Aldo Cazzullo, con l’intervista di ieri sul Corriere della Sera, ha dato spazio al ragionamento politico del candidato alla segreteria nazionale del Pd, Nicola Zingaretti. Si tratta per adesso della presentazione dell’unico candidato in campo nell’attesa che si precisi la risposta della ex maggioranza facente capo a Renzi. Di questa ex maggioranza non fanno più parte Gentiloni, Fassino e Franceschini, disposti (più o meno) a sostenere il Presidente della Regione Lazio.
È scontato però che sabato prossimo, il 7 luglio, l’Assemblea del partito confermi alla guida del Nazareno l’attuale reggente. Sarà lui, il cauto Martina, a tirare le file dell’organizzazione per allestire agli inizi del 2019 l’atteso congresso. Si prospettano dunque mesi e mesi di dibattito sul futuro del partito cardine del centrosinistra. Siamo solo agli inizi.
Intanto Zingaretti ha fatto uno sforzo, nel colloquio con Cazzullo, per impostare la definizione di una linea in grado di rimuovere dallo stallo un partito che dalle urne è uscito fortemente ridimensionato. La crisi si avverte ovunque, a Roma e in periferia, essendo diffusa la condizione di smarrimento dei vertici e dei semplici militanti. Ne risente la mancata configurazione, dal 4 marzo ad oggi, di un disegno all’altezza della sfida grillo-leghista. L’opposizione sembra nutrirsi più di obiezioni episodiche, senza adeguato respiro politico, che non di nuova tensione strategica.
Zingaretti, in questo quadro, non ha sfoderato l’arma vincente. Il suo programma, appena abbozzato, gioca sui tasti della rassicurazione di un esercito in disarmo. Generosamente invita alla fiducia, perché – sostiene – la sinistra contiene in sé, malgrado tutto, le risorse del suo riscatto; ma non riesce, se non a stento e con parole logore, a tratteggiare quella che dovrebbe rappresentare la “nuova fase” del partito. L’uscita dalla crisi richiede l’abbandono di un’illusione: non è di per sé lo stare insieme, uniti nel nome di una tradizione e fiduciosi nel potere di evocazione del termine “sinistra”,che può salvare il Pd.
L’errore di Zingaretti, o meglio si dovrebbe dire il limite che ne spegne anzitempo le credenziali di leader della rinascita, sta nel riproporre una figura di partito come luogo di incontro e collaborazione tra donne e uomini impegnati ad assottigliare o scolorire, in vista di questa unità, il loro essere e riconoscersi nell’alveo di una specifica identità di valori e principi. Dal 2008 ad oggi si è dovuto infine constatare il sostanziale fallimento di un simile approccio post-identitario e genericamente pluralista.
Con Zingaretti si torna all’antico, sebbene con un vocabolario aggiornato. Si torna, volere o volare, ai fasti – se tali erano – della segreteria Bersani. E quindici torna, con un peso elettorale ridotto e una tensione morale assai più modesta, a celebrare il mito di una sinistra autosufficiente, quand’anche nelle intenzioni si voglia declinare come sinistra aperta e inclusiva. A chi interessa, davvero, questo “ritorno a Itaca” dell’Ulisse in versione zingarettiana?