Se la Democrazia Cristiana è stata il partito del Paese, Alcide De Gasperi è stato il politico – o meglio, l’uomo di Stato – che ha messo il Paese davanti al partito e che ha lasciato in eredità, a chi riflette dopo oltre 70 anni dalla sua morte una lezione ancora attuale.
La domanda che si è posto Gianfranco Astori nella sua lezione degasperiana di quest’estate è una domanda decisiva: come un partito complesso, anche diviso, poté affrontare la sfida di riunificare il Paese?
La strada in salita
Questo interrogativo richiama alla memoria un aspetto che spesso trascuriamo quando parliamo di De Gasperi, soprattutto noi che ci sentiamo depositari di quella tradizione: tendiamo infatti a mettere in evidenza i successi, ciò che è riuscito, ma dimentichiamo la fatica, le difficoltà, le inimicizie, la strada in salita che egli dovette percorrere senza alcuna garanzia di arrivare a una destinazione certa.
Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana – la prima pubblicazione significativa in cui De Gasperi mette per iscritto la sua visione – nascono come una sorta di testamento: una riflessione maturata alla fine di una vita che, paradossalmente, dal punto di vista politico, stava ricominciando. Non lo sapeva, non lo pensava, ma quelle parole erano un messaggio nella bottiglia rivolto alle generazioni future.
Contro l’antilibertà demagogica
Da quel momento in poi, De Gasperi percorre un sentiero riconoscibile ancora oggi, a distanza di tanti anni. Usa le parole come argine contro l’antilibertà demagogica, intuendo per tempo che nel fondo del Paese esisteva un sentimento negativo che avrebbe accompagnato a lungo la sua azione politica. Questo sentimento non lo abbandonò mai del tutto e contribuì alle difficoltà che egli dovette affrontare, anche dopo aver vinto le elezioni e dopo essersi insediato saldamente alla guida del governo.
Nemici dichiarati e riconoscimenti inattesi
Spesso raccontiamo De Gasperi come se il suo successo fosse stato un destino naturale. Non lo fu. Implicava rischi enormi e avversità politiche fortissime. C’era un pezzo largo e minaccioso dell’Italia – da destra e da sinistra – apertamente ostile a lui. I fascisti lo chiamavano “l’austriacante” e lo consideravano un traditore; Togliatti parlò di “scarponi chiodati” in un comizio a mo’ di chiarimento su come avrebbe cacciato l’avversario nel caso avesse vinto il Fronte popolare. L’aggressività politica di quegli anni era reale e pericolosa.
È significativo che un qualche riconoscimento gli venisse paradossalmente da Mussolini, il quale, nel tramonto della Repubblica Sociale, disse che in futuro sarebbero potute emergere due figure: Gronchi e De Gasperi. Un riconoscimento che vale qualcosa, se letto nel contesto di quel frangente dtrammatico.
La fermezza dello statista
De Gasperi governò in modo profondamente diverso da Giolitti e seppe essere, con il suo stile, un grande statista. In alcuni momenti fu particolarmente determinato. Ricordiamo, ad esempio, il confronto con i monarchici e con il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, dopo il referendum istituzionale. A un certo punto De Gasperi disse: “Beh, se andiamo avanti così, domani uno di noi sarà in prigione”. Quella fermezza contribuì a far accettare il verdetto anche a Umberto di Savoia.
Le difficoltà con la Chiesa e dentro la Democrazia Cristiana
Ma le avversità non vennero solo dall’esterno. Anche in casa democristiana De Gasperi incontrò ostacoli, incomprensioni e diffidenze. Tendiamo a dimenticarlo con una certa indulgenza verso i nostri “padri”, ma De Gasperi dovette fare i conti con i franchi tiratori, con tensioni interne, con le famose schede bianche, con una seconda generazione democristiana che faticava a riconoscersi nel
suo stile e nel suo metodo.
Emblematica è la vicenda dell’udienza negata da Pio XII, e la lettera straordinaria che De Gasperi scrisse: “Come cristiano accetto l’umiliazione; ma come capo di un governo ho il dovere di chiedere conto delle ragioni per cui quell’udienza non mi viene concessa”. In quella frase c’è tutto De Gasperi.
Se vogliamo dirla fino in fondo, dobbiamo riconoscere che la difficoltà più grande De Gasperi la ebbe proprio nel rapporto con la seconda generazione democristiana. Dopo di lui, il segretario del partito diventa Fanfani, che è il meno degasperiano per carattere e formazione, e prima di questo evento inizia a profilarsi l’azione di Aldo Moro. De Gasperi ebbe il sospetto di essere stato messo in difficoltà anche da Dossetti, e forse da Moro stesso, allora sottosegretario agli Esteri, nel dibattito sulla NATO.
Un’eredità difficile
Tutto questo per dire che De Gasperi uscì da quella stagione con un’eredità enorme, ma difficile da metabolizzare. Dopo la sua morte, e fino al 1974 – quando Scoppola pubblica La proposta politica di De Gasperi – il degasperismo viene in parte archiviato anche nel mondo democristiano. Ciò non significa disconoscere la straordinarietà della sua figura, ma indica quanto fosse complessa e scomoda la sua lezione.
Vorrei chiudere affidandomi alle parole di Indro Montanelli, che non era certo un degasperiano. Questi racconta di un colloquio con De Gasperi: gli chiede di incontrarlo a casa, perché gli sembra più confidenziale. De Gasperi rifiuta: non intende confondere pubblico e privato. E così lo riceve in ufficio. Montanelli lo descrive tutto vestito di grigio, senza pennacchi, con gli occhi grigi e il volto di pietra grigia, una “grigia oratoria” che non conosce altri colori.
Alla fine di quel colloquio Montanelli scrive una frase decisiva: «Sento dinanzi a lui un gran rispetto senza timore, esattamente il contrario di quello che sentivo davanti a Mussolini: un gran timore senza rispetto». E conclude: «De Gasperi è l’antinàrciso, colui che parlando non si ascolta».
Ecco, credo che questa sia una buona ragione per cui, ancora oggi, vale la pena ascoltarlo.
N.B. Il testo, trascritto quanto più fedelmente possibile, non è stato rivisto dall’autore. Ecco il link per accedere alla video registrazione dell’intero dibattito:



















































