[…] Non confondiamoci le idee, non lasciamoci irretire dal clamore degli improvvisati moralizzatori e degli immancabili profeti di prossime sciagure. Le emozioni, gli scontenti, le rabbie che si manifestano qui e lì nel corpo elettorale vanno sempre rilette nell’ambito proprio: grosso modo, ci sono le reàzioni che nascono dalle povertà antiche e nuove, povertà che più facilmente si comprendono alla luce della cultura dello Stato sociale; ci sono poi le reazioni che sono da benessere e da ricchezza che mi richiamano alla mente qualcosa dei conflitti patrimoniali delle famiglie ricche del XVIII secolo: élites della finanza e dei grandi affari, che coltivano il rifiuto della politica ovvero il culto alla moda di un ritornante apoliticismo, di un altro non expedit, praticato con misura e sufficienza verso i cosiddetti partiti del Palazzo.
Tutte reazioni che possono diventare pericolose, quando si rivestono di motivazioni che appaiono di senso comune. Ci sono anche le reazioni delle piccole e grandi arroganze di chi ritiene di disporre come che sia del potere e di tutelarsi all’ombra del partito.
Resto fermo nel convincimento che è ancora nei grandi partiti della tradizione democratica repubblicana nazionale la capacità di leggere, interpretare e tradurre nella positività di un nuovo grande disegno politico i segnali per un cambiamento giusto, appropriato, adeguato ai tempi nuovi. A mio avviso, come non è più visibile il Nemico del vecchio e sfinito Comunismo di ieri, così non è visibile alle porte nessun Fascismo. Primitività istintive, orgogli e intemperanze localistici, ribellioni di senso comune, non richiedono per essere capiti la rievocazione di chiavi interpretative legate agli schemi della letteratura antifascista.
Guai se i partiti tradizionali mancassero al loro ufficio storico di riformare lo Stato, guai se, per la loro interna inerzia, cedessero al ricatto delle nuove Signorie corporative che albeggiano nel suolo cedevole e paludoso di false ideologie produttivistiche.
Non c’è tempo per nessuna autocontemplazione, dobbiamo camminare guardando un po’ più in alto delle nostre misure quotidiane, così come seppero fare uomini come Sturzo, De Gasperi, Ferrati, Dossetti, Piccioni, Vanoni, Scelba, Rumor, Saraceno e altri che sono ancora fra noi, la cui nobiltà e generosità politica e civile fo ed è indiscussa; dobbiamo attrezzare il partito in modo meno burocratizzato, meno legato all’esercizio quotidiano del potere, per farne uno strumento di ascolto più diretto e sensibile dei problemi e delle esigenze nuove che, in questa fase ciclica di transizione, sono al fondo della tumultuosa richiesta di più autonomie, di più verità, di più autenticità, una richiesta che sale dalle viscere di questa nuova storia, che non vediamo ancora, ma che sentiamo vicina.
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