Continuità e “tenace continuismo”
In una intervista che ho realizzato con lui qualche giorno prima della presentazione del 59° Rapporto Censis, il Presidente Giuseppe De Rita evidenziava come fosse vero che nell’opinione pubblica tutti i Rapporti precedenti erano conosciuti e commentati più per il fermo-immagine delle pagine introduttive che per lecentinaia di quelle dedicate ai dati e alle valutazioni sui settori di intervento sociale. “È il nostro ruolo strutturale, e continuativo nel tempo, e su tale ruolo sappiamo di esser giudicati dalle centinaia di professionisti del sociale (ricercatori, operatori, docenti, amministratori) che utilizzano la nostra accumulazione e le nostre elaborazioni dei dati”. Dopo circa sessant’anni di osservazione del Paese e del suo sviluppo socio-economico e culturale al Presidente questa sottolineatura è parsa importante, per evidenziare da un lato l’evoluzione storica e documentata del Paese – la chiamiamo “continuità” – dall’altro quel “tenace continuismo” che ha sempre caratterizzato il suo stile personale e la mission dell’Istituto da lui guidato.
Le “fotografie” del Paese e la lente del tempo
Anche questo 59° Rapporto non si sottrae a questa duplice connotazione: da un lato la rappresentazione suggestiva, persino iconografica, delle molte fotografie dell’Italia contemporanea, ricca di narrazioni evocative e di metafore avvincenti, dall’altra la ricchezza dei dati raccolti che le integrano e le esplicitano nei dettagli, giustificando gli aggiornamenti affascinanti della semantica descrittiva. Resta implicita una considerazione non detta: una storia così lunga come quella dell’Italia del secondo dopoguerra non procede per strappi e fratture cronologiche o esplicative di repentini cambiamenti poiché la cadenza annuale dei Rapporti non interrompe ma descrive un processo fatto di flussi lenti e partecipati, “dappertutto e rasoterra” come nel titolo del libro rievocativo di De Rita che ho utilizzato proprio nell’intervista che seguirà a breve.
Svincolarsi dal presentismo
Siamo dunque un Paese che – superato in parte lo spaesamento di una deriva critica ultradecennale – sembra svincolarsi dalla morsa del presentismo asfissiante che l’attanagliava: siamo sempre legati al presente e al quotidiano ma più come scelta che come inerme soccombenza. L’Italia del 2025 – pur nello sconquasso internazionale delle guerre, gravata dal fardello del debito pubblico, rassegnata ad un ascensore sociale ormai inchiodato al piano terra e arrugginito nei meccanismi di risalita – sta assumendo un comportamento collettivo di resistenza e finisce per valorizzare la quotidianità delle piccole cose di cui ognuno – singolarmente o per gruppo sociale, a cominciare dalla famiglia – va cercando di circondarsi e di riscoprire.
Edonismo e piaceri semplici
Per la prima volta da molti anni – ad esempio – il Rapporto si sofferma a commentare gli stili di vita sessuali degli italiani,riferendo di un Paese dove la gente e i giovani cercano il sesso come fonte di appagamento e soddisfazione e descrivendo, come volta, una deriva di “edonismo liberato dalle antiche censure”.
Convinti che il piacere sia irrinunciabile e che non possa essere subordinato all’attesa di un domani migliore, gli italiani sperimentano l’alchimia dei godimenti semplici, un concerto di piaceri ricercati nella ordinaria quotidianità: un modo vitale, in definitiva, di stare al mondo. Una valutazione peraltro che torna utile considerare in concomitanza del dibattito parlamentare sul cosiddetto “consenso libero e attuale”.
Politica: rappresentanza smarrita
I processi di verticalizzazione e personalizzazione della politica hanno divaricato il gap tra paese legale paese reale (Il 72,1% degli italiani non crede più ai partiti, ai leader politici, al Parlamento, Il 53,5% dichiara di non sentirsi rappresentato da loro, Il 62,9% è convinto che nella nostra società si sia spento ogni sogno collettivo e condivisibile, l’unico leader che conquista la fiducia della maggioranza assoluta degli italiani (il 60,7%) è Papa Leone XIV), basti osservare il fenomeno dell’astensionismo elettorale delle recenti regionali (ma eclatante resta quel 51,7% di non votanti alle ultime europee, in un contesto storico in cui l’Europa potrebbe essere il salvagente di una ultramillenaria civiltà nel nuovo ordine mondiale che va configurandosi).
Ceto medio febbricitante, ma resistente
Il divario dei salari dalla media europea che resta un freno per la ripresa dei consumi, pur a fronte di un + 833 mila occupati (in prevalenza, tuttavia, sopra i 50 anni) dopo un indice industriale negativo per 32 mesi, la crescita degli inattivi (più che dei disoccupati) specie tra i giovani (la cosiddetta generazione Neet), il saldo negativo tra il brain gain e il brain drain, la presenza di 5,4 milioni di stranieri nella popolazione nazionale ai quali non sempre si riesce a dare una prospettiva di vera integrazione lavorativa e sociale (il 35,6% di essi è in condizione di marginalizzazione o sotto la soglia di povertà ma il Rapporto considera anche il dato della presenza di irregolari e clandestini, un fenomeno percepito tangibilmente con disagio dalla gente): sono solo alcuni degli aspetti di negatività che emergono dal Rapporto.
Ceto medio febbricitante
Il ceto medio è febbricitante: si consideri che negli ultimi 20 anni il numero dei titolari d’impresa in Italia si è assottigliato da oltre 3,4 milioni a poco più di 2,8 milioni, con una riduzione del 17,0% (quasi 585.000 imprenditori in meno). In particolare, i giovani imprenditori con meno di 30 anni sono diminuiti nello stesso periodo del 46,2% Ma il Segretario generale Giorgio De Rita e il Direttore generale Massimiliano Valerii nella loro presentazione del 5/12 nella sede del Cnel ricordano che “la spinta della cetomedizzazione dal basso però non è finita; al contrario, per molti versi vince ancora. C’è stata e c’è, sa stare nel presente, sa sgarbugliare gli intrecci di uno sviluppo squilibrato, nei territori intermedi come nelle grandi città. È stata e resta un processo che offre al telaio socio-economico italiano un tessuto stabilizzatore nelle grandi e piccole crisi, interne e internazionali. Un tessuto infragilito, dagli orli sfrangiati e dai rammendi vistosi, dagli investimenti prudenti, segnato dal mancato compimento di molte delle attese di progressiva accumulazione individuale di ricchezza e troppe volte ripiegato nell’attesa di benefici ereditari, ma pur sempre una base preziosa di stabilità.
Una ‘laguna’, la cetomedizzazione, che ora ha prodotto un nuovo ceto che non rinuncia a viaggiare e a consumare, ma lo fa con un biglietto Economy e di quando in quando si concede l’upgrade di un biglietto Premium: in sostanza gli italiani tenacemente resistono, abbandonando i rimpianti o le narrazioni nostalgiche dei tempi migliori della crescita e del boom economico e senza destinare soverchio impegno a progettare un futuro nel breve-medio periodo.
Vivere il presente, non subirlo
Anziché sentirsi soffocati dal presente come condanna cercano di viverlo in tutti gli aspetti che consentano una positiva, quotidiana godibilità.
In epoca ‘selvaggia’ (questo è l’aggettivo nel titolo del 59°Rapporto), di grandi conflitti ai limiti dell’apocalisse, in crisi di sostenibilità ambientale nell’ecosistema dove l’antropizzazione distrugge invece che costruire, afflitti da un grande debito pubblico (a luglio 2025 in Italia ha toccato la cifra record di 3.057 miliardi di euro: +35,7% rispetto al valore del luglio 2001, nell’ultimo anno l’Italia ha pagato interessi per 85,6 miliardi di euro, corrispondenti al 3,9% del Pil: il valore più elevato tra tutti i Paesi europei), con i barbari alle porte, le città infiammate dalla criminalità dilagante gli italiani non prendono tuttavia alloggio nel “Grand Hotel Abisso”. Non stupisce, tuttavia, che quasi la metà degli italiani (il 46,8%, ma la percentuale sale al 55,8% tra i più giovani) sia convinta che l’Italia non abbia davanti a sé un futuro all’insegna del progresso, per il 73,7% gli Usa non rappresentino più un riferimento di garanzia e un esempio di stili di vita, per il 61,9% l’Europa sia ininfluente nelle sfide mondiali, per il 55,2% addirittura stia esaurendosi la spinta propulsiva dell’Occidente a favore di India e Cina.
Età “selvaggia”, tra paure globali e disincanto europeo
“Siamo entrati in un’età selvaggia, un’età del ferro e del fuoco, di predatori e di prede, in cui la violenza prende il sopravvento sul diritto internazionale e il grande gioco politico cambia le sue regole, privilegiando ora la sfida, ora la prevaricazione illimitata”. Questi dati emergono peraltro in un momento cruciale per l’Europa che Trump considera un ‘tertium genus’ più che un alleato e Musk vorrebbe abolire: c’è nella gente una confusa e annebbiata consapevolezza degli sviluppi sui destini europei (anche come ricaduta della vicenda ucraina) ma ciò è dovuto anche alla frammentazione e alla debolezza delle risposte che l’Ue ha finora saputo dare, nonostante summit e conciliaboli infiniti.
A fronte di problemi che potrebbero essere epocali e dirimenti sui nostri destini, si registra una sorta di anestetizzazione del pensiero collettivo senza approfondimenti, che fa il pari con una sensibile caduta dei consumi culturali. Tra il 2004 e il 2024, la spesa per la cultura delle famiglie italiane si è ridotta e non di poco (-34,6%), attestandosi appena sopra i 12 miliardi di euro: una cifra che corrisponde solo a poco più di un terzo di quanto spendiamo nell’insieme per smartphone e computer (quasi 14,5 miliardi nel 2024: +723,3% negli ultimi vent’anni) e per i servizi di telefonia e traffico dati (17,5 miliardi).
Si riscontra una forte contrazione della spesa per giornali (-48,3%) e libri (-24,6%). La Tv di intrattenimento e generalista sta sostituendo quella dell’informazione, peraltro basata in prevalenza solo su brutte notizie: i social – da parte loro – sono ormai ridotti ad una sorta di cloaca maxima dove circola e transita vorticosamente il peggio del peggio. Forse dovremmo ripensare al rapporto tra mente, cuore, sentimenti e tecnologie dirompenti ma il fatto che questa necessaria riflessione potrebbe accadere in epoca di espansione dell’I.A. (un valore in sé potenzialmente positivo, una bomba nucleare se messa in mano a incompetenti o malintenzionati) induce a preoccupazioni circa la capacità di discernere la realtà, la verità e il perseguimento del bene comune in uno tsunami di input di cui i media non sembrano assumersi alcuna responsabilità etica.
Né rassegnazione, né paese dei balocchi
Se dunque vivere il presente “resistendogli” è un mix di responsabilità e rassegnazione, dobbiamo evitare di cadere nella sindrome di Lucignolo: la vita non è un paese dei balocchi dove tra perenne sindrome da risarcimento (le colpe sono sempre degli altri) e godimento estetico, si possano perdere senso di responsabilità e coscienza individuale e collettiva.