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Uecoop: Nuove nascite, Bolzano è l’area più prolifica del Paese

Un’analisi di Uecoop, l’Unione europea delle cooperative, sugli ultimi dati demografici Istat in occasione della Giornata internazionale della famiglia fa emergere un dato significativo.

“Se una volta era il Meridione a guidare le nascite con le famiglie più numerose adesso la ‘linea della culla’ si sposta sempre più a nord con il record della provincia di Bolzano che è l’area più prolifica del Paese con 1,76 figli per donna contro 1,32 della media nazionale”.

Anche se: “la situazione demografica italiana è influenzata da cambiamenti sociali, ritmi di lavoro e vita sempre più frenetici e servizi di welfare che variano a seconda delle regioni e dei comuni di residenza influenzando la disponibilità di tempo e la possibilità di conciliare lavoro e famiglia”.

Non è un caso che “per 6 dipendenti su 10 (59%) al primo posto nella classifica dei benefit aziendali preferiti ci siano proprio quelli legati alle spese familiari, dall’asilo alla scuola dei figli”. Così “si assiste in Italia a un crollo delle nascite che se a nord viene contenuto fra valori di 1,50 e 1,37 figli per donna dal Trentino all’Emilia nelle regioni del Mezzogiorno ci si ferma a 1,29 e precipita a 1,16 in Basilicata, a 1,13 in Molise e a 1,06 in Sardegna”.

Nelle aree dove il welfare è più sviluppato, “le famiglie fanno più figli perché sono più sicure rispetto al futuro, sanno di poter contare su servizi pubblici e privati dedicati non solo ai figli ma anche agli anziani considerato l’aumento della speranza di vita che per gli uomini sfiora ormai gli 81 anni (80,8) mentre per le donne supera gli 85 (85,2)”.

La multa fatta dall’autovelox sul lato opposto della strada non sarà più valida

Tutto nasce per un’automobilista multato da un’autovelox posizionato ai bordi di una strada del Comune di Macchia d’Isernia, purtroppo sul lato destro della carreggiata, anziché sul sinistro, come previsto dal decreto prefettizio.

Di qui il ricorso, presentato al Giudice di Pace e al Tribunale, vinto dal presunto contravventore. Decisione avvalorata dall’ordinanza numero 12309/19 della VI Sezione civile della Corte di Cassazione che ha sancito l’impugnabilità con successo della sanzione se il decreto prefettizio che autorizza il posizionamento dell’apparecchio elettronico di controllo preveda la sua installazione sul senso di marcia opposto a quello in cui venga effettivamente sistemato.

I giudici hanno così confermato un precedente orientamento espresso nell’ordinanza numero 23726 del 2018 e hanno sottolineato come non sia obbligatoria l’indicazione nel decreto prefettizio del lato della carreggiata in cui debba essere sistemato l’Autovelox (ai sensi dell’articolo 4, comma 4 del d.l. n.121/2002), ma qualora sia prevista, questa vada rispettata, altrimenti il verbale di contestazione differita della violazione è affetto da illegittimità derivata.

Protezione civile: il progetto europeo V-IOLA, Volunteer International On Line Asset

Ha avuto inizio presso la sede operativa del Dipartimento della Protezione Civile – una  settimana di incontri e attività sul campo dei delegati del progetto V-IOLA, Volunteer International On Line Asset. La delegazione è composta da rappresentanti delle Organizzazioni dei paesi partner, Montenegro e Serbia. Sono funzionari dei ministeri per la gestione delle emergenze, società nazionali di Croce Rossa e giovani rappresentanti di organizzazioni che lavorano sulle tematiche della prevenzione e riduzione del rischio da disastri, per la creazione di comunità più resilienti, anche grazie allo sviluppo della componente del volontariato di protezione civile. Lo scambio si svolge nell’ambito del programma EU Aid Initiative, finalizzato alla costituzione di un corpo di volontariato europeo.

Il progetto guidato dal Dipartimento della Protezione Civile, vede la partecipazione del Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale della Fondazione Cima e delle organizzazioni nazionali di volontariato Anpas, Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta e Croce Rossa Italiana, oltre alle rappresentanze istituzionali e del mondo del volontariato di Serbia, Montenegro, Ungheria, Romania.
Obiettivo del progetto è la promozione delle strategie di riduzione dei rischi da disastro, con il supporto di volontari per il costante aumento della resilienza delle comunità. In particolare l’iniziativa è finalizzata anche all’accreditamento del volontariato serbo e montenegrino alla rete europea EU Aid Volunteers.

Milano: Calogero Marrone, “Giusto tra le Nazioni”

Il Memoriale, a Milano in Piazza Edmond Jacob Safra, 1, ospiterà domenica 19 maggio la presentazione del progetto di realizzazione de “Il Marrone”, un film indipendente ispirato alla vita di Calogero Marrone, “Giusto tra le Nazioni”.

Calogero Marrone che fu Capo dell’Ufficio Anagrafe del Comune di Varese, durante il periodo fascista e l’occupazione nazista, rilasciò centinaia di documenti di identità falsi a ebrei e anti-fascisti permettendo loro di salvarsi dalle persecuzioni. Scoperto a causa di una segnalazione anonima venne imprigionato e morì nel campo di concentramento di Dachau. Per quanto ha fatto è stato insignito del titolo di “Giusto tra le Nazioni”.

Proprio dal Binario 21, sede del Memoriale, Calogero Marrone venne deportato, a seguito di una delazione e dopo essere riuscito a salvare centinaia di vite, verso i campi nazisti in cui trovò la morte.

Alle ore 17, sarà possibile partecipare a una speciale visita guidata del Memoriale. Dopo la visita i registi Mauro Campiotti ed Ettore Imparato, il produttore esecutivo Mario Nuzzo e l’autore della colonna sonora Marco Marcuzzi parleranno del progetto.

Sarà presente la famiglia di Calogero Marrone e il giornalista, saggista e storico italiano Gabriele Nissim, fondatore e presidente della associazione GARIWO (Garden of the Righteous of the World).

L’infarto è scritto nel Dna

Chi è a maggior rischio di infarto presenta un ‘marchio’ specifico nel sangue. Ad individuare un nuovo e importante marcatore genetico è uno studio italiano pubblicato sulla prestigiosa rivista Plos One.

Lo studio pilota permette di individuare precocemente le persone ad alto rischio e su cui intervenire con urgenza. La malattia coronarica e la sua complicanza principale, l’infarto del miocardio, uccide ogni anno circa 70.000 persone in Italia ed è una delle principali cause di morte e disabilità.

Quasi tutte le sindromi coronariche acute presentano coronaropatia sottostante e a causarla è un mix fra stili di vita ed ereditarietà. Capire la relazione tra queste due variabili è stato l’obiettivo dello studio guidato da Giuseppe Novelli, rettore e direttore del Laboratorio di Genetica Medica del Policlinico di Tor Vergata, e da Francesco Romeo, direttore della Cardiologia dell’Università di Tor Vergata. I ricercatori hanno coinvolto nello studio pazienti con malattia coronarica stabile (cioè senza infarto) e pazienti con malattia coronarica instabile (ovvero con infarto) per identificare le varianti molecolari che funzionano come biomarcatori, che permettono cioè di individuare chi potrebbe andare incontro ad un evento acuto in un breve tempo.

In particolare, hanno analizzato l’espressione dei ‘piccoli messaggeri’ di RNA non codificante circolante nel sangue (microRNA). Queste molecole che agiscono da interruttori hanno importantissimi ruoli di regolazione dell’espressione genica e possono controllare processi biologici come la proliferazione cellulare, il metabolismo dei grassi, lo sviluppo di tumori.

Attraverso l’analisi molecolare è stato identificato, tra un pannello di 84 diversi microRNA espressi nella circolazione sanguigna, il comportamento ‘anomalo’ di miR-423: risultava avere dei livelli molto bassi in pazienti con malattia coronarica subito dopo l’infarto rispetto a chi aveva la malattia coronarica stabile. Questo, spiegano i ricercatori, indica che la sua espressione è specifica ed indicativa dell’evento acuto.

La luce del Papa

Il gesto con il quale l’Elemosiniere del Papa, Cardinale Konrad Krajewski, ha riallacciato l’utenza elettrica nel palazzo occupato di Roma merita delle considerazioni che non sono certamente quelle banali ed inutili fatte da chi ha invitato il porporato a pagare le bollette scadute, soprattutto se certi consigli arrivano da chi tra un comizio e l’altro non dimentica mai di fare la sua provocazione quotidiana ai danni dei più deboli e indifesi.

Ci si stupisce perché qualcuno assume (finalmente!) in modo deciso ed autorevole la difesa degli ultimi e dei dimenticati; dimenticati dalle istituzioni, ma non dal Papa che ha denunciato i limiti e tutta l’insufficienza della “società dello scarto “  ovvero di un sistema economico e di mercato che abbandona al proprio destino troppe persone, cercando delle insensate giustificazioni che hanno come comune denominatore la mancanza di rispetto per la persona umana, indipendentemente dalla sua origine o condizione sociale; la diversità che diventa una vergogna da nascondere, la povertà che viene trattata come se fosse una colpa.

L’azione dell’Elemosiniere del Papa merita un pensiero che vada oltre la valutazione formale del gesto e che cominci ad interrogarci anche sul tema della giustizia e non solo su quello della legittimità.

Chi si pone nella vicenda politica e sociale da cattolico democratico, da credente o anche solo da persona che ha a cuore la dignità umana dei suoi simili, si troverà sempre più spesso a dover distinguere tra ciò che è soltanto legittimo e ciò che è (oltre che legittimo) anche giusto.

Dobbiamo iniziare a dire con forza che è giusto ciò che mette l’uomo al centro dell’azione politica e delle attività economiche; dobbiamo dire con chiarezza che per noi è giusta la società che individua la persona umana come fine e non come strumento.

Se ad esempio una norma nuova e criminale dovesse legittimare il non-salvataggio in mare di chi sta annegando, questo rimarrebbe sempre e comunque un atto di grave ed ingiustificabile ingiustizia contro persone deboli e indifese; e purtroppo la storia del mondo è piena di crimini che il potente di turno ha cercato di legittimare coniando delle norme di convenienza.

In questa fase storica (ancor più che nel passato) le azioni e i comportamenti contano più delle affermazioni astratte o di principio.

Il Cardinale che si cala nel pozzo del palazzo occupato è la rappresentazione plastica della Chiesa come “ospedale da campo” tanto cara a Papa Francesco, che non perde occasione per invitare tutti a passare “dal dire al fare”, iniziando egli stesso ad adottare uno stile fatto di sobrietà e di schiettezza; quella schiettezza, avvolte anche ruvida, ci invita a riflettere e a metterci in gioco ed è un’opportunità da non perdere per cambiare noi e ciò che ci circonda.

L’Africa e la tragedia dei bambini soldato

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano

L’Africa rappresenta da decenni il continente più colpito dal fenomeno dei bambini-soldato. Sebbene sia difficile monitorare le varie formazioni armate e soprattutto conoscere le cifre reali, è sempre più evidente che nelle aree di conflitto a pagare il prezzo più alto sono i minori. Il Paese maggiormente penalizzato, stando a una comparazione dei dati provenienti da autorevoli organizzazioni umanitarie, è il Sud Sudan con circa 19.000 ragazzi e ragazze arruolati nelle varie formazioni armate che infestano soprattutto le zone rurali. Nella Repubblica Centrafricana, nonostante l’intesa per un governo di unità nazionale, i minori costretti a imbracciare un’arma da fuoco sono circa 6000. Nell’infame lista c’è anche la Repubblica Democratica del Congo dove, solo nel 2017, sono stati segnalati oltre mille casi di reclutamento e la cifra complessiva sembra essere ben superiore alle 3000 unità. Nel nordest della Nigeria, in cui è attivo il movimento terroristico Boko Haram, oltre 3500 bambini sono stati reclutati come combattenti tra il 2013 e il 2017.

Lo stesso scenario è riscontrabile in Somalia, nelle regioni sudanesi del Darfur e delle Montagne Nuba, per non parlare della fascia Saheliana (particolarmente in Mali e Burkina Faso) dove recenti episodi di violenza nei villaggi, per mano di gruppi armati, hanno coinvolto, come parte attiva, dei giovanissimi. E cosa dire della Libia, dove all’interno delle milizie autoctone opera un numero finora impreciso di minori? Se da una parte è evidente che non è possibile accedere a dati certi e le stime spesso divergono fra di loro, soprattutto in ragione della fluidità del fenomeno, la situazione generale è comunque preoccupante. Di positivo c’è per fortuna il fatto che ogni anno vengono sottratti ai gruppi ribelli e agli eserciti convenzionali centinaia di minori grazie a proficue attività negoziali. È quanto avvenuto, ad esempio, la scorsa settimana, nello Stato nigeriano del Borno dove 894 bambini-soldato sono stati rilasciati dalla Civilian Joint Task Force (Cjtf) come parte dell’impegno preso dalla milizia per porre fine e prevenire il reclutamento di minori. Di questi 106 sono risultati essere ragazze.

In questi anni, rispetto all’ignobile tratta dei bambini-soldato, la società civile internazionale si è mobilitata ripetutamente. D’altronde, l’impiego dei minori nelle azioni belliche, soprattutto dove sono in corso guerre asimmetriche, è un dato incontrovertibile che non può lasciare indifferenti. Ognuno di questi combattenti, indipendentemente dallo scenario in cui opera, assume il duplice ruolo della vittima sacrificale e del carnefice. Da una parte il giovane combattente, poco importa se appartenga a questa o a quella nazionalità, viene costretto a sacrificare la propria innocenza; dall’altra esso si trasforma spesso nel più crudele degli aguzzini. Oggi, nel mondo, complessivamente, sono più di 250.000 i bambini-soldato e il loro utilizzo rappresenta una gravissima violazione dei diritti umani e un ripugnante crimine di guerra.

In Africa, comunque, negli ultimi anni, il fenomeno dell’arruolamento ha subìto dei mutamenti che andrebbero valutati con grande attenzione. In alcune zone della fascia sub-sahariana esso è avvenuto, prevalentemente, in modo coercitivo, attraverso raid perpetrati da milizie di vario genere. Nel nord Uganda, ad esempio, dove la guerra civile si è conclusa da più di un decennio, i villaggi venivano attaccati, messi a ferro e fuoco e spesso i minori assistevano all’uccisione dei propri genitori e parenti. Questa brutale tecnica veniva poi seguita dall’indottrinamento, anch’esso esercitato con modalità invasive. In Sierra Leone, durante gli anni Novanta, i ragazzi e le ragazze subivano delle sedute psicologiche manipolatorie traumatizzanti e terrorizzanti, a cui erano associate pratiche suggestionanti come l’obbligo di bere latte e polvere da sparo, oltre all’assunzione di sostanze stupefacenti. I ribelli sierraleonesi del Fronte unito rivoluzionario (Ruf) condivisero questi metodi brutali e fortemente invasivi, anche con formazioni armate locali e della vicina Liberia. Nel nord Uganda, i famigerati ribelli dell’Lra si spinsero ben oltre nelle pratiche manipolatorie. I minori rapiti entravano a far parte del movimento armato solo dopo l’unzione (in lingua acholi: wiro ki moo) che veniva somministrata sul corpo della nuova recluta, secondo un rituale ideato da Joseph Kony, fondatore dell’Lra. Lo scopo era duplice: serviva a rendere idealmente invincibile il giovane combattente e a vincolarlo al movimento attraverso un legame ritenuto dagli stessi ribelli indissolubile. Pare che questa pratica del wiro ki moo sia stata utilizzata dai vertici dell’Lra anche dopo il ripiegamento dei ribelli, avvenuto dieci anni or sono, nei Paesi limitrofi (Repubblica Centrafricana e Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan).

L’ingresso, però, dei movimenti jihadisti, come Boko Haran in Nigeria, e in generale nella vastissima regione saheliana, ha determinato una evoluzione nelle modalità di reclutamento. Infatti, esso avviene anche a seguito di un indottrinamento compiuto nei villaggi rurali tra i giovani, molti dei quali analfabeti. Emblematico è il caso del Camerun, dove Boko Haram è sconfinato in questi anni ripetutamente. Qui alcune componenti della società civile, con la collaborazione dei missionari, hanno organizzato dei programmi preventivi di educazione alla pace in grado di contrastare il proselitismo dei ribelli nigeriani.

È importante sottolineare che, nel corso dell’ultimo ventennio, vi sono state, soprattutto nell’Africa sub-sahariana, delle esperienze significative dal punto di vista del recupero (sia psicologico che scolastico-lavorativo), finalizzate alla reintegrazione di questi minori nelle loro rispettive comunità. Un numero rilevante di Organizzazioni non governative e congregazioni missionarie hanno investito risorse umane ed economiche con grande zelo e dedizione in questa nobile causa. Ciò ha determinato la messa a punto di protocolli riabilitativi, in collaborazione con le forze multinazionali di pace, che si sono rilevati proficui.

Ad esempio, in Sierra Leone, alla fine degli anni Novanta, al momento del rilascio, il bambino-soldato veniva accompagnato dal proprio ufficiale ribelle agli appositi centri di disarmo, sotto la supervisione dell’Ecomog (la forza militare d’interposizione dei Paesi dell’Africa occidentale) e dell’Unamsil (il contingente Onu dispiegato nell’ex protettorato britannico). Il suo nome era iscritto su uno speciale registro e così acquisiva lo status di “ex combattente”. Successivamente, avveniva il trasferimento in un campo di smobilitazione dove il minore otteneva lo “stato civile”. Qui scattava l’operazione di ricerca dei familiari. Il ricongiungimento con i parenti era, certamente, la fase più delicata del percorso di recupero e rappresentava in molti casi un ostacolo che poteva rivelarsi insormontabile. A volte capitava che il campo di smobilitazione fosse lontano dal villaggio natale dell’individuo che doveva quindi essere trasferito nel centro più vicino alla sua zona d’origine. Il vero trauma si manifestava, però, quando, dopo lunghe ricerche, l’ex bambino-soldato subiva il rifiuto dei propri cari. Poteva capitare che i genitori fossero deceduti e che la “famiglia estesa” (zii, cugini o nonni) non intendesse farsi carico del nuovo onere. In quegli anni, in Sierra Leone, la popolazione autoctona conosceva molto bene (per esperienza diretta) gli atti criminali che i giovani ribelli erano stati capaci di compiere (mutilazioni, uccisioni). Dunque, vi era una diffusa paura che questi ex combattenti, sebbene fossero figli o fratelli, potessero essere ancora pericolosi.

Il fenomeno del reclutamento dei minori è sempre stato legato a questioni scottanti: il controllo del territorio per conto di imprese minerarie, la povertà endemica, la militarizzazione delle società e l’assenza di democrazia. Ecco perché lo sfruttamento dei minori per fini bellici è solo una drammatica conseguenza delle ingiustizie che affliggono le società locali. Il loro arruolamento è avvenuto in passato e avviene tuttora in Africa, nei ranghi di formazioni regolari o ribelli, con la complicità di potentati vicini e lontani, per interessi antitetici a quelli del bene collettivo e personale. Vi sono, infatti, imprese che smerciano illegalmente armi e munizioni, con l’intento di avere il monopolio delle commodities (minerali e fonti energetiche).

È bene ricordare che nel 2000, 153 Paesi approvarono il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, concernente il coinvolgimento dei minori nei conflitti armati: uno strumento giuridico ad hoc che stabilisce che nessun minore di 18 anni possa essere reclutato forzatamente o utilizzato direttamente nelle ostilità, né dalle forze armate di uno Stato né da gruppi armati. Il Protocollo in questione non è l’unico documento internazionale rilevante in materia. Vi è, ad esempio, la Carta Africana sui diritti e il benessere del bambino (African Charter on the Rights and Welfare of the Child), ratificata da 46 Stati membri dell’Unione Africana su 54, e la Convenzione 182 dell’Ilo, sulla proibizione e l’azione immediata per eliminare le peggiori forme di lavoro minorile, ratificata da 175 Stati.

Non resta, davvero, che passare dalle parole ai fatti. «Fermiamo questo crimine abominevole» ha scritto, lo scorso 12 febbraio, papa Francesco, tramite il suo account Twitter @Pontifex, in occasione della recente Giornata internazionale contro l’uso dei bambini-soldato.

Il gesto di Krajewski riapre il confronto tra pastori e popolo

La coraggiosa e del tutto inedita iniziativa del card. Konrad Krajewski, dettata da indiscutibili urgenze umanitarie, pone una serie di problemi che vanno affrontati con rigore. Un buon cristiano può trasgredire una legge per amore e correndo i rischi connessi, ma un pastore deve sempre domandarsi come il suo gesto si possa configurare nel contesto civile. Persino Gesù, quando superava la legge mosaica, non ne calpestava la forma ma ne valicava i limiti.

Se avete dubbi, pensate alla mancata lapidazione dell’adultera, un capolavoro di intelligenza politica oltre che di amore misericordioso. Ricordo che un giorno l’Abbè Pierre a me e ad altre giovani teste calde che gli chiedevamo di raccontarci le sue avventure nella Francia del dopoguerra, quando costruiva palazzi del tutto abusivi per i senzatetto, disse, come era solito fare senza mezzi termini, di non provare ad imitarlo. “Io l’ho potuto fare perché scuotevo le coscienze e cambiavo la politica, voi no!”: pressappoco queste furono le sue parole.

Ora ne comprendo bene il senso profondo. Lui era un personaggio pubblico, parlamentare insignito della Legion d’Onore e quindi pienamente dentro al contesto politico del suo Paese, non un vescovo o un cardinale.

Credo, perciò, che il gesto di Krajewski riapra il confronto tra pastori e popolo cristiano sui compiti affidati alla politica, “la forma più alta di carità”, che non possono essere surrogati da nessuno. Dopo il ruinismo, è davvero l’ora che si inauguri una stagione diversa di protagonismo laicale, dove ognuno faccia fino in fondo ciò che gli compete.

Geopolitica della fraternità. Intervento del Card. Parolin

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano

La mattina di martedì 14 maggio, presso l’Università del Sacro Cuore a Milano, il cardinale segretario di Stato ha aperto i lavori del convegno internazionale «1919-2019. Speranze di pace tra Oriente e Occidente». Pubblichiamo quasi integralmente il testo del suo intervento.

Pochi giorni fa Papa Francesco ha lanciato un appello alle Nazioni, affinché si associno e lavorino insieme perché «il bene comune è diventato mondiale». Il Santo Padre ha poi sottolineato che laddove «uno Stato suscitasse i sentimenti nazionalistici del proprio popolo contro altre nazioni o gruppi di persone, verrebbe meno alla propria missione. Sappiamo dalla storia dove conducono simili deviazioni; penso all’Europa del secolo scorso».

Queste parole applicano all’attuale situazione di progressiva globalizzazione una linea di pensiero che il magistero della Chiesa ha sviluppato in modo costante negli ultimi cent’anni, attingendo anche all’antica saggezza dei padri della Chiesa. Infatti, proprio mentre ha conosciuto la possibilità di diventare più unita, l’umanità ha cominciato a sperimentare anche le divisioni più laceranti. A questi problemi nuovi, la Chiesa risponde esortando all’unità come espressione di un’esigenza intrinseca, che porta a sviluppare un legame autentico tra popoli diversi.

Gradualmente si è venuto rafforzando il senso dell’osmotica correlazione tra la natura sovranazionale della Chiesa cattolica e l’unità della famiglia umana. Infatti, il concilio Vaticano II nella Lumen gentium definisce la Chiesa «quasi un sacramento, ossia segno e strumento di intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».

Allontanandosi progressivamente da un contesto di egemonia europea e da un approccio eurocentrico, il richiamo all’unità fra i popoli ha anche accompagnato un crescente interesse ecclesiale per i mondi non europei, in particolare africano, asiatico e latino-americano, sottolineando una prospettiva sempre più “globale”. La Chiesa si è espressa nel tempo su molti temi legati all’unità della famiglia umana: contro la guerra e l’uso della violenza, da una parte, e per la pace e il negoziato nelle controversie internazionali, dall’altra; per lo sviluppo della cooperazione internazionale e per la promozione delle organizzazioni sovranazionali. In sintesi, a problemi globali occorre dare soluzioni altrettanto globali. In questa sede, intendo limitarmi ad illustrare alcune linee del magistero pontificio degli ultimi cent’anni e a fare alcuni esempi.

In questa prospettiva, il 1919 costituisce un importante tornante della storia per quanto riguarda la tematica dell’unità della famiglia umana. Nel clima delle attese suscitate dalla fine della Prima guerra mondiale, Benedetto XV avviò un nuovo approccio della Santa Sede e della Chiesa cattolica al contesto internazionale, in continuità con l’opera di pace svolta durante la guerra.

È particolarmente conosciuta la di lui Nota del 1° agosto 1917, che definiva la guerra “inutile strage”. Tale denuncia del Papa metteva in luce, indirettamente, anche la crescente incapacità degli Stati europei a garantire l’equilibrio del sistema internazionale. In quel contesto, la voce di Papa Dalla Chiesa apparve quasi inascoltata, anche all’interno dello stesso mondo cattolico. Ma Benedetto XV vedeva lontano: nel seguito del Novecento, la pace e la guerra non si sarebbero più dovute fare riferendosi neppur lontanamente a giustificazioni “cristiane”. Questo Papa inaugurò un nuovo percorso del magistero pontificio sempre più critico verso la guerra quale strumento di soluzione delle controversie internazionali, atteggiamento poi condiviso e rilanciato dai suoi Successori.

Nell’Enciclica Pacem Dei munus, Benedetto XV invitò popoli e nazioni a riconciliarsi, prendendo posizione anche a favore della Società delle Nazioni da poco fondata. La prospettiva del Papa aveva qualche affinità con il progetto sociale del Presidente statunitense Woodrow Wilson. Le due figure, del Papa e del presidente, si stagliavano sullo sfondo del progressivo declino del ruolo egemonico dell’Europa. Ma le loro prospettive non erano le stesse: Wilson ha aperto la strada a nuovi equilibri atlantici tra Europa e Stati Uniti, mentre Benedetto XV ha guardato con attenzione anche a ciò che accadeva oltre l’Occidente. Al riguardo, la sua importante lettera apostolica Maximum illud segnò una discontinuità proprio nella storia delle missioni cattoliche nel mondo. Infatti, si tratta del primo documento missionario promulgato personalmente dal Papa, mentre quelli precedenti emanavano piuttosto dal Dicastero della Santa Sede competente per le missioni. È come se Benedetto XV avesse voluto autorevolmente dare nuovo inizio e nuovo slancio all’intera azione missionaria della Chiesa cattolica. Per Benedetto XV, la Chiesa doveva riprendere a guardare con maggiore attenzione ad Oriente, e in modo del tutto particolare alla Cina.

Il cristianesimo non doveva apparire «la religione di una data nazione, abbracciando la quale uno viene a mettersi alla dipendenza di uno stato estero, rinunciando in tal modo alla propria nazionalità». La Maximum illud è pervasa da questa ansia evangelizzatrice globale e raccomanda agli operatori missionari l’abbandono di atteggiamenti di superiorità verso il clero autoctono, di cui si auspica, al contrario, l’incremento e la promozione all’episcopato. Ne fu conseguenza, pochi anni dopo, la consacrazione nella basilica Vaticana dei primi sei vescovi cinesi. La lettera affermò chiaramente che le missioni non sono un’estensione della cristianità occidentale, bensì l’espressione di una Chiesa veramente universale che vuole mettersi a servizio di tutti i popoli.

In concreto, la critica all’atteggiamento nazionalistico di taluni missionari europei si inserì anche in una nuova prospettiva di attenzione alle buone ragioni dei patriottismi non europei, come quello che andava crescendo nella Cina di quegli anni. Si colloca in tale contesto il dialogo all’epoca avviato tra la Santa Sede e la Cina in vista di stabilire relazioni diplomatiche, per superare l’antico sistema dei protettorati e acquisire un rapporto istituzionale diretto: proprio per questo, ancora una volta, una potenza europea, in questo caso la Francia, si oppose all’iniziativa, fino a impedirne la realizzazione.

La preoccupazione per l’unità della famiglia umana fu viva anche in Pio XI, soprattutto negli ultimi anni del suo pontificato, quando una nuova guerra apparve sempre più vicina e mentre cominciava la persecuzione degli ebrei in Europa. È nota la decisione che lo spinse a far preparare il testo di un’enciclica dedicata all’unità del genere umano (Humani generis unitas) che non poté portare a compimento. Dai documenti d’archivio, sappiamo che avrebbe contenuto una decisa condanna del razzismo e dell’antisemitismo nazista, proprio in nome della fondamentale uguaglianza e unità del genere umano.

Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, il suo successore, Pio XII mise in guardia gli Stati affermando: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Proprio richiamandosi alla linea tracciata da Benedetto XV, Pio XII ebbe modo di esprimersi con accenti severamente critici nei confronti della guerra che scoppiò il 1° settembre 1939 con l’invasione della Polonia da parte delle truppe naziste.

Nella visione di Papa Pacelli, «le genti, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di vita e di cultura, non sono destinate a spezzare l’unità del genere umano», e nella sua visione universale la Chiesa non mira ad uniformare l’umanità.

Nella sua enciclica programmatica, la Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939, Egli fece esplicito riferimento alla Cina parlando della chiusura della secolare «controversia dei riti», in continuità con il suo predecessore Pio XI, sancita definitivamente l’8 dicembre 1939. Tale questione aveva segnato dolorosamente la storia delle missioni cattoliche in Cina fin dall’epoca di Matteo Ricci e dei suoi compagni, i quali accoglievano favorevolmente le tradizionali forme cinesi di culto verso gli antenati, mentre altri missionari e scuole di pensiero le avversavano.

Nel 1946, Pio XII creò nuovi cardinali provenienti da tutti i continenti, tra cui il primo dalla Cina continentale, cioè l’allora vescovo di Pechino, monsignor Tommaso Tien Ken-sin. In tale occasione il Papa si rivolse ai porporati con le seguenti parole: «La comprensione universale della Chiesa non ha nulla a che vedere con la strettezza di una setta, né con la esclusività di un imperialismo prigioniero della sua tradizione». Erano parole forti e importanti, che indicavano un chiaro orientamento pastorale, alla vigilia di un processo di decolonizzazione che in pochi decenni avrebbe portato alla nascita di tanti nuovi Stati indipendenti.

Di «unità della famiglia umana» ha parlato anche il concilio Vaticano II. La Gaudium et spes sottolinea il contributo della Chiesa a tale unità perché essa, grazie alla «sua universalità può costituire un legame strettissimo tra le diverse comunità umane e nazioni», favorendo il superamento del dissenso e il consolidamento delle istituzioni «che la umanità si è creata e continua a crearsi».

La convocazione del concilio scaturì anche dalle convinzioni maturate da Giovanni XXIII durante un lungo percorso che da Bergamo lo aveva portato a Roma, Sofia, Istanbul, Parigi e Venezia. Dopo la grave crisi di Cuba, momento di svolta nella guerra fredda, nell’aprile 1963 pubblicò la Pacem in terris, rivolta significativamente anche a «tutti gli uomini di buona volontà» e dedicata «ai problemi che più assillano l’umana famiglia, nel momento presente».

Nell’enciclica, maturata in un contesto di potenziale conflitto atomico, Papa Roncalli parlò di avvento di un’epoca nella quale i membri di ciascuna comunità politica erano chiamati «a collaborare tra loro e orienta[rsi] verso una convivenza unitaria a raggio mondiale». Rifiutando le chiusure etniche, occorreva perciò valorizzare gli organismi internazionali, definiti veri e propri «segni dei tempi».

L’affacciarsi di tanti nuovi Stati sulla scena internazionale sollecitava una nuova solidarietà tra Nord e Sud del mondo all’interno dell’unica “famiglia umana”. Questi Stati chiedevano di essere accolti nella comunità internazionale su un piano di parità, superando posizioni asimmetriche e subordinate. In tale mutato contesto, è convinzione di Papa Giovanni che spetti allo Stato farsi carico, da un lato, del riconoscimento di diritti propri di tutti i cittadini in quanto esseri umani, a partire dai più deboli e da coloro che si trovano in condizioni di minor tutela e, dall’altro, spetta agli Stati nel loro insieme promuovere una collaborazione sempre più intensa in vista di realizzare obiettivi di bene comune.

Con Paolo VI l’auspicio di un’unità della famiglia umana ha generato un impegno sempre più vasto e concreto della Chiesa. Questo Papa avvertì con forza il rapporto tra universalità della Chiesa e unità del genere umano, sottolineato dal concilio. Egli assunse fin dall’inizio l’umanità intera come un interlocutore cui rivolgersi costantemente e indirizzò la sua prima enciclica, la Ecclesiam suam del 6 agosto 1964, a tutto il mondo, impegnandosi personalmente per la «grande e universale questione della pace» quale programma del suo pontificato.

Mentre il Vaticano II era ancora in corso, Paolo VI prese la parola — primo Papa nella storia — all’Assemblea delle Nazioni Unite di New York, rappresentando una Chiesa che si mette al servizio della causa della pace, portando la propria esperienza di umanità per condividere le gioie e le speranze di tutti i popoli. In quella occasione, il Papa volle essere accompagnato da alcuni cardinali rappresentativi di tutti i continenti, simbolo di quell’unità della famiglia umana che trovava espressione visibile nell’universalità della Chiesa cattolica.

Com’è noto, Papa Paolo negli anni seguenti si adoperò instancabilmente per fermare la guerra in Vietnam. Il suo impegno per la pace, tuttavia, non significò soltanto intensa attività diplomatica ma anche un’azione molteplice su terreni diversi, come quelli del dialogo culturale, artistico, sociale e scientifico. Paolo VI, in particolare, aveva compreso chiaramente che la questione sociale era ormai diventata globale e nell’enciclica Populorum progressio sottolineò l’interconnessione tra la spinta all’unificazione dell’umanità e l’ideale cristiano di un’unica famiglia dei popoli, fraterna e solidale.

Ma gli eventi tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta sembrarono smentire questo nesso. Nell’enciclica Octagesima adveniens del 1971, Paolo VI denunciò l’insorgere di «un problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana» e che attraverso uno sfruttamento sconsiderato l’uomo rischia di distruggere la natura e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione.

Per quanto riguarda l’insegnamento di Giovanni Paolo II, mi limiterò a ricordare due momenti particolarmente drammatici: il primo fu il ritorno della minaccia nucleare tra il 1985 e il 1986.  In quel difficile frangente, il 27 ottobre 1986 il Papa convocò i leader delle religioni mondiali ad Assisi, pregando perché «l’umanità, nella sua stessa diversità, [attingesse] dalle sue più profonde e vivificanti risorse, in cui si forma la propria coscienza e su cui si fonda l’azione di ogni popolo». Il secondo momento significativo fu alla vigilia della guerra in Iraq del 2003, che Egli cercò di scongiurare in ogni modo. Davanti al corpo diplomatico Giovanni Paolo II lanciò il grido: «No alla guerra: la guerra non è mai una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità».

Con Giovanni Paolo II, l’unità della famiglia umana si intreccia progressivamente con il fenomeno della globalizzazione, ormai vincente sul piano economico, ma carico di ambiguità sul piano umano e umanitario. Nel 2001, Giovanni Paolo II sullo sfondo drammatico dei crescenti movimenti migratori, richiamò con forza il bene comune universale, che abbraccia l’intera famiglia dei popoli, «al di sopra di ogni egoismo nazionalista».

Il tema dell’unità della famiglia umana viene ripreso nuovamente anche nell’enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI, che indica il dovere di perseguire il bene comune senza limitarlo ai soli confini nazionali.

Con Papa Francesco siamo giunti agli ultimi passi — per ora — del lungo cammino iniziato da Benedetto XV nel 1919. Primo Papa non europeo da molti secoli, Francesco costituisce l’espressione evidente della profonda trasformazione della Chiesa cattolica, il cui baricentro si è progressivamente proiettato dall’Europa verso un orizzonte mondiale. È noto, in particolare, quanto questo Papa abbia proseguito il percorso iniziato con il Vaticano II, accentuando le caratteristiche di una Chiesa “in uscita” e protesa ad evangelizzare, secondo le linee da lui indicate nell’enciclica Evangelii gaudium.

In tale orizzonte si colloca anche l’approccio di Papa Francesco all’unità della famiglia umana, un tema da lui affrontato in un contesto diverso da quello dei suoi predecessori, perché la globalizzazione è ormai diventata un fenomeno avanzato, che mostra sempre più chiaramente anche gravi limiti, problemi e contraddizioni.

A lungo si è sperato che, da solo, lo sviluppo di maggiori rapporti economici potesse favorire la pace e che una maggiore interdipendenza tra gli esseri umani spingesse anche verso maggiore unità e fraternità. Ma l’evoluzione della globalizzazione ha mostrato che un mondo più piccolo e interconnesso non è necessariamente un mondo più unito e più giusto, abitato da uomini e donne che si incontrano, solidarizzano e collaborano. Per questo, è cruciale continuare a riflettere non solo sulla quantità ma anche sulla qualità dei contatti creati o intensificati dai processi di globalizzazione e, soprattutto, sulle nuove divisioni e disuguaglianze che ne scaturiscono.

L’unità della famiglia umana è un tema che emerge con forza anche nell’enciclica Laudato si’ che Papa Francesco ha dedicato alla custodia del creato, nella quale si rivolge non solo ai cristiani o agli uomini di buona volontà, ma inclusivamente «a ogni persona che abita questo pianeta». Egli scrive: «bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza». Il pianeta su cui viviamo è di tutti e viverlo come casa comune è una necessità sempre più impellente, per proteggerlo occorre ricercare insieme uno sviluppo sostenibile e integrale.

Per il Papa, le patologie di un mondo diviso non si affrontano inseguendo meramente l’illusorio obiettivo di una maggiore sicurezza per pochi e, di fatto, mantenendo dinamiche ingiuste che fanno soffrire molti, ma partendo dall’ascolto della voce dei poveri. A volte si tratta di interi popoli, spesso quelli più poveri della terra e, pur, «rispettando l’indipendenza e la cultura di ciascuna Nazione, bisogna ricordare sempre che il pianeta è di tutta l’umanità e per tutta l’umanità». In questa linea, Papa Francesco ha affermato di recente: «lo Stato nazionale non può essere considerato come un assoluto, come un’isola rispetto al contesto circostante».

Per costruire compiutamente l’unità della famiglia umana occorrono invece più solidarietà, più misericordia e più fraternità. Soffermandomi per brevità solo su quest’ultimo tema, ricordo che Francesco vi ha fatto riferimento in numerose occasioni, tra cui la sua visita all’Onu. Durante il suo recente viaggio negli Emirati Arabi Uniti ha detto che solo ispirandosi all’ideale della fraternità, è possibile che membri diversi della famiglia umana si custodiscano a vicenda, facendo «prevalere l’inclusione dell’altro sull’esclusione». Tutto ciò presuppone fedeltà alla propria identità ma anche il  «coraggio dell’alterità», che spinge a prendersi cura dell’altro e ci ricorda «che niente di ciò che è umano ci può rimanere estraneo».

In questa prospettiva Oriente-Occidente, si inseriscono anche gli sviluppi del rapporto con la Cina durante l’attuale pontificato, che hanno portato alla stipula di un Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, firmato a Pechino il 22 settembre 2018. Proprio perché ispirato da motivi pastorali, l’Accordo guarda in primo luogo alla vita della comunità cattolica in quel grande Paese e, di riflesso, incoraggia la Cina a un dialogo sempre più aperto e collaborativo in favore della pace come destino comune della famiglia umana.

In un’intervista ad «Asia Times» del febbraio 2016, Papa Francesco ha affermato: «È una grande sfida mantenere l’equilibrio della pace […]. Il mondo occidentale, il mondo orientale e la Cina hanno tutti la capacità di mantenere l’equilibrio della pace e la forza per farlo. […]. L’incontro si ottiene attraverso il dialogo. Il vero equilibrio della pace si realizza attraverso il dialogo. Dialogo non significa che si finisce con un compromesso, mezza torta a te e l’altra mezza a me. È quello che è accaduto a Yalta e abbiamo visto i risultati. No, dialogo significa: bene, siamo arrivati a questo punto, posso essere o non essere d’accordo, ma camminiamo insieme; è questo che significa costruire».

Sono parole ispirate a quella che si potrebbe definire una “geopolitica della fraternità”, incentrata sul rispetto delle identità e sul coraggio dell’alterità. Il Papa invita così ad evitare che nella comunità internazionale insorgano nuove forme di “guerra fredda” ed esorta tutti a considerare il mondo intero come un bene comune, da condividere e conservare, affrontando insieme i problemi.

Io stesso ho avuto modo di dire, nell’agosto 2016, che «molte sono oggi le speranze e le attese per nuovi sviluppi e una nuova stagione nei rapporti tra la Sede Apostolica e la Cina, a beneficio non solo dei cattolici nella terra di Confucio, ma dell’intero Paese, che vanta una delle più grandi civiltà del pianeta». E quando è stato firmato l’Accordo ho sottolineato che tale firma, oltre che importante per la vita della Chiesa cattolica in Cina, lo era anche per il dialogo tra la Santa Sede e le autorità civili di quel Paese e «per il consolidamento di un orizzonte internazionale di pace, in questo momento in cui stiamo sperimentando tante tensioni a livello mondiale».

Tutti conosciamo i profondi travagli che hanno segnato la vita della Chiesa cattolica in Cina nel corso dell’ultimo secolo. Da tali acute sofferenze, grazie a Dio, però non sono nate due Chiese, perché in tutti i cattolici cinesi, a qualsiasi comunità essi appartenessero, è rimasto vivo il sentimento della piena comunione con il vescovo di Roma, così come il desiderio di amare e servire la propria patria. Alla base di tante tensioni non vi sono state, infatti, differenze teologiche, quanto piuttosto due differenti modi di affrontare la complessità del contesto storico e politico.

Oggi, per la prima volta dopo tanti decenni, tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il successore di Pietro e molti cattolici pongono gesti di riconciliazione che aiutano a ricomporre l’unità tra vescovi, sacerdoti e fedeli. Ciò che sta avvenendo ora nella Chiesa in Cina scaturisce infatti dalla forza di una comunione che è davvero cattolica, e cioè universale, e da cui viene anche una spinta alla fratellanza tra i popoli. La sempre più feconda integrazione dei cattolici cinesi nella Chiesa universale e il cammino di riconciliazione tra fratelli avviato negli ultimi anni costituiscono certamente una novità di portata storica, di cui nel tempo beneficeranno in molti, non solo in Cina. Infatti, l’auspicio del Santo Padre Francesco e dell’intera Chiesa cattolica è che tutto ciò possa contribuire, con l’aiuto di Dio, all’edificazione di un mondo più giusto e fraterno, ove l’armonia tra i popoli e le nazioni possa davvero contribuire alla causa della pace e all’unità della famiglia umana.

Il Pd, il centro e il centro sinistra

Già pubblicato sulle pagine dell’Huffingtonpost

I conti, come si sa, non si possono fare senza l’oste. E quindi sino al 27 maggio non possiamo ridisegnare anticipatamente la geografia politica italiana che ci sarà. Ma un fatto è indubbio: dopo il 27 maggio, e a prescindere dagli stessi risultati elettorali – che comunque non si discosteranno granché dalle “tendenze” elaborate dai vari sondaggisti – nulla sarà più come prima. A cominciare dalla necessità, ormai richiesta e gettonata da settori crescenti e diversificati, di ridar vita ad una formazione politica che sappia recuperare e riattualizzare la tradizione, il pensiero, la cultura e una politica di “centro”. Ovvero una formazione politica che sappia affrontare la situazione politica che si è venuta a creare dopo il voto del marzo del 2018 e, soprattutto, che sappia battere la radicalizzazione della lotta politica che si è strutturata nel nostro paese. Non solo tra la “”nuova destra” di Salvini e la “nuova sinistra” di Zingaretti ma anche all’interno dello stessa area di governo.

Ora, per fermarsi al campo dell’ ex centro sinistra, e’ altrettanto indubbio, nonché oggettivo, che il panorama di oggi di quella coalizione non può reggere e,soprattutto, non è manco competitiva con gli avversari. Sia esso il centro destra o il partito antisistema e populista dei 5 stelle. E questo per una ragione molto semplice. Il Partito democratico continua a pensare di essere un partito a “vocazione maggioritaria”. Anche se siamo in un contesto dominato dal ritorno della legge proporzionale e quindi dalle rispettive culture politiche da un lato e, dall’altro, dal pesante ed irreversibile ridimensionamento elettorale del suddetto partito. Un vizio politico e culturale che stenta ad essere definitivamente rimosso. Perché se ai tempi del 40% del Pd era una strategia tutto sommato percorribile anche se contraddiceva un postulato essenziale della politica italiana che recita che la “politica in Italia e’ sempre stata politica delle alleanze”, oggi riproporre in modo subdolo quella “vocazione maggioritaria” rischia di essere ridicolo nonché un po’ patetico. Perché nell’ultima fase del Pd, quella a guida Zingaretti, e’ riemersa quella strana concezione che il partito di maggioranza relativa della coalizione distribuisce le carte, prevalentemente a tavolino, di chi ricopre il fianco destro, chi il fianco sinistro e chi il fianco centrista/cattolico della alleanza. Una operazione, appunto, ridicola che può avere un solo epilogo: la quasi scientifica sconfitta politica ed elettorale salvo il ritiro dei concorrenti o per via politica o per via giudiziaria. Il che, almeno per il primo caso, e’ altamente improbabile.

Ora, se la vocazionale maggioritaria del Pd e’ un mero ricordo del passato – in entrambe le versioni in cui viene praticata – si tratta di ridar vita ad un vero centro sinistra. Non basta fare liste europee che vanno dal liberal/liberista Calenda al ricco alto borghese di sinistra Pisapia per arrivare alla conclusione che il Pd e’ il vero e l’unico partito di centro sinistra. Non è così e, non a caso, tutti i sondaggi e le consultazioni reali che ci sono state sino ad oggi hanno detto che attualmente il centro sinistra, semplicemente, non c’è.

Ecco perché l’unica operazione politica che, almeno in questo campo, occorre far decollare e’ quella di ricostruire un forza/partito/movimento che sappia riattualizzare il pensiero, la cultura e il metodo di un centro riformista, laico, plurale, di governo e autenticamente democratico. Con tanti saluti alla vocazione maggioritaria o minoritaria del Pd a guida Renzi o a guida Zingaretti. Un centro plurale e riformista che sappia anche, ma non solo, far ritornare protagonista quel cattolicesimo democratico e popolare che da troppo tempo e’ ai margini della vita politica nazionale e che stancamente vota gli attuali protagonisti in assenza di un soggetto che lo rappresenti realmente. Non in chiave esclusiva o, peggio ancora, confessionale ma in una comune collaborazione con altre culture e altri filoni ideali. Una forza che sia in grado di battere quella radicalizzazione politica e quella cultura degli “opposti estremismi” che, se non sconfitta sul terreno politico e culturale, rischia di minare le stesse radici della nostra democrazia. Perché la democrazia italiana, per dirla con una bella espressione di Aldo Moro, resta sempre quella caratterizzata da “strutture fragili e da una passionalità intensa”.

Per questi motivi la grande novità politica del dopo 26 maggio non potrà che essere quella della nascita di un partito di centro e di un nuovo profilo dell’ ex centro sinistra. Solo così sarà possibile competere con un centro destra in salute e con un partito populista e antisistema come i 5 stelle. È bene saperlo prima che sia troppo tardi.