anni e a sentirla mi veniva quasi noia: vorrei che qualcuno me la raccontasse ancora oggi ma purtroppo non c’è più.

Poi ho conservato quel buon rapporto con la spiaggia e con il mare per il resto della mia vita, come un rituale magico e intimo che ogni volta si rinnovava. Anche recentemente, tornando dal mio quotidiano pendolarismo ligure-lombardo, non potevo fare a meno di passare a salutare quell’amico, specie in autunno quando la tramontana lo increspava in superficie e lo rendeva piatto e cangiante nei colori. Allora scendevo, a qualunque ora tornassi da Milano, ed entravo in acqua, mi lasciavo trasportare dalla brezza, restavo a pelo, come inebriato dalla solitudine e godevo di tutto quello spazio circondato solo da decine di gabbiani.

Quando ne avevo la forza mi facevo una lunga bracciata: settecento metri a dorso seguendo la linea della costa e il ritorno a stile libero. Ricordo che una volta il mio grande amico Luciano, esperto compagno di gite in bicicletta (le vendeva in un negozio che aveva il suo nome ed era stato pure un valente ciclista) aveva seguito dalla spiaggia quella mia salutare nuotata e una volta giunto a riva (ero uscito dal mare come un bronzo di Riace)  mi aveva detto:”ma eri tu che nuotavi?….che bestia!”, come a sottolineare il valore dell’impresa. Detto da lui, sportivo da sempre nonché padre di un campione olimpionico e mondiale di pallanuoto –  Lello –  era un complimento da incorniciare, da conservare nella galleria dei ricordi.

Ogni tanto ci penso ancora oggi, che invece ho la pancia e non ho più il tempo e la forza di ripetere quell’esercizio, peraltro più salutare di qualunque dotto culturismo da manuale. Più bravi di me erano i coraggiosi che si buttavano – e lo fanno tuttora – nell’acqua gelida di gennaio, per il cosiddetto ’cimento invernale’: vinceva e vince sempre chi resta a bagno più a lungo. Dopo una nuotata una bella ‘tarcia’ di fugassa (‘un pezzo di focaccia’) o addirittura un piatto di ‘anciue pinn-e’ (di acciughe ripiene) mi riconciliavano con le fatiche della giornata e con le parole della gente.

Il mare fa parte di me, mi è entrato nell’anima, mi pervade i sentimenti, mi dà respiro: camminare sulla spiaggia sassosa, anche in pieno inverno, mi rilassa e mi ritempra anche se è un lusso che mi concedo poche volte, dato che adesso abito tra le – pur sempre affascinanti – brume della pianura. Ma davanti alla casa dove sono nato il mare di una volta non c’è più, come se fosse passato di lì un folletto maligno che recava un sortilegio. Ancora oggi, anzi proprio adesso mentre scrivo, mi capita di guardare il volto deturpato della natura di un tempo, la trasmutazione dell’ambiente: è come se il passato fosse stato sottoposto ad un intervento chirurgico che ne avesse cambiato la stessa identità.                  

Ciò che Dio aveva creato e l’uomo aveva conservato quasi inalterato, con una presenza mite e amica della natura non esiste più, sostituito dal riempimento del mare e da colate di cemento, gigantesche gru, strade, ferrovie, containers.

Solo chi ha visto ciò che esisteva prima può ricordare e cullare nella memoria e nella nostalgia quella parte dell’esistenza che ci riempiva lo sguardo di cose semplici e importanti a cui non abbiamo forse saputo attribuire il giusto valore.