Dobbiamo interrogarci sul lento declino dell’Occidente

Non esiste una civiltà senza radici: tutte vanno rispettate ma questa dilagante abdicazione ai nostri riferimenti culturali e identitari può portare solo ad una società amorfa e defedata.

Lo scorrere del tempo nasconde mutamenti e trasformazioni che percepiamo nella loro dimensione globale ma anche attraverso i segni che leggiamo nelle piccole cose. Ci sono – in questa epoca travagliata e sempre minacciata dall’incipiente pericolo del baratro – guerre devastanti e genocidi che coinvolgono gli Stati e i popoli, le etnie, le culture, le religioni: non c’è limite al peggio nè spazio per una civile resipiscenza. Sono fatti che ci raccontano l’inquietudine umana, la bramosia del potere, l’assenza della memoria, i pericoli del fondamentalismo, la messa al bando di ogni limite: è una minaccia continua che si espande a macchia d’olio e dimostra quanto sia insieme crudele e stupido il genere umano. 

Le buone notizie non si trovano più neanche nel mercatino dell’usato, mi aveva detto Maurizio Belpietro, e se da qualche parte narrano una dimensione umana che semina gesti di bontà e desiderio di pace, restano occultate nella vorticosa e mistificante narrazione dei social media. Ci sono anche- dicevo – segni che intercettiamo nella quotidianità e durano un battito di ciglia ma – sedimentandosi e ripetendosi – finiscono per lasciare traccia. Gli uni e gli altri fenomeni – quelli grandi e incontenibili come le guerre, i conflitti, la sostenibilità ambientale e quelli dentro o poco oltre l’uscio di casa – ci dicono che il mondo sta cambiando: tempora mutantur et nos mutamur in illis. 

La Storia dell’umanità è sempre stata caratterizzata da un ora lento ora accelerato processo di trasformazione. Leggendo e recensendo in questi giorni un saggio di Giuseppe De Rita sul concetto di sviluppo legato all’autopropulsione sociale, ho radicato il convincimento che i cambiamenti intorno a noi non sempre si sostanziano nell’idea di progresso. Ci sono state epoche talmente caratterizzate da radicamenti culturali identitari da esserne denominati: pensiamo al Rinascimento, all’Illuminismo, al Romanticismo. L’avvento del dominio tecnologico ha impresso una forte dinamica evolutiva che non siamo riusciti a connotare oltre il concetto di complessità: rileggere Heidegger, Habermas, Benjamin e Bauman. Trovo che da alcuni decenni si sia acuìto il tema della sostenibilità generazionale, in ambito culturale, nel contesto lavorativo, nella comunicazione e nelle relazioni umane. 

La democrazia resta una chimera inagibile, il relativismo etico e culturale la sovvertono e la mettono continuamente in discussione. Siamo circondati da feticci che diventano orpelli e luoghi comuni: privacy e trasparenza anziché emancipare, facilitare e semplificare mettono le manette ai polsi delle relazioni umane. Si parla tanto ma non ci si comprende, il soggettivismo radicato nei comportamenti umani – ammantato da nobili ideali come la libertà di espressione e la dignità del singolo crea situazioni di incomprensione e monadi vaganti e incomunicabili. Ci si affida allora ai luoghi comuni, alle opinioni degli influencer, alle derive miste tra minimalismo e nichilismo, delirio parossistico, effetti speciali e rigurgiti di volontà di potenza. La conflittualità sociale dilagante ne è prova tangibile.

Paradossalmente le culture tradizionali si conservano nei contesti istituzionali e sociali delle tirannie e delle dittature. Ancor più eclatante il fatto che ciò avvenga laddove il fondamentalismo religioso si mescola alla secolarizzazione delle sue regole: si taglia la testa alle donne che non indossano il velo, si lapidano quelle che hanno abbassato il copricapo mostrando gli occhi. Incredibile che l’Occidente che fa una bandiera dell’emancipazione femminile si presti ad essere così benevolo e indulgente verso coloro che trovano accoglienza e rivendicano diritti umani senza accettare le regole che la tradizione culturale del Paese che li ospita impone. 

Dobbiamo fare quadrato attorno alle nostre democrazie, come mi ha detto Vittorio E. Parsi “la difesa della democrazia domestica passa attraverso la leadership delle democrazie nel mondo”. È in atto da anni in Occidente una deriva minimalista (v. cancel culture), ciò che non accade dove le tradizioni e le radici identitarie sono inamovibili e rafforzano la sedimentazione del potere. In Russia il Patriarca Kirill parla di guerra santa in nome della nazione, da noi Papa Francesco si rivolge al mondo intero e invoca la pace universale: non sono la stessa cosa. Lo stesso dicasi per ciò che predica l’islamismo: shari’a, fondamentalismo, sottomissione della donna, distruzione di tutto ciò che l’occidente rappresenta.  

Nel caravanserraglio sociale in cui viviamo c’è di tutto e di più: salvaguardare le identità nazionali, conservare e custodire la cultura tramandata sono diventati peccati di lesa maestà. Non credo che scegliere la democrazia come modello di convivenza sociale imponga di assumere una sorta di ‘pensiero debole’ e acefalo, egualitario, rinunciando ai valori ereditati. 

Eppure da tempo stiamo rinunciando alla nostra identità e rinneghiamo la storia, i valori fondativi dell’essere italiani o europei, in nome di un’intercultura che non esiste perché troppo profonde sono adesso le radici che ci caratterizzano. Dio, Patria e famiglia hanno costruito un modello sociale perfettibile e con declinazioni magari non condivisibili e forse ora obsolete ma la loro rimozione in tutti i gangli e i meandri del vivere sociale non è stata sostituita da riferimenti più convincenti. Non erano e non sono una bestemmia.  

Il pensiero debole dilaga e non dobbiamo confondere il senso di appartenenza all’idea di un ‘continuismo’ identitario (come lo chiamerebbe De Rita) con le derive negative dei nazionalismi e dei populismi. In una società aperta c’è spazio per l’inclusione, la convivenza pacifica, il dialogo: ma sempre nel rispetto delle regole.

In questi giorni Sunak ha stabilito che gli stranieri per abitare nel Regno Unito devono possedere un reddito di 45 mila euro, noi non siamo arrivati a tanto ma ad esempio le banlieue francesi sono un grattacapo non da poco per Macron: un mix etnico ormai radicato e potenzialmente esplosivo. Ora, ascoltare in TV che la statua di Vera Amodeo dedicata alla maternità (una donna che allatta un neonato) non trova né pace di critica né sistemazione logistica in una via o piazza di Milano, perché giudicata anacronistica e non espressione di valori universalmente condivisi, lascia di stucco. È una delle tante negazioni che stanno smantellando pezzo a pezzo la nostra Storia e la nostra cultura mentre hanno ancora diritto di cittadinanza in tutto il pianeta. Ci sono Paesi modelli di democrazia dove queste cose non succedono: tutto il mondo ci guarda e ride delle nostre stupide malinconie, dei nostri crucci, delle nostre remore, del nostro – mi sia consentito – paraculismo salottiero.  

Così come la vicenda dei presepi che “offenderebbero” le altrui sensibilità, le scuole chiuse nei giorni del Ramadan, la rimozione dei Crocifissi dalle aule. Ha fatto bene Valditara a mettere paletti che spettano a un Ministro. Chi visita un Paese del Nord Africa non riceve uguale trattamento: perché allora il pensiero debole, quel senso di colpa atavica di essere gli eredi di una civiltà che ha espresso valori positivi si insinuano nel pensiero condiviso fino a dover chiedere scusa e vergognarci di ciò che siamo e siamo stati?

Non esiste una civiltà senza radici: tutte vanno rispettate ma questa dilagante abdicazione ai nostri riferimenti culturali e identitari può portare solo ad una società amorfa e defedata. Aspettiamo ora l’intelligenza artificiale per rimuovere il resto che rimane.