Gaza, forse comincia a intravedersi uno spiraglio di luce.

Il sabotaggio degli Accordi di Abramo era tra gli obiettivi del 7 ottobre. Sta qui il fallimento strategico di Hamas. A quegli Accordi bisogna ritornare. È una sfida per tutti, anche per Israele.

A otto mesi dalla mattanza del 7 ottobre e dopo sette mesi di attacco a Gaza si può trarre un provvisorio bilancio politico di questa immane distruzione di vite umane? Forse sì, anche se una analisi di questo tipo rischia di apparire cinica e fuorviante, a fronte delle sofferenze patite da così tante persone, da così tante famiglie.

Ma per arrivare al momento nel quale le parti in guerra e i rispettivi alleati più o meno impegnati con essa arriveranno alla consapevolezza necessaria per decidere uno stop alla guerra è necessario che ciascuna sia in grado di valutare con freddezza lo stato delle cose. È la logica, perversa ma inesorabile, di ogni umana follia, quale la guerra è.

Lo stato ebraico è riuscito nell’impresa di passare agli occhi del mondo dalla parte del torto dopo aver subito l’attacco alla propria popolazione più feroce dai tempi dell’Olocausto. La decisione del governo Netanyahu di stanare Hamas dai tunnel di Gaza distruggendo infrastrutture e abitazioni della Striscia e uccidendo migliaia di civili ha posto Gerusalemme sotto una luce negativa finanche agli occhi degli alleati più fedeli e tradizionali. La sconfitta, anche sul piano mediatico (con tutto quello che ciò significa nella moderna società della comunicazione) è da questo punto di vista netta e foriera di gravi problemi futuri perché con la sua scellerata azione militare Israele si è pregiudicato il sostegno, le simpatie delle giovani generazioni occidentali.

Da un punto di vista più specificamente militare occorre distinguere il piano immediato, quello relativo all’invasione di Gaza, dal piano strategico più generale. A Gaza non si sa ancora quando finirà ma si può fin d’ora sostenere che Hamas ha subìto pesanti perdite e tuttavia non è stato sconfitto (diversamente, come vedremo, che sul piano politico). E nemmeno sono stati liberati tutti gli ostaggi, alcuni tuttora detenuti dai loro rapitori e altri ormai deceduti. 

Allargando l’orizzonte allo scontro per procura con l’Iran (che è il vero problema di fondo, sul quale varrà la pena di concentrarsi in futuro) occorre rilevare che la superiorità israeliana è ancora indiscutibile. Anche se pagata al caro prezzo di una esistenza vissuta in perenne stato d’allerta, su ogni lato dei propri confini geografici.

Non solo. Il mondo arabo sunnita teme i persiani sciiti ancor più degli ebrei. E dunque, se si osservano con attenzione le posizioni assunte dagli stati musulmani della regione, sia quelli mediterranei sia quelli del Golfo, dietro le accuse di facciata a Gerusalemme si cela una qual certa volontà di non smantellare i famosi Accordi di Abramo sino anzi ad allargarli a Riad. Ci vorrà tempo, è ovvio. Ma il mix composto dall’avversione verso la rivoluzione islamica iraniana, così sovversiva nei confronti del sunnismo e dei regimi ad esso collegati, e dalla consapevolezza della devastante forza distruttiva di Israele, suggerisce ai regnanti dell’area una comprensibile prudenza. Il principale dei quali, Mohammed bin Salman, è impegnato in un progetto di sviluppo del proprio paese talmente ambizioso da imporre necessariamente una condizione di relativa calma nell’area, ragion per cui stava lavorando, prima del 7 ottobre, pur con tutte le cautele del caso e con il discreto e interessato supporto di Washington, al compromesso necessario per siglare anch’esso gli Accordi. Tutto lascia intendere che quel progetto non sia stato abbandonato, anche se inevitabilmente i tempi si sono dilatati.

E proprio qui sta la sconfitta politica di Hamas: non tanto sul territorio, quanto in termici strategici. Perché il sabotaggio degli Accordi di Abramo era il principale degli obiettivi del 7 ottobre. Hamas non ha valutato adeguatamente, pur essendo un movimento sunnita, quanta diffidenza (per usare un elegante eufemismo) ci sia nel mondo arabo verso l’Iran degli ayatollah, quanto timore di un suo possibile raggiungimento dello status di potenza atomica, quanto terrore di una minacciata invasione sciita vagheggiata a Teheran con il disegno geopolitico della famosa “mezzaluna sciita”, il corridoio che da Teheran raggiunge il Mediterraneo siriano.

Il sostegno persiano a Hamas è da questo punto di vista un handicap per il movimento terrorista palestinese. Che non è riuscito neppure, nonostante il massacro di Gaza, a mobilitare alla guerra i “fratelli” palestinesi di Cisgiordania i quali prediligono tuttora la soluzione dei “due Stati”, invece negata da Hamas, per la quale statutariamente vale solo la distruzione totale di Israele.

La sconfitta mediatica di Israele e quella strategica di Hamas dovrebbero, si spera fra non molto, aprire lo spazio per una trattativa che, guidata da americani, egiziani e stati del Golfo, conduca in un primo tempo alla fine dei combattimenti. Per poi avviare una seconda fase, nella quale attraverso l’ampliamento degli Accordi di Abramo si possa arrivare alla soluzione ipotizzata da (quasi) tutti gli attori in gioco: i due Stati. A quel punto Israele dovrà decidere. Ma non potrà, realisticamente, decidere di isolarsi dal resto del mondo.