[…] Ma intanto le minoranze giovanili che sorreggono il cosiddetto movimento studentesco si trovano dinanzi alle ambiguità proteiforme delle direzioni del movimento medesimo, incerto tra auto-esclusione e decisa innovazione politica. Con il termine di «auto-esclusione» sono designabili diversi tipi di comportamenti e di giustificazioni. In particolare:
- a) il «movimento studentesco» si auto-esclude dal sistema dei partiti, di maggioranza e di opposizione e dalle stesse centrali sindacali, pel timore vivissimo di essere, come si dice, strumentalizzato dall’establishment centralizzatore, inclusevi le gerarchie e le burocrazie dei partiti e dei sindacati di estrema sinistra;
b) il «movimento studentesco» vuole auto-escludersi dal sapere accademico e dalla cultura «borghese», assunti come strumenti di repressione e anticipata integrazione. Il riferimento alla «rivoluzione culturale» e a Mao vanno colti in tale direzione;
c) il «movimento studentesco», sviluppatosi quasi solo alla dimensione orizzontale delle assemblee, si auto-esclude perché soltanto nell’auto-esclusione sembra essere possibile una genuina crescita del movimento, fuori da contaminazioni che ne deviino la prospettiva di nuova forza politica egemone, stimolante generale alla ripresa del ruolo rivoluzionario della classe operaia ora acquetata;
d) l’auto-esclusione assume, infine, per taluni gruppi, un significato radicale: di rifiuto a diventare adulti poiché il mondo degli adulti è indissolubilmente legato ai valori sociali rifiutati.
La assolutizzazione dell’auto-esclusione come rifiuto di civiltà, implicita in quest’ultima giustificazione, sembra, nei discorsi e negli scritti più recenti, dei cosiddetti portavoce o leaders contestatari, cedere di molto rispetto alla esigenza, più che alla prospettiva, del provare le forze giovanili disponibili in campo aperto, sul terreno della lotta politica nei confronti del potere, dentro e fuori le università.
La scelta della via di innovazione politica e sociale, del resto già presente come meta nella fase prevalente dell’autoesclusione, comincia a premere.
Ma il che fare politico si presenta, per i leaders del «Movimento studentesco» ricco di incognite. Il passivo riconosciuto della frattura fra quadri e base studentesca, i divari e le precise difformità nei livelli di maturazione politica della popolazione universitaria, degli studenti medi, degli studenti lavoratori, nelle varie sedi e facoltà italiane, implicano, per essere bilanciati, sforzi e tempi e iniziative direzionali assai vasti e complessi. Specie se le varie componenti del cosiddetto « movimento studentesco » intenderanno ancora proseguire lungo la dimensione organizzativa orizzontale, decentrata, partecipativa col rispetto delle varie formazioni locali di ateneo, di orientamento, di tipo di studi.
Non a caso il problema nodale posto dal convegno nazionale del «Movimento studentesco», a Ca’ Foscari, che si è tenuto a Venezia ai primi di settembre, è stato — a quanto risulta — piuttosto quello del come pervenire all’unificazione delle lotte, all’interno del «Movimento studentesco» e tra questo e le lotte operaie e contadine anziché quello delle mete. Il secondo interrogativo che ci siamo posti, all’inizio, «quali le potenzialità e gli sbocchi delle proteste studentesche; se solo riformistiche o invece rivoluzionarie, se verso un nuovo partito o per nuovi movimenti di massa, ecc.» è destinato per ora a restare senza risposta. Il ragionamento qui diviene essenzialmente politico, di prassi, un ragionamento che non seguiremo oltre.
Siamo in presenza di fenomeni di effervescenza sociale, di collective behavior, anche nel rapporto tra portavoci e leaders da un lato e masse studentesche dall’altro, che sono tanto meno sottovalutabili quanto più imprendibili entro gli schemi organizzativi e politici correnti.
Se vi sarà, come è prevedibile, una ripresa della contestazione studentesca, essa viene dopo i fatti di Cecoslovacchia e le ripercussioni internazionali del ritorno dell’U.R.S.S. a posizioni della più rigida guerra fredda.
Quale che sia tale futuro prossimo, possiamo concludere che, al di là e anzi malgrado le contraddizioni e le incertezze, le cariche anarcoidi e nichilistiche, i mali della violenza fisica praticata e subita, l’effervescenza della contestazione giovanile, con la sua logica del rifiuto, non è «come pure si crede e si spera da più parti, acqua che passa».
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