Questa rapida rassegna non intende alimentare l’indifferenza di quanti guardano con fastidio alle nostre istituzioni e alla politica o indurre un senso di frustrazione e rassegnazione in quanti al contrario sono convinti della loro necessità. Piuttosto siamo convinti che solo prendendo atto con onestà della realtà nella quale ci troviamo è possibile chiederci se abbiamo ancora bisogno del Parlamento come istituzione e se abbia dunque senso restituirgli vitalità e centralità. Vi è un riferimento fondamentale a cui guardare e da cui partire per provare a dare una risposta: la funzione propria del Parlamento è di essere il luogo delle mediazioni, in cui le diverse componenti della società, portatrici di visioni distinte, si ritrovano per confrontarsi e poi decidere quali passi compiere per realizzare il bene comune. Questa dimensione della mediazione è un valore centrale, di cui riconosciamo di non poter fare a meno, eppure negli ultimi decenni è stata messa in discussione da quella logica di disintermediazione che si sperimenta in diversi ambiti, incluso quello politico, dove si traduce nell’inseguimento illusorio della democrazia diretta come panacea di tutti i mali. Nella prospettiva del premierato, che enfatizza la relazione diretta tra eletto ed elettori, quali luoghi e spazi resterebbero per la mediazione? In quale sede istituzionale potrebbe trovare composizione la conflittualità a livello sociale? Non certo in Parlamento, come d’altronde attesta l’esperienza di Paesi vicini come la Francia. Individuare questi nuovi spazi di mediazione è dunque un cantiere aperto e impegnativo, perché le soluzioni finora applicate nei sistemi maggioritari stanno rivelando la propria insufficienza.
Di fronte a una sfida aperta e incerta, l’alternativa che si può prospettare e che ci sembra più sensata è quella di rivitalizzare il luogo di mediazione per eccellenza, proprio quel Parlamento che sembra inesorabilmente svuotarsi. Nel discorso pronunciato in occasione del secondo giuramento come Presidente della Repubblica, il 3 febbraio 2022, Sergio Mattarella richiamava il «bisogno di costante inveramento della democrazia». Questo compito non si può realizzare riproponendo con nostalgia il passato senza vagliarne la sensatezza e la bontà nel contesto presente, avendo come riferimento imprescindibile la ricerca del bene comune. Per questo è certamente opportuno ripensare alcuni elementi istituzionali, ad esempio quello del bicameralismo perfetto, che non assolvono più alla funzione per cui erano stati pensati. Tuttavia l’attualizzazione delle forme della democrazia richiede di confrontarsi con le sfide di questo tempo tanto sul piano politico e istituzionale (le polarizzazioni e la sfiducia, gli equilibri da definire nei rapporti tra lo Stato e le Regioni da un lato e l’Unione Europea dall’altro), quanto su quello sociale e culturale (in primis i cambiamenti in atto a livello tecnologico, l’inverno demografico, le crescenti diseguaglianze e le tensioni che ne scaturiscono).
L’ampiezza e la complessità di questo compito ci fanno percepire quanto sia necessario un luogo in cui sia davvero possibile vivere il delicato e vitale esercizio della parola e dell’ascolto – come è implicito nell’etimologia stessa della parola Parlamento, che richiama l’atto del prendere la parola – in vista di una decisione che non sia frutto dell’imporsi della voce di chi si trova in una posizione di maggiore forza. Ponendosi in questa prospettiva, si coglie quanto il Parlamento sia ancora rilevante e che non è necessariamente destinato a essere ridotto a certificare la vittoria elettorale di una parte e a ratificare di volta in volta le decisioni prese in altre sedi. La preoccupazione principale che riguarda sia i singoli che le istituzioni dovrebbe allora essere quella di individuare e introdurre le condizioni che sul piano istituzionale e delle dinamiche sociopolitiche permettano al Parlamento di tornare a essere in modo nuovo il luogo del confronto e della progettazione del futuro del Paese.
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