Una esigente rilettura della politica di De Gasperi

Riproponiamo l’articolo pubblicato stamane sull’edizione cartacea di “Avvenire”. Sempre stamane, in San Lorenzo fuori le Mura, Mons. Daniele Salera, Vescovo Ausiliare del Settore Roma Nord, ha celebrato la Messa in suffragio dello statista trentino.

La distanza che ci separa da Alcide De Gasperi, scomparso il 19 agosto del 1954, non è un alibi per ignorare la sua lezione. L’Italia restituita a dignità di nazione, dopo l’immane disastro della guerra, è merito suo; egualmente la scelta a sostegno di un’Europa sovranazionale, concreta espressione di pace e di progresso, nonché la contestuale adesione strategica al Patto atlantico. Ci riuscì per capacità di leadership, ma anche per attitudine al dialogo e alla cooperazione con altre forze politiche. Il paradigma degasperiano costituisce il modello di democrazia repubblicana che ha resistito negli anni, malgrado tutto, a forzature di vario tipo. La personalizzazione della politica e la fine dei partiti tradizionali ne hanno indebolito le strutture portanti, senza però determinare un loro tracollo irrimediabile.

De Gasperi non ha gestito una politica, semmai l’ha inventata. Senza di lui la Democrazia cristiana non sarebbe esistita o almeno non avrebbe dispiegato la sua funzione centrale nell’arco di mezzo secolo. È interessante ricordare cosa avvenne. Con il ritorno alle libertà, i partiti soppressi dal fascismo mettevano in campo il diritto a guidare il Paese. Una volontà, questa, che animava confusamente anche il mondo cattolico. I vecchi popolari rivendicavano la loro storia, i giovani della Fuci e dell’Azione cattolica quella storia neppure la conoscevano. L’antifascismo degli uni era l’afascismo degli altri, dunque il “ritorno a Sturzo” appariva al tempo stesso un appello alla coerenza o un azzardo pericoloso, a seconda delle generazioni di appartenenza. In più la Chiesa di Pio XII tendeva ad assorbire l’istanza politica in un progetto di civiltà universale, contro la minaccia del comunismo, nutrendo l’idea di un “blocco cattolico” non identificabile con un partito.            

Comunque, in anticipo sulla caduta di Mussolini, De Gasperi gettò le basi di un’azione unitaria dei cattolici. Insomma, fece il partito. Raccolse attorno a sé gli eredi del Ppi, strinse l’accordo con i neo-guelfi lombardi, aprì le porte agli intellettuali del Codice di Camaldoli, incluse energie nuove – si pensi all’apporto del giovane Dossetti – nel circuito di questa sua rinnovata Democrazia cristiana. Vinse pertanto, con l’aiuto decisivo di Mons. Montini, le resistenze che si annidavano in Vaticano a riguardo di una delega così ampia, con la riduzione alquanto evidente dello spazio di manovra a disposizione della gerarchia ecclesiastica; una gerarchia preoccupata, in definitiva, di mantenere libere le proprie mani qualora le circostanze avessero imposto la formazione di un generico blocco anticomunista, senza confini a destra. 

Al contrario, il disegno di De Gasperi si affermò in ragione di una politica di larga convergenza democratica, al riparo dagli “storici steccati” tra laici e cattolici. Era l’invenzione del centro dinamico e innovatore. Ciò rendeva credibile, fuori da vecchie pregiudiziali, l’alternativa al miraggio del comunismo: le riforme, fatte sul serio, al posto della rivoluzione. Lo statista trentino guardava lontano. Anche l’Europa, secondo questa visione creativa, avrebbe potuto sviluppare appieno il processo d’integrazione economica e politica grazie essenzialmente all’incontro delle forze di matrice cristiana, liberale e socialista. Oggi è ancora così, non c’è un futuro migliore per l’Italia e l’Europa se non si ridisegna un  orizzonte di collaborazione. Se manca il centro, diventa tutto più complicato. Questo è il nodo della vicenda democratica odierna. Come scioglierlo è la domanda che scaturisce da una esigente rilettura della politica di De Gasperi.