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Rinascita Popolare | Markus Krienke parla dei mali della Germania

[…] Krienke ha sottolineato come «il sistema politico tedesco soffra di una diffusa instabilità provocata dal crescere di Alternative fur Deutchsland (Afd), formazione di estrema destra con alcune propaggini a carattere neonazista. Su scala nazionale si colloca attorno al 20 per cento. Cifra che sale notevolmente nei lander dell’Est, soprattutto in Sassonia, Turingia e Brandeburgo, dove entro l’anno si svolgeranno le elezioni regionali e dove sfiora il 30 per cento. Uno dei temi forti dell’Afd è quello della cosiddetta reimmigrazione, cioè il ritorno a casa degli immigrati. Questione dirompente per la stessa democrazia tedesca e che ha dato origine a grandi manifestazioni di piazza contro questa destra che pure non si può liquidare solo come un rigurgito neonazista».

Afd nasce in realtà come reazione sovranista contraria all’euro e poi pesca nel malcontento dell’est, regioni dove riscuote i suoi maggiori consensi. All’est molti pensano che l’unificazione sia avvenuta con una sorta di colonizzazione dell’ovest che ha fatto tabula rasa del passato. Ad esempio, distruggendo il precedente apparato produttivo. Emerge quindi un crescente risentimento che l’Afd cavalca a gran voce e che porta a votare a destra ampie fette di elettori un tempo legati al vecchio Partito comunista.

In definitiva l’Afd è ormai in grado di condizionare il quadro politico. «Sinora – evidenzia Krieke – i cristiano-democratici hanno respinto qualsiasi accordo ma c’è da chiedersi cosa accadrà se il peso della destra radicale dovesse aumentare ancora. Magari accompagnato da una nuova flessione della Cdu, che sta perdendo fasce di elettorato conservatore avverse alla svolta centrista di Angela Merkel: rifiuto del nucleare, matrimoni gay ed accoglienza di un milione di immigrati. Certo, la Cdu punta soprattutto sui liberali della Fpd, ma i due partiti, sondaggi alla mano, non dispongono, da soli, della maggioranza necessaria a governare. Il coinvolgimento dei Verdi potrebbe essere un’ipotesi da esplorare ma certe impuntature ecologiste non collimano con l’elettorato liberale e democristiano. Resta la Grande coalizione tra Cdu ed Spd col rischio di far perdere consensi ad entrambi i partiti».

A livello europeo la Germania cerca il proprio spazio, differenziandosi su alcuni temi dalla Francia, come si è visto sulle truppe Nato nello scenario ucraino. Il rafforzamento dell’Unione europea è visto come un obiettivo necessario. Cdu, Fdp e Spd – pur con sfumature diverse sul debito o una più o meno accentuata venatura sociale – sono sostanzialmente d’accordo con un maggiore impegno verso l’unità del continente.

Secondo Krienke, il punto decisivo per comprendere meglio l’attitudine tedesca verso l’Europa è il rigore di bilancio. Una “frugalità” condivisa dal blocco dei Paesi nordici, in antitesi alla “prodigalità” dell’Europa mediterranea. La composizione di questo divergenza è un po’ la chiave con cui l’integrazione europea su fisco, bilancio e politica economica comune potrà ripartire con rinnovato vigore.

«Tutti comprendono che una maggior integrazione è indispensabile ma tutto è complicato dalle divisioni presenti tra i singoli Stati, per di più timorosi di perdere pezzi di sovranità. Eppure il minor peso economico e demografico dell’Europa nel mondo mostra che lo Stato nazionale non è più la soluzione. C’è peraltro bisogno di un nuovo assetto perché è difficile governare un sistema a 27 Stati le cui regole sono state concepite per un Europa a sei. Per rafforzare il cammino verso una più stretta unità politica serve un’intesa dei tre grandi Paesi dell’Unione: Francia, Germania ed Italia, in grado di far da battistrada per gli Stati più piccoli e superare l’attuale fase di stallo nella quale siamo impantanati».

L’orizzonte internazionale, e in particolare quello europeo, è oggi oscurato dalla guerra in Ucraina. Difficile uscirne fuori, ritiene Krienke, senza un deciso supporto dell’Europa a Kiev. «Si tratta di bloccare definitivamente le mire egemoniche di Putin che potrebbero avere altri obiettivi. Anche oltre i territori contesi del Donbass. Sotto questo profilo, per difendere una prospettiva di pace futura, sarebbe un vero disastro abbandonare l’Ucraina al proprio destino».

 

Per leggere il testo integrale

https://www.associazionepopolari.it/2024/04/14/markus-krienke-germania-in-difficolta/#post-

 

Leggi anche il precedente articolo di Giuseppe Davicino

https://ildomaniditalia.eu/germania-e-italia-un-dialogo-essenziale-alleuropa/

La cinquantesima Settimana Sociale e l’incompresa crisi della partecipazione

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Confartigianato è main sponsor di tutta la 50ma Settimana Sociale che si svolgerà a Trieste dal 3 al 7 Luglio prossimi.

La maggiore fra le organizzazioni dell’artigianato, delle piccole imprese e di chi è intraprenditore di sé, patrocina gli eventi generali della sera di Venerdì 5 – incontro con Paul Batthi, fratello del politico pachistano Shahbaz, un martire della libertà – e della sera di Sabato 6 – lo spettacolo di Giovanni Scifoni su San Francesco Superstar del Medioevo.

Al mattino dal 4 al 6 Luglio, 10-12,30, Confartigianato sta allestendo tre incontri su: giustizia tra generazioni, libertà e delusione (Mauro Magatti); vocazione-talenti-skills-lavori (Stefano Micelli); ri-abitare i Luoghi e avervi un posto esclusivo, perciò inclusivo (Johnny Dotti). Poi stand di presentazione ‘buone pratiche’ ed esperimenti progettuali, tutto in un grande spazio in una piazza di Trieste.

Nella prefazione del Card. Zuppi al suo nuovo importante lavoro, “Da Camaldoli a Trieste – Cattolici e democrazia” (Vita e Pensiero), che l’amico Ernesto Preziosi segnala giustamente, delle tre questioni che il Presidente della CEI indica, la terza – le forme di organizzazione del potere – è la più ammalata, per vari aspetti inguaribile senza una trasmutazione totale. Anche se, in ogni caso, similmente alla tematica ambientale, si è fuori tempo massimo.

Lo spiegò bene la prof.ssa Granata il 15 Settembre 2023 in Università Cattolica nel motivare la scelta del tema della cinquantesima edizione della Settimana Sociale, “democrazia”e “partecipazione”. Non è con retoriche sui valori e le nobiltà dell’impegno che si riacquisiscono attenzione e disponibilità, anzi si suscita l’effetto contrario. Lo sa bene chi vive in una associazione sindacale di categoria, come in una parrocchia o qualsiasi aggregato umano: non è questione di disimpegno, siamo già oltre. C’è la sparizione.

Come fu evidenziato nella presentazione della Settimana, oggi tutti sono ‘senza’: partiti ‘senza’ iscritti, PA ‘senza’ cittadini, associazioni ‘senza’ soci, chiese ‘senza’ fedeli, famiglie ‘senza’ bambini, e soprattuto ‘senza’ adulti.

La gente non è che sia lontana, è accampata fuori. Ma, appunto, fuori. Dentro non ci sta più. 

E questo è il punto: sono i format in crisi, non tanto il desiderio di poter dire la propria, di partecipare, di contare, di aver peso.

Perché? Ma perché in ‘quelle forme’, storiche, che ci si ostina a reiterare e puntellare con stratagemmi, rilanci e servizi di tutti i tipi la gente non ci sta più, sta fuori.

Come annota Diotallevi (“Fine corsa”, EDB, 2017) il sacro interessa ancora, c’è anzi un religious booming ma non ne beneficiano le chiese, le quali anzi continuano a perdere.

Il ‘partecipare’, quindi, non si rigenererà con un po’ di marketing politico, per quanto innovativo lo si possa osare, ma con una rifondazione su Forme Nuove, in cui si possa incontrare, fare esperienze vitali, essere a casa.

Casa: cioè ri-abitare le istituzioni.

Per chi volesse andare a rivedere l’Angelus del 4 Novembre del 2018, trova questo suggerimento di Papa Francesco: “…I bisogni del prossimo richiedono certamente risposte efficaci, ma prima ancora domandano condivisione […] Questo interpella le nostre comunità cristiane: si tratta di *evitare il rischio di essere comunità che vivono di molte iniziative ma di poche relazioni*; il rischio di comunità *“stazioni di servizio” ma di poca compagnia*, nel senso pieno e cristiano di questo termine”.

Anche facendo giustamente un ragionamento puramente laico (non bisogno di essere religiosi per sposare una tesi di questo genere), questo pensiero, questa Logica con la maiuscola di Papa Francesco sono portanti.

Notare che ‘compagnìa’ è più  dell’abusatissimo  ‘accompagnamento’ con cui spesso anche le associazioni di categoria si illudono di far percepire una personalizzazione. Declamata in patinate brochures, rinviata a mai nella realtà. E non vi può essere ‘compagnia’ senza che essa si basi sulla Relazione.

E infine: la Compagnia, come l’Amicizia, per essere tale deve essere gratis.  La si trova in luoghi dove è possibile fare esperienza di incontri. Autentici.

Dibattito | Lo scontro sul premierato deve mutarsi in confronto costruttivo

Bisogna avere ben chiara una premessa: l’ambiguità della Meloni le si ritorce contro politicamente e vanifica gli innegabili passi avanti, fatti con lei, da un’Italia che può tornare protagonista tra gli Stati promotori di una nuova Europa. La stessa sua politica di alleanza con Ursula von der Lyen, già di per sé in bilico, rischia di rivelarsi  controproducente. 

il punto debole della nostra Premier si manifesta nel posizionamento in Europa. La sua vulnerabilità, infatti, va ben oltre quella di Salvini, impegnato a inseguere l’estrema destra europea ed internazionale, Trump compreso. Lei è tutta presa da quella “madre di tutte le battaglie”, vale a dire il premierato elettivo, che lascia intravedere la logica di una sola persona al comando, espressione plastica di un potere accentrato ed autoritario.

È una “innovazione” che, se tollerata in Europa, sarebbe seguita da altri paesi, a partire dall’Ungheria di Orbán. La Meloni deve riflettere bene:  più dei suoi legami con forze di estrema destra è la sua proposta costituzionale a fare dell’Italia – altro che madre costituente – un’osservata speciale. 

Il modo di venirne fuori con dignità c’è e consiste nell’impegno a perseguire un rafforzamento istituzionale nel solco dei modelli già sperimentati in Europa, ad esempio quello francese. In verità, ci sarebbero le premesse di una possibile convergenza. All’atto dell’insediamento del governo, fu dichiarata la disponibilità a recepire il modello francese: personalmente ne fui molto confortato. Per giunta, anche nel centro-sinistra emerse un’analoga disponibilità, pur prevedendo qualche aggiustamento rispetto al semi-presidenzialismo.  Sembrava che emergesse, a destra e a sinistra, la volontà di evitare il referendum confermativo.

In breve tempo, quel che prima rientrava nella logica di un confronto rispettoso e costruttivo, si è poi mutato in ringhioso e inappellabile contrasto. Non va affatto bene. Siamo in piena emergenza istituzionale sicché un gruppo di personalità, in piena autonomia, potrebbe tentare di dissuadere i contendenti, magari facendo leva sulla moral suasion del Presidente della Repubblica. Le barricate sul premierato non giovano alla Meloni e nemmeno aiutano le opposizioni. Dopo le elezioni europee sarà inevitabile riprendere il filo del dialogo.

Un uomo in bilico: autonomia senza limiti e decremento dell’autostima.

[…] Stiamo passando da un ciclo della storia che ha portato a maturazione, con il tempo della “modernità”, un percorso plurisecolare, ad un altro di cui appena decifriamo alcuni possibili caratteri, senza che possiamo presumere quale proiezione temporale avranno – e, dunque, quale incidenza sulla vicenda umana – scelte ed indirizzi che compete a noi che viviamo questa stagione, dover definire, almeno in embrione. Su di noi incombe, infatti, una responsabilità grave: siamo la generazione che, muovendo i primi passi verso un mondo nuovo, ne può consolidare la prospettiva oppure comprometterne, fin d’ora, il cammino. Basti pensare, ad esempio – ma non è il solo versante – alla questione ambientale.

Cosi, ad esempio, per l’enorme lavoro di decrittazione, in primo luogo, e poi soprattutto di discernimento etico che dovremmo compiere – ed, invece, trascuriamo – a fronte di tutto ciò che sta avvenendo nel campo delle neuroscienze e, più in generale, della genetica e delle biotecnologie. Ci affanniamo attorno ad una lettura di questi temi che si possano sventolare come vessilli di parte ed abbiano il pregio di prestarsi a contese ideologiche funzionali all’immediatezza del confronto politico. E non ci avvediamo del fatto che, invece, è in gioco la stessa comprensione di sé che l’umanità va elaborando e rielaborando. Siamo dentro, cioè, una sfida tematica necessariamente comune all’intero genere umano, che va oltre le stesse classiche categorie di destra e sinistra e non può essere derubricata ad argomento da circoscrivere dentro l’occasionalità di un confronto elettorale.

La politica rischia di considerare questi argomenti alla stregua di fastidiose beghe di cortile e non comprende che, senza volerlo e forse senza saperlo, è costretta a giocare la sua partita su un terreno che scotta. Ad esempio, “costituzionalizzare” l’aborto come diritto insindacabile della donna, vuol dire sospingere, la generalità della pubblica opinione, sia pure progressivamente, verso una curvatura entropica che porta ad una pericolosa banalizzazione del significato della vita. E da qui, si inanellano, a cascata, una serie di derive oggi impossibili da prefigurare, sia pure con una certa approssimazione. È come se facessimo correre su un rettilineo, contromano l’una all’altra, due correnti di pensiero, apparentemente simpatetiche, in effetti contrapposte, antitetiche. Per un verso – vedi, ad esempio, l’intero campo del cosiddetto “transumano” – si diffonde sempre più l’idea che l’uomo sia orgogliosamente sufficiente a sé stesso, anzi fondamento di sé e non a caso, infatti, la libertà si dissolve nell’autodeterminazione.

Per altro verso, tutto ciò, al di là delle apparenze, porta ad un decremento della considerazione che l’uomo ha di sé stesso e questo, prima o poi – più prima che poi – finirà per avere conseguenze devastanti, dato che l’autostima per ciascuno di noi – e così per le collettività – è l’architrave che regge e modula ogni nostro possibile comportamento.
La stessa capacità di “de-coincidere” da noi stessi, da abiti mentali che vestiamo da troppo tempo, sagomati dall’uso prolungato sulle nostre forme e sulle nostre posture e, dunque, vestiti volentieri, è richiesta da altri imponenti fenomeni sociali, dalle migrazione, dalla crescita esponenziale dell’informazione e della comunicazione, dalla generalità dei profili toccati dalla globalizzazione.

 

Per leggere il testo integrale

https://www.politicainsieme.com/verso-il-partito-di-programma-4-transizione-e-trasformazione-di-domenico-galbiati/

 

La favola dell’Atalanta e del provinciale Gasperini

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Era un’estate calda e afosa quella del 2016. L’Atalanta, reduce da stagioni di sofferenza e lotte per la salvezza, si trovava in una fase di transizione e si apprestava ad affrontare un altro campionato con un nuovo timoniere alla guida: Gian Piero Gasperini. Un allenatore dal piglio deciso, famoso per il suo calcio offensivo e spettacolare. Nessuno poteva immaginare che era solo l’inizio di una rivoluzione calcistica costruita sul pressing alto e sul gioco corale. L’impatto di Gasperini fu immediato, anche se non partì proprio alla grande: in cinque giornate l’Atalanta aveva conquistato solo una vittoria e dopo la sconfitta casalinga con il Palermo il tecnico era già sulla graticola. Gli orobici abbandonarono il tradizionale catenaccio italiano per abbracciare un calcio dinamico e propositivo. I tifosi, inizialmente sorpresi dal nuovo corso, ben presto si sono innamorati di questo stile di gioco spumeggiante e ricco di reti. 

La partita della svolta si gioca il primo ottobre contro il Napoli di Sarri: risultato 1-0 per la Dea, con la novità di vedere in campo diversi ventenni come Caldara, Gagliardini, Conti (tutti e tre provenienti dal settore giovanile) e Petagna, autore del gol. Da allora in poi si inanellarono una serie di risultati positivi che hanno portato i neroblu a scalare la classifica di serie A e a salire sul tetto del calcio europeo. Tanti record nel frattempo sono stati battuti. Gasperini non si è limitato a cambiare il modo di giocare dell’Atalanta, ma ha avuto anche il merito di valorizzare giovani come Bastoni, Kessiè, Mancini, Kulusevski, Højlund, solo per fare qualche esempio, fino a Marco Carnesecchi e Giorgio Scalvini, pilastri della rosa attuale. Tante scoperte dunque, ma anche tanti talenti rispolverati e portati alla ribalta: su tutti Marten de Roon, Papu Gomez, Duván Zapata, Luis Muriel e Josip Ilicic, il più estroso giocatore della storia atalantina. I suoi 4 gol al Valencia in Champions League resteranno per sempre nei ricordi dei tifosi, nel silenzio degli stadi vuoti per la pandemia: il nemico invisibile che lo ha reso sempre più fragile e “umano”, l’unico avversario che è riuscito a fermarlo. Sotto la guida tecnica di Gasperini, questi giocatori sono esplosi, diventando colonne della squadra e protagonisti di stagioni memorabili.

I risultati non tardarono ad arrivare. L’Atalanta si è subito imposta come una delle realtà più brillanti del calcio, conquistando piazzamenti in Champions League e raggiungendo due finali di Coppa Italia (una delle quali persa ingiustamente contro la Lazio per una clamorosa svista del Var). Con il Gasp alla guida, la Dea è diventata una mina vagante per le big, capace di mettere in difficoltà chiunque con il suo calcio effervescente e imprevedibile. Basti pensare alle parole di Guardiola, tecnico del Manchester City, che soddisfatto dopo aver pareggiato contro la Dea, disse: “Affrontarla è come andare dal dentista, si soffre sempre”.

Oltre ai successi in campo, molti dei quali storici, Gasperini e la sua Atalanta hanno assunto un ruolo fondamentale per la città di Bergamo, dove è talmente tanta la passione per la Dea che non si dice “vado allo stadio”, ma “vado all’Atalanta”. La squadra è diventata un simbolo di orgoglio e identità, unificando la comunità e portando il nome della città sui palcoscenici più prestigiosi d’Europa, sempre seguita da un tifo straordinario. Nonostante in tutte queste sue stagioni siano cambiati molto interpreti, il Gasp è sempre riuscito nell’impresa di rinnovarsi e di trasformare il gruppo in una infernale macchina da gol.

L’era Gasperini all’Atalanta è tutt’ora in corso, e la storia continua a scriversi. L’ultima pagina di questo romanzo è stata l’impresa contro il Liverpool. Con il tecnico bergamasco alla guida, la Dea è destinata a inseguire nuovi traguardi, sempre fedele al suo stile di gioco unico e inimitabile. La sua creatura è un inno al calcio offensivo, al coraggio e alla determinazione, un esempio di come una piccola realtà possa raggiungere grandi risultati con passione, lavoro e un pizzico di follia. La maglia sudata sempre, si urla allo stadio.

Quella del tecnico di Grugliasco è un’avventura fatta di passione, talento e successi. È la favola moderna di una piccola squadra che ha sfidato le grandi e ha conquistato il cuore dei tifosi di tutto il mondo. È la storia affascinante della vittoria del terzo stato sul clero e nobiltà. È la dimostrazione di un calcio che fa sognare e che ci ricorda che, con la giusta umiltà, tutto è possibile, come il 3-0 all’Anfield Stadium e la qualificazione in semifinale di Europa League. Una semifinale che mancava dal 1988, quando l’Atalanta di Stromberg, una vera leggenda che ha lasciato un segno indelebile, venne fermata dal Malines. Anche quella è diventata storia: la Dea in quella stagione giocava nel campionato di B, eppure mancò per poco la finale di quella che allora si chiamava la Coppa delle Coppe. In panchina sedeva un certo Emiliano Mondonico.

Proprio Glenn Peter Stromberg, qualche giorno fa ha dichiarato: “Oramai l’Atalanta ha una sua dimensione europea. Sanno cosa significa giocare contro la Dea e cosa significa venire a giocare a Bergamo. Se la società e la squadra esistono sulla mappa del calcio internazionale lo si deve alla famiglia Percassi e a Gasperini. Entrambi hanno dato mentalità e la struttura per competere a questi livelli”. Sono parole d’amore, ma anche la sintesi di questi anni bellissimi che hanno trasformato l’Atalanta di Gasperini e dei Percassi in un modello di riferimento per il calcio italiano e internazionale, un esempio di come il bel gioco e la lungimiranza possano portare al successo. Grandi operazioni di mercato, uno dei migliori vivai al mondo, strutture sportive di altissimo livello, bilanci sempre in ordine e stadio di proprietà, sono tutti fattori che esaltano un progetto che parte dal basso. Ha detto il Gasp: “Mi davano del provinciale e invece io ero solo in anticipo sugli altri”. 

Il posto migliore dove andare è il futuro e con Gasperini è stato emozionante iniziare a esplorarlo, in un viaggio calcistico entusiasmante che invita a celebrare il potere dello sport che unisce e la bellezza del gioco che ci appassiona.

Pd e Cinque Stelle tra litigi veri e finte condivisioni

Se sia più costruttivo un litigio vero oppure una condivisione finta è argomento controverso. Tanto più in politica. Ma è questo, ormai, il dilemma che attanaglia Pd e M5S all’indomani della loro querelle pugliese. Poiché la reciproca insofferenza è ormai evidente e le frasi di circostanza e le necessità numeriche con cui si cerca di mascherare le cose lasciano il tempo che trovano. 

Il fatto però è che le due opinioni a questo riguardo attraversano e dividono almeno uno dei due contendenti. Il Pd, ovviamente. Laddove una parte fatica a proseguire la strana alleanza del campo largo e un’altra parte ritiene invece che solo quel campo, il più largo possibile, possa competere con la destra meloniana. 

Posizioni comprensibili, entrambe. Tra le quali però prima o poi toccherà scegliere. La segretaria Schlein sta cercando con fatica di tenere tutto insieme. La sua convinzione è che la contesa con Conte vada condotta con molta prudenza. E che solo abbracciandolo, o almeno stringendolo dentro il recito di una sorta di coalizione, se ne possa venire a capo. 

Il punto però è che questa strategia avrebbe bisogno di trovare una sponda più amichevole e collaborativa dentro il partito di Conte. Sponda di cui, almeno al momento, non si vede traccia. Così la contesa finisce per essere sempre più asimmetrica. Tra un partito, il Pd, nobilmente diviso. E un’altra forza, quella dei cinque stelle, compatta come un sol’uomo dietro gli argomenti e le modalità del suo leader. Illudersi che questa asimmetria porti vantaggio alle opposizioni appare sempre più difficile da credere.

 

Titolo originale: Tra litigi veri e finte condivisioni.

Fonte: La Voce del Popolo – 18 aprile 2024

[Articolo qui riproposto per gentile concessione del direttore del settimanale della Diocesi di Brescia]

Lo smarrimento a sinistra passa per Giuseppi. La politica? Moritificata.

Dal Piemonte alla Puglia, dal Manzanarre al Reno, nella Sinistra qualcosa non va. C’è notizia di scandali quasi quotidiani nelle amministrazioni regionali e comunali per compravendita di voti, intrecci con ambienti malavitosi, truffa e forse quant’altro ancora. 

La magistratura si è messa all’opera e vedremo alla fine quali saranno le effettive conseguenze. È saltata l’alleanza tra il Pd e Giuseppi a cui non pare vero di poter chiamare un distinguo per sbandierarsi come leader di quelli duri e puri. 

Potrebbe chiedersi dove erano le sue truppe nel mentre governavano in una giunta con politici “discutibili”. Pare improbabile che, muovendosi quotidianamente in ambito locale, non sia mai arrivato loro una voce sospetta su condotte in qualche modo dubbie. 

In politica, angeli sordi e ciechi non soltanto non servono, ma corrono il rischio di essere persino dannosi. Sono sentinelle prive di voce per dare un allarme. A meno che anche loro abbiano veduto ma, al contrario di Tommaso, non abbiano creduto per eventuali ragioni di comodo o di sopravvivenza.

Oggi, per rimediare, si tenta di ritrovare linee di intesa, scovando candidati di immagine, estranei al mondo politico, che possano dire all’elettorato che si è imboccato un nuovo corso, una rottura netta con il passato. La politica alza dunque la bandiera di resa per manifesta incapacità, non proprio un fatto da nulla.

Con l’acqua alla gola ci sono poi candidati che danno una idea di disponibilità per poi fare un passo indietro ricominciando un tragico gioco dell’oca. Un imperterrito elettore di sinistra potrebbe cantare “Che confusione, sarà perché ti amo…”.

La Schlein, sul modello Misiani in Campania, par che proceda con un nuovo codice etico sotto il controllo di Franco Roberti già Procuratore Nazionale Antimafia ed eurodeputato Dem.

In Campania si sperimenta un nuovo Codice di autoregolamentazione per i candidati che richiede ad un candidato un obbligo di trasparenza e moralità. La magistratura dentro e fuori dalla Sinistra è la lavatrice dove purificare comportamenti inaccettabili, l’ancora di salvezza a cui aggrapparsi.

Il bosco ha una sua indubbia bellezza dove primeggiano alberi di alto fusto ma anche arbusti e piante selvatiche, come a dire piante nobili insieme a plebaglia senza nulla da vantare. Nel bosco si muovono personaggi luminosi e di rango, nel sottobosco si agitano invece quelli dal passo furtivo, capaci, per la loro abilità di traffici, di essere uccelli di bosco piuttosto che uccel di gabbia, uomini da bosco e da riviera, flessibili ad ogni ambiente. La sterpaglia è casa loro. 

L’humus del sottobosco è essenziale perché tragga forza la crescita delle piante di rango. È, per facile traslato, il quadro della politica. 

Ogni certo tempo il detersivo di marca si rilancia con nuova formula per un bianco irripetibile, smentendo la veridicità di quanto spacciato appena pochi mesi prima. Un nuovo Codice subentra a quello precedente in attesa di essere soppiantato da un prossimo Codice ancora più efficace e insuperabile.

Cacicchi e capibastone ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Sono, letta in positivo, l’essenza del consenso e per qualche verso necessari al fermento e alla partecipazione democratica. 

I caicchi erano barche dei pirati, spesso armate a prua di un cannoncino per il successo delle loro imprese nel Mediterraneo. Può darsi che siano stati un motivo di ispirazione per i nostri cacicchi, intenti a rastrellare voti anche sotto le mattonelle. 

I caicchi erano anche le lance per salvare i passeggeri, stavolta invece per affondare una Sinistra purtroppo moribonda. È davanti ad un crocicchio e non sa orientarsi nella scelta.

Senza ipocrisie, i 5 Stelle lo sanno meglio di tutti e non saranno le loro grida pretestuose a cambiare lo scenario, come se un vestito non debba essere fatto da tessuti di qualche tipo.

Gli “attivisti” politici sono un segnale di dinamismo in una società annichilita dal web, il richiamo ad un impegno che la società non avverte più di accettare. Che si tracimi nella illegalità è certamente grave, da censurare e da condannare con ogni fermezza, ma la politica ha una sua composizione che non va tutta demonizzata.

Quanto ai rapporti tra il PD e Giuseppi aspettiamo che quest’ultimo si offra al maggior vendente.

Quousque tandem…lo spettacolo di martiri televisivi milionari?

Sì, lo sappiamo anche noi. I conduttori e gli artisti televisivi si comportano seguendo le regole del mercato in quel particolare settore, e più sono bravi – cioè se fanno molti ascolti con le loro trasmissioni e raccolgono, di conseguenza, molta pubblicità – più sono pagati. Non c’è alcun limite o problema etico in tutto ciò. È il mercato, bellezza, verrebbe da dire.

Però, e per fermarsi al caso italiano – perché di questo si tratta – adesso forse è anche arrivato il momento per dirci una semplice, persino banale verità. Ovvero, smettiamola di trasformare in martiri della democrazia e della libertà conduttori e artisti televisivi milionari oggi – e miliardari ieri –

che fanno del business quasi l’unica ragione di vita. E forse anche giustamente, dal loro punto di vista.

Ora, tutti sappiamo che il caravanserraglio della sinistra politica, editoriale, artistica ed accademica italiana fa del “martirio” dei conduttori ed artisti televisivi quasi una ragion d’essere della loro battaglia politica e culturale. È appena sufficiente ascoltare i talk quotidiani e settimanali dei conduttori più faziosi della sinistra televisiva per rendersene conto. Quasi che la condizione professionale di questi milionari fosse in cima alle preoccupazioni dei ceti popolari e più marginali nel nostro paese. E poi ci si chiede il perché il consenso della sinistra ex e post comunista – cioè del principale partito della sinistra italiana – è ormai stabilmente al di sotto del 20% dell’elettorato. Perché le battaglie che hanno più visibilità, condotte con maggior insistenza ed evidenziando l’ormai grottesca attesa del “regime” prende, di norma, spunto dalla situazione concreta di questo gruppo di milionari e della loro concreta presenza sulle reti televisive.

Certo, possiamo dirlo apertamente e senza tema di essere smentiti. Fa un po’ impressione quando si apprendono, al di là della propaganda – questa sì da regime – gli incassi di questi neo martiri della democrazia italiana. Fanno impressione perché la vulgata propagandistica dell’attuale ed indomita sinistra italiana è quella di far credere che con lo spostamento di questi milionari da una emittente televisiva all’altra si rischia di indebolire definitivamente la democrazia italiana, di mettere in discussione la garanzia e il mantenimento della libertà nel nostro paese e, soprattutto, di cancellare quel pluralismo di cui questi milionari sono paladini da sempre. E questo anche grazie ai compensi che percepiscono. Se la cosa non fosse vera ci sarebbe da ridere per settimane. Eppure la narrazione continua. Senza sosta e senza pietà alcuna.

Ecco perché, scoperto il giochetto seppur un po’ in ritardo, questa polemica non porta consensi. Perché sin quando il cittadino comune non legge i compensi forse cade nella trappola. Ma quando percepisce che si parla di milioni e milioni di euro, la solidarietà per questi neo martiri della libertà, della democrazia, del pluralismo e della Costituzione “tradita” comincia ad incrinarsi sino a scomparire del tutto. Purtroppo, però, il gioco dura poco. Perché all’orizzonte c’è sempre un martire che spunta con il relativo compenso milionario. Così va il mondo della sinistra italiana contemporanea.

Difesa comune, prospettiva o miraggio dell’Europa?

Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina il tema della possibile realizzazione di un sistema militare di difesa comune dei paesi UE è divenuto d’attualità. Nel senso che se ne scrive sui giornali, se ne parla (talvolta) nei talk show e naturalmente se ne occupa più intensamente quella ristretta schiera di politici e di analisti internazionali che da sempre ne fanno oggetto delle proprie riflessioni. La questione è divenuta più nota al grosso pubblico dopo le recenti esternazioni di Donald Trump circa il possibile ritiro degli USA dall’Alleanza Atlantica nel malaugurato caso costui dovesse tornare, l’anno prossimo, alla Casa Bianca. Per parte sua la Presidente della Commissione Europea, Ursula von Der Leyen, in cerca di una ricandidatura ha posto il tema in cima alle priorità da affrontare, come aveva fatto cinque anni fa con la lotta al cambiamento climatico.

Oltre i discorsi, al solito, non c’è nulla. In attesa di conoscere gli esiti elettorali di giugno, per i quali si teme un risultato nell’insieme non così positivo per gli europeisti o tale da poter consentire una forte iniziativa in senso unionista. Si vedrà. Due o tre punti fermi sull’argomento, ad ogni modo, li si può elencare in termini oggettivi in quanto plasticamente evidenti e dunque evasi solo da quanti in materia assumono atteggiamenti, favorevoli o più spesso contrari, di natura ideologica e quindi fuorvianti.

Innanzitutto, e con questo punto si potrebbe anche chiudere subito il discorso, una Difesa unica europea presuppone una politica estera comune, che a sua volta deriva da una comune volontà politica sorta presso il corpo elettorale continentale, dunque rappresentata nel Parlamento Europeo e poi implementata da un governo dell’Unione non succube – come oggi è la Commissione – dei governi nazionali. Ovvero, senza unione politica e istituzionale non c’è difesa unica. Quindi già sappiamo che tutti i partiti nazionalisti o sovranisti che dir si voglia e tutti i governi da questi ultimi diretti o influenzati sono e saranno contrari a una ipotesi del genere, anche nel caso di una presidenza statunitense ostile (che peraltro alcuni di essi auspicano).

Secondariamente, gli interessi economici dei grandi gruppi industriali che operano nel settore militare sono talmente forti (e in crescita, dato l’aumento esponenziale del business derivato dal clima guerresco instauratosi nel mondo in questi ultimi due anni) che i governi nazionali si sentono in dovere di proteggerli e garantirli. I campioni europei del settore, ad esempio, restano in accesa competizione fra loro per aggiudicarsi le sempre più numerose e ricche commesse internazionali: i francesi Airbus, Thales, Safran e l’italiano Leonardo ai quali si aggiungono i britannici (fuori dalla UE ma pur sempre europei) Bae Systems e Rolls Royce.

Poi c’è la questione più strettamente militare. Ogni Paese membro ha le proprie Forze Armate e vuole preservarne l’autonomia. I primi a volerla mantenere sono ovviamente i militari stessi: 27 eserciti e 27 catene di comando garantiscono posizioni di prestigio e di potere che verrebbero di molto ridotte nel numero da un comando unificato. Perché Difesa unica significa unificazione delle strutture decisionali, dei finanziamenti e di tutto l’apparato che ruota intorno alle Forze Armate.

E dunque ci vorrebbe una forte volontà politica, sostenuta dal consenso popolare, per anche solo affrontare in maniera efficace la questione. Cosa che oggi non c’è. Purtroppo, occorre aggiungere. E non solo perché priva di una politica estera comune e di una conseguente difesa comune l’UE rimane a livello planetario un modesto attore politico, come si vede in ogni circostanza. Anche per ragioni freddamente economiche.

Quella che l’ex ministro Cingolani, ora AD di Leonardo, ha definito in una recente intervista al Financial Times “segmentazione industriale” genera duplicazioni e impedisce sinergie che produrrebbero efficienze tali da rendere molto efficaci – molto più di quanti sono oggi, così frammentati – i soldi investiti complessivamente nel settore degli Stati nazionali.

Senza voler qui entrare nei dettagli basti dire che la spesa complessiva dei 27 per i loro apparati militari è intorno ai 230 miliardi di dollari, poco meno di quella cinese, oltre tre volte di più di quella russa (che pure è in crescita esponenziale) e certo inferiore (di altre tre volte) a quella americana: il problema però è che è frazionata e quindi poco efficiente, duplicativa invece che sinergica. Un solo esempio: gli Stati Uniti hanno un solo modello di carro armato, gli europei ben venti! Hanno due modelli di veicoli da combattimento della fanteria, gli europei ben diciassette. E si potrebbe continuare, citando dati relativi alla marina piuttosto che all’aereonautica. Utilissimo, a tal fine, consultare il sito dell’Istituto Internazionale per le Ricerche sulla Pace, di Stoccolma (www.sipri.org).

È evidente che eliminazione dei doppioni, diminuzione degli sprechi, unificazione della ricerca, centralizzazione degli acquisti sarebbero tutti interventi naturali per una Forza Armata Europea, che potrebbe – con gli attuali impegni di spesa – raggiungere elevati livelli di efficienza e un conseguente alto livello di capacità difensiva.

Ma qui tutto si ferma, perché non c’è, ancora, quella volontà politica necessaria per tradurre in scelte operative quella consapevolezza che ormai dovrebbe essere abbastanza acquisita, ovvero che nell’attuale contesto internazionale gli Stati dell’Unione dovrebbero ragionare su scala europea e non più razionale. Per intanto il punto più alto di questa presunta consapevolezza ha prodotto il piano per migliorare l’efficienza del sistema, in attesa di una più ambiziosa e annunciata European Defence Industrial Strategy. Lo ha elaborato Thierry Breton, il commissario UE al mercato interno, e prevede un sistema centralizzato per la gestione degli acquisti (e delle vendite ai paesi terzi, perché naturalmente si invoca la pace ma poi si guarda al business, as usual): meglio che niente, ma un po’ poco, francamente.

Ora il rapporto Letta, “Much more than a market”, discusso ieri al Consiglio Europeo, rilancia: “è indispensabile un mercato comune per l’industria della sicurezza e della difesa”. Vedremo se come tanti altri, ironizza l’estensore, “finirà in un cassetto”. Vista la situazione, il rischio è alto.

Un’Europa da Draghi?

Mario Draghi ha completato il lavoro cui l’aveva incaricato Ursula von der Leyen per prospettare un possibile percorso di riforma dell’Unione europea. Draghi ha parlato di riforme “radicali” e subito è nata la sua candidatura a guidare la Commissione di Bruxelles.

Persino Ignazio La Russa, ma solo perché interrogato al riguardo, ha riconosciuto che il nostro “Super Mario” ha i “titoli per ambire a ogni ruolo” per poi aggiungere prudentemente: ” Sulla ipotesi concreta non so dire niente e su quello che ha detto men che meno perché non ho letto il suo discorso”.

La prudenza è più che scontata nel caso di La Russa perché Giorgia Meloni sta sgomitando da mesi per porsi come possibile sostenitrice della riconferma di Ursula von der Leyen sognando addirittura, magari, di porsi con i suoi conservatori europei come il valore aggiunto necessario perché la tedesca resti alla guida della Commissione. Ma le cose potrebbero cambiare in fretta ed è necessario seguire il vento sul campo di regata.

La possibile candidatura di Draghi potrebbe diventare concreta se dalle urne il prossimo giugno uscisse un responso in grado di dare alle sinistre e al centro la forza per chiedere una diversa guida della Commissione, anche perché si tratterebbe di una grossa novità la riconferma dello stesso Presidente, e per di più germanico.

Vista l’aria che tira, e cioè del  tirare tutti a pensare ai propri affari, forse noi italiani dovremmo auspicare una soluzione del genere. E questo nonostante l’imbarazzo della Meloni che resta radicata nel suo conservatorismo intriso anche di posizioni estreme. Però, al dunque come giustificherebbe il sabotaggio di una eventuale possibilità per Mario Draghi che molto già fece per l’Italia alla guida della Bce quando tutti ci davano contro?

 

L’articolo è apparso sul sito di “Insieme”, il partito fondato da Stefano Zamagni.

https://www.politicainsieme.com/se-arriva-super-mario/