Le elezioni prima in Abruzzo e poi in Sardegna, e le successive primarie del PD hanno fornito elementi concreti per un’analisi dell’evoluzione politica nel nostro Paese.
Le due consultazioni regionali hanno dato in sostanza gli stessi responsi.
L’affluenza dei votanti è calata sensibilmente in Abruzzo (53% contro 63% regionali 2014 e 75% politiche 2018) e ha tenuto meglio in Sardegna (54% contro 52% regionali 2014 e 63% politiche 2018). La disaffezione alle urne rimane preoccupante, con un astensionismo al di sopra del 40%.
Vince il centrodestra a trazione leghista. Da notare la capacità di intendersi sul piano locale tra forze sui fronti opposti in Parlamento. Il richiamo del potere nei territori rimane molto forte ed è un collante che unisce la nuova destra sovranista (Salvini-Meloni) con i vecchi “berluscones”.
Tracollo del Movimento 5 Stelle. In Sardegna da 370.000 voti a 85.000: in soli 12 mesi 285.000 sardi sono fuggiti dal M5S. Meno 77%, cioè più di tre elettori su quattro hanno abbandonato Di Maio & C. Gli elettori delle due regioni hanno dimostrato di aver ben compreso l’inconsistenza dei grillini impietosamente dimostrata nei pochi mesi di governo. Chi li aveva votati con spirito qualunquista di destra ha fatto in fretta a preferire Salvini, dimenticandone in fretta i toni antimeridionali. Chi invece li aveva eletti a paladini della giustizia sociale, della trasparenza, dell’onestà contro la corruzione delle caste, li ha pesati, oltre che sull’imbarazzante incompetenza, anche su scivoloni familiari e politici, come il salvataggio dell’alleato Salvini dal processo. E la conclamata debolezza elettorale dei pentastellati li consegna ancor più nelle mani del furbo alleato, visto che la prospettiva di elezioni anticipate in caso di rottura significherebbero il probabile dimezzamento dei voti e degli eletti. Prospettiva che fa inorridire sia i peones sia i capataz del Movimento: “E quando mai ci ricapita?”, potrebbero dire in coro da Di Maio e Toninelli in giù.
Il centrosinistra rialza la testa. Resta lontano dai vincitori, ma ottiene risultati nettamente migliori delle pessimistiche previsioni della vigilia, grazie a candidati presidenti di Regione stimati e inclusivi, con un PD a basso profilo e la proliferazione di liste civiche a varie sfumature, di orientamenti culturali diversi e capaci di dare spazio alla corsa di molti candidati stimolati a ben figurare.
La vitalità a sinistra è poi stata anche confermata dalle primarie del PD. Le basse aspettative della vigilia (tutti e tre i candidati si auguravano un milione di votanti) hanno fatto ritenere un successo l’affluenza di circa 1.600.000 persone (fonte www.partitodemocratico.it): si tratta comunque di un risultato inferiore di circa 250.000 unità rispetto alle ultime primarie del 2017 che avevano incoronato Renzi per la seconda volta (e lì si erano persi un milione di votanti rispetto al 2013).
Più che nell’affluenza, il dato significativo sta nelle proporzioni del successo di Nicola Zingaretti, con i due terzi dei consensi. Non è un mistero per nessuno che l’ultimo PD era una creatura di Renzi, il partito del capo. Da domenica 3 marzo i gruppi dirigenti cambieranno per effetto delle primarie, e il partito inizierà una nuova fase. Ma i gruppi parlamentari restano gli stessi, formati in larghissima parte dai nominati del fiorentino, prima docili esecutori e oggi orfani in cerca di riferimenti. Renzi, ulteriormente indebolito dalle vicende familiari, si sta ritagliando un ruolo extra PD – presentatore televisivo, scrittore, conferenziere – ma pare al momento avere accantonato l’idea di farsi un suo partito (“In cammino”, stile Macron) per i deludenti sondaggi commissionati. È destinato comunque a rimanere un ingombrante convitato di pietra nel PD, anche se le urne dem hanno dato una indicazione netta.
Nelle primarie si sono misurati i renziani duri e puri (con il duo Giachetti/Ascani) i renziani pentiti (sostenitori di Martina) e i non-renziani che hanno puntato su Zingaretti. Il popolo delle primarie è riuscito a compiere la necessaria svolta che la classe dirigente dem ha evitato accuratamente per un anno: la resa dei conti con il renzismo. Il governatore del Lazio si è formato negli enti locali, si è conquistato credibilità vincendo elezioni amministrative dall’esito non scontato, ha tenuto un profilo distaccato negli anni di Renzi superstar e non si è cimentato nel salto sul carro del vincitore. Tutti meriti che giustificano ampiamente l’ottimo risultato ottenuto.
Intravediamo però due debolezze nella sua leadership.
Anche lui non si potuto sottrarre dall’abbraccio dei “renziani di comodo”, quei leader che, pur lontani per indole e cultura dal rottamatore, sono saliti opportunisticamente sul suo carro permettendogli di fare tutti i danni poi evidenziati dal tempo galantuomo. Giorgio Merlo ha già fatto il nome di Piero Fassino, cui possiamo aggiungere quelli di Dario Franceschini, forse il miglior “governativo” di estrazione cattolica, e Cesare Damiano, altro esempio di “governativo” con radici a sinistra.
Con appoggi di tal sorta, la “svolta” rappresentata da Zingaretti si scolorisce in partenza.
Il secondo limite sta nella sua proposta politica mirata al ricompattamento della sinistra. Se è certamente vero ciò che scrive Ilvo Diamanti sul fatto che non si passerà dal PdR (Partito di Renzi) al PdZ (Partito di Zingaretti), con altrettanta convinzione possiamo dire che si prospetta un ritorno dal PdR non al PD ma a un nuovo PdS, il Partito della Sinistra. Il limite che ha avuto il PD prima della deriva renziana, è stato proprio quello di non riuscire a superare le tentazioni egemoniche dei post-comunisti. Come fatto emblematico, ricordo la foto sul palco di Bersani con tre giovani da lui arruolati per arginare la novità Renzi nel 2012, Speranza, Giuntella e la Moretti: nell’euforia per la vittoria era ricomparso il saluto a pugno chiuso. Un gesto caduto in disuso persino tra i militanti di rifondazione comunista ma uscito dal cuore ai giovani dirigenti PD.
Il “partito del capo” ha fatto una brutta fine, ma anche il “partito plurale” ha avuto i suoi bravi limiti. Riuscirà Zingaretti dove hanno fallito l’americano Veltroni e l’ecumenico Bersani? È lecito dubitarne. Dopo tutto, con una legge elettorale d’impianto proporzionale che porta a un ritorno delle identità per trovare successive intese e alleanze di governo, lo stesso Zingaretti si è dato il compito di ricompattare la sinistra, rinunciando a vocazioni maggioritarie.
In questo scenario, cosa possono fare i democratici popolari di ispirazione cristiana?
Ci sarà chi cercherà di conservare uno spazio nel partito del nuovo vincitore: un Delrio, tanto per fare un nome, da colonnello di Renzi, poi sponsor di Martina alle primarie, dopo neppure 48 ore si è già detto convinto sostenitore di Zingaretti…
Uscendo dalle umane miserie e parlando di politica, appare evidente che esiste lo spazio per una nuova forza di centrosinistra, per un nuovo partito dei “liberi e forti”, ancorato ad un programma concreto di riforme, laico nell’agire ed evangelicamente ispirato.
Il difficile sarà passare dalle parole ai fatti, in un’epoca caratterizzata dal leaderismo mediatico. Dato che di Sturzo e De Gasperi non se ne vedono in giro, bisogna rimboccarsi le maniche e partire dal basso.
Fonte http://www.associazionepopolari.it/