CASELLI, “LA MAFIA NON È UNA SEMPLICE EMERGENZA”.

Intervista esclusiva al magistrato che ha vissuto in prima linea, a Palermo, la guerra dello Stato alla mafia. Chiaramente “le associazioni di tipo mafioso non operano nel vuoto”, pertanto la repressione da sola non basta. In ultimo, che fare dell’ergastolo ostativo?

Dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio del 1992 che chiusero l’esperienza giudiziaria ed esistenziale di Falcone e Borsellino quanto fu difficile raccogliere il testimone e riannodare pazientemente le fila della giustizia, sia in termini operativi che di ripensamento di un percorso che voleva ricostruire un tessuto di legalità nella società e nel Paese?

I risultati delle indagini dopo le stragi (ottenuti con il decisivo concorso delle forze di polizia) sono stati imponenti. Si fa luce su numerosissimi omicidi commessi da Cosa Nostra aventi come vittime sia affiliati sia esponenti delle istituzioni, sacerdoti, giornalisti, imprenditori, professionisti. L’elenco è interminabile. Ma all’inizio va menzionata la strage di Capaci, perché la prima decisiva confessione al riguardo fu resa il 23 ottobre 1993 – in un interrogatorio svoltosi dalle ore 1.45 alle ore 6.00 – a me come procuratore di Palermo.

Proprio a me infatti aveva chiesto di parlare il pentito Santino Di Matteo, per ricostruire nei dettagli l’attacco criminale (cui egli aveva personalmente partecipato) che aveva causato la morte di Falcone. Posso poi ricordare che sono stati individuati, arrestati, processati (e in gran parte già condannati anche con sentenze definitive) i responsabili degli omicidi del colonnello Giuseppe Russo e dell’insegnante Filippo Costa (Corleone, 20 agosto 1977), di Giuseppe Impastato (Cinisi, 9 maggio 1978), del giornalista Mario Francese (Palermo, 26 gennaio 1979), di Michele Reina (9 marzo 1979), di Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), di Pio La Torre e Rosario Di Salvo (30 aprile 1982), del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo (Palermo, 3 settembre 1982), del vicequestore dottor Giuseppe Montana (28 luglio 1985), del vicequestore dottor Antonino Cassarà e dell’agente di Polizia Roberto Antiochia (6 agosto 1985), dell’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco (Palermo, 12 gennaio 1988), dell’imprenditore Libero Grassi (Palermo, 29 agosto 1991), dell’onorevole Salvo Lima (Palermo, 12 marzo 1992), del potente esattore Ignazio Salvo (Santa Flavia, 17 settembre 1992), del parroco di Brancaccio don Pino Puglisi (Palermo, 15 settembre 1993) e di altri ancora. 

Si scoprono delle vere e proprie “centrali” del crimine. Vengono recuperati arsenali di armi e di esplosivi. Si ricostruiscono occulti canali di riciclaggio. Vengono catturati pericolosissimi latitanti. Fra i tanti – e per citare soltanto quelli appartenenti al vertice dell’organizzazione mafiosa – basti qui ricordare: Salvatore Riina (15 gennaio 1993), Giuseppe Montalto (5 febbraio 1993), Raffaele Ganci (10 giugno 1993), Giuseppe e Filippo Graviano (27 gennaio 1994), Domenico Farinella (29 novembre 1994), Michelangelo La Barbera (3 dicembre 1994), Leoluca Bagarella (24 giugno 1995), Salvatore Cucuzza (4 maggio 1996), Giovanni Brusca (20 maggio 1996), Pietro Aglieri (6 giugno 1997), Gaspare Spatuzza (2 luglio 1997), Vito Vitale (14 aprile 1998), Giuseppe Guastella (24 maggio 1998), Mariano Tullio Troia (15 settembre 1998), Salvatore Genovese (12 ottobre 2000), Benedetto Spera (30 gennaio 2001), Antonino Giuffrè (16 aprile 2002). Un numero così imponente di latitanti, ciascuno di elevatissima caratura criminale, non si registra né prima né dopo il periodo in oggetto. Anche se, ovviamente, di catture ve ne sono state anche in seguito, in particolare quelle “eccellenti” di Bernardo Provenzano (11 aprile 2006) e Matteo Messina Danaro (16 gennaio 2023). Si individuano e si sequestrano beni e capitali di provenienza illecita per un valore complessivo superiore a 5,5 milioni di euro (pari a circa 11 miliardi di lire). 

Grazie al determinante contributo dei collaboratori di giustizia (una slavina!) si celebrano processi che si concludono con condanne per 650 ergastoli e un’infinità di anni di reclusione. Infine è possibile impostare una nuova strategia d’attacco al lato oscuro del pianeta mafia, iniziando a indagare anche le sue “relazioni esterne” con alcuni settori inquinati della società civile e dello Stato. 

Sono trascorsi 30 anni, perché un periodo così lungo fino ai fatti di questi giorni? Il Procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha affermato che “c’è stata certamente una fetta di borghesia che negli anni ha aiutato Messina Denaro e le nostre indagini ora stanno puntando su questo”.

È evidente che Cosa Nostra stragista (quella dei Corleonesi) ha subito durissimi colpi: se non è finita, sembra in via di estinzione. Come una corazzata colpita più volte anche sotto la linea di galleggiamento che però non affonda. Perché? Non si deve dimenticare (mai!) che la mafia, tutte le mafie in verità, non sono “soltanto” una banda di gangster pericolosi. Esse sono anche e soprattutto un’organizzazione criminale strutturata, non una “semplice” emergenza. Vanno affrontate e colpite appunto come organizzazione, oltre che nelle singole componenti individuali. 

Va anche detto che le associazioni di tipo mafioso non operano nel vuoto. Sono inserite in un sistema di rapporti di complicità che coinvolgono professionisti, imprenditori, amministratori pubblici, uomini politici, soggetti che affiancano i capi della mafia e formano la “borghesia mafiosa” (di cui ha parlato anche l’attuale procuratore capo di Palermo De Lucia) o “zona grigia”. È proprio questa a costituire la vera spina dorsale del potere mafioso. Un esempio: il riciclaggio non sarebbe possibile senza il contributo ben ricompensato di esperti che sanno agire nelle banche e nel sistema finanziario sia nazionale che internazionale. Il prefetto-generale Dalla Chiesa parlava di “polipartito” della mafia, a significare la compenetrazione dell’organizzazione criminale nella politica, nell’economia, nelle istituzioni, nell’informazione e nella società civile. Le “relazioni esterne” con pezzi del mondo legale offrono alla mafia coperture e complicità, formando un intreccio di interessi e favori scambiati, sussumibili nei casi più gravi nel reato di “concorso esterno” in associazione mafiosa. In sostanza, la mafia è forte non solo per la sua organizzazione interna ma anche per le alleanze e gli appoggi esterni, e sono questi che ne spiegano la resilienza nel tempo oltre a favorire le lunghe latitanze. Quindi, oltre a perseguire i boss occorre colpire la zona grigia più di quanto non sia fin qui avvenuto. 

C’è poi un ulteriore fondamentale aspetto da considerare. Pochissimi giorni prima di essere  ucciso da Cosa Nostra il 3 settembre 1982, a un giornalista che gli chiede come sconfiggere l’organizzazione criminale, Dalla Chiesa (lui, uomo votato alla repressione nel rispetto delle regole) non risponde “manette!”, ma spiega che se i diritti fondamentali dei cittadini (lavoro, casa, assistenza sociale e sanitaria) non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che concedono a chi vogliono, rafforzando così il loro potere. In questo modo Dalla Chiesa afferma la necessità di affiancare all’antimafia “della repressione” (arresti, processi e condanne ai mafiosi o a chi li aiuta) anche l’antimafia “sociale o dei diritti”. Dopo Dalla Chiesa (absit iniuria…), Pietro Aglieri, un pezzo da novanta di Cosa Nostra, che ad un pm di Palermo, Alfonso Sabella, ebbe a dire: “Quando voi venite nelle nostre (sic) scuole a parlare di legalità e giustizia, i nostri (sic) ragazzi vi ascoltano e vi seguono. Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni, chi trovano? A voi o a noi?”. 

Ecco, finché i cittadini incroceranno soltanto il volto “militare” dello Stato, e invece dello Stato troveranno soprattutto i mafiosi, finché saranno costretti ad essere sostanzialmente loro sudditi, la guerra alla mafia non sarà vinta. E sarà vano pretendere un duraturo, costante impegno della società civile. Infine, quel che si è sempre evidenziato e va evidenziato ancor oggi è un chiaro limite culturale. Quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto in situazioni di emergenza, quando, cioè, la mafia mette in atto strategie sanguinarie; quello di trascurare i rischi della convivenza con la mafia quando essa adotta strategie «attendiste», dimenticando la sua lunga storia di violenze che ha fatto di un’associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale. Di qui un andamento discontinuo, una specie di stop and go, dell’attenzione al problema mafia e delle reazioni ad esso. In particolare nella politica (tutta, senza distinzioni di casacche) poco incline – al di là dei proclami di facciata – ad inserire la mafia in posizioni di rilevo della propria agenda.

Contano ancora i collaboratori di giustizia e i pentiti? Questa indagine sembrerebbe smentirlo. Sull’uso delle intercettazioni come strumento investigativo prima c’erano molte polemiche, ora sembrano tutti d’accordo, o quasi…

Premessa: le organizzazioni criminali mafiose sono fondate sul segreto; per combatterle efficacemente, penetrando al loro interno, occorre rompere la corazza del segreto; lo si può fare ascoltando i mafiosi che – appunto perché tali – conoscono quei segreti; l’ascolto può essere diretto (il “pentimento”) o “captato” usando le intercettazioni telefoniche o ambientali. È semplicemente l’ABC dell’antimafia. Quanto alle intercettazioni, Il Ministro Nordio sembra, poco razionalmente, dubitarne persino in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso. Tant’è che è arrivato a dire che i mafiosi non parlano al telefono e se parlano sanno di essere ascoltati e quindi lanciano messaggi. Cosa che se può essere parzialmente vera nel caso di intercettazioni telefoniche su utenza abitualmente usata dal mafioso, non è per nulla verosimile nel caso di intercettazioni ambientali, quando le voci dei mafiosi e dei loro compari vengono captate da “cimici” nascoste (parentesi: piazzarle costa una gran fatica intrisa di rischi e pericoli gravi, che è poco riguardoso trascurare con l’argomento che tanto i mafiosi non parlano…). 

Ma c’è di più. I rimedi alle eventuali disfunzioni dello strumento delle intercettazioni di certo non si contrastano buttando via il bambino con l’acqua sporca (come vorrebbe l’ossessione compulsiva di certi affaristi e politici), ma piuttosto operando nel solco della legge Orlando, una di quelle varate perché “ce lo chiede l’Europa”. Il rimedio suggerito dal Ministro ha invece del surreale, perché propone di ricorrere massicciamente alle cosiddette “intercettazioni preventive”, che però hanno un leggero inconveniente: non sono utilizzabili nel processo (!); per cui Davide – lo Stato – contro Golia – il malaffare organizzato – non avrebbe neppur più la fionda…Ferma restando l’importanza decisiva delle intercettazioni, anche in questo quadro i pentiti conservano un ruolo importante quanto meno perché sono spesso loro che indicano dove piazzare le cimici.

Vuole chiarirci il concetto di “ergastolo ostativo” e il dibattito in atto? Le pena del carcere in regime di 41/bis secondo Lei è sempre attuale e necessaria?

Il senso di una giustizia giusta, attenta anche alle esigenze della persona coinvolta in problemi di giustizia, è di evitare che ci si accanisca sul colpevole fino a schiacciarlo e impedirgli di cambiare.

Se la pena scivola nelle spirali tortuose della persecuzione vendicativa finisce per essere inefficace, sia per chi subisce il castigo sia per chi da quel torto o sbaglio è stato ferito. Il colpevole deve essere punito secondo le leggi, ma se non capisce (anche con le modalità di esecuzione della sanzione) il perché del suo errore, la punizione finisce per servire a poco. Perché incattivisce chi la subisce, confermandolo in una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza, nuovi errori e nuova insicurezza per la società civile.

Sono principi sacrosanti di civiltà (non solo giuridica), basilari in un regime democratico. Ma che in concreto possono funzionare solo per i condannati che danno prove concrete, riconoscibili e sicure di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno davvero. Non è questo il caso dei mafiosi “irriducibili” che non si sono pentiti. Quelli cioè che hanno rifiutato e rifiutano ogni forma di ravvedimento operoso attraverso la collaborazione con la giustizia (comunemente detta “pentimento”) nel contrasto alla criminalità mafiosa.

L’ergastolo non è più ostativo in modo assoluto dopo che il parlamento ha convertito in legge il D.L. 16/2/2022 in base al quale anche i mafiosi ergastolani non pentiti possono accedere ai benefici purchè sussistano gli stringenti requisiti stabiliti con tale decreto. Resta un ”doppio binario”. Il mafioso è vissuto e vive per praticare un metodo di intimidazione, assoggettamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese. In questo modo il mafioso contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. 

Allora, si può dire che con la pratica sistematica dell’intimidazione e dell’assoggettamento (articolo 416 bis codice penale) i mafiosi si mettono sotto le scarpe tutti i valori della Costituzione e si pongono fuori della sua area? Si può dire che per rientrarvi – senza collaborare con la giustizia – devono offrire prove granitiche di ravvedimento? Si può dire che la Costituzione non è un bancomat? Si può dire, in ultimo, che il “doppio binario” risponde a criteri di ragionevolezza stante la specificità della mafia?