Giorgio Merlo
Preso atto che, nel “nuovo corso” del Pd a guida Schlein, per i cattolici popolari e sociali l’unico ruolo da giocare è quello della resistenza da un lato e della conservazione di piccoli spazi di potere dall’altro, è di tutta evidenza che quella cultura se vuole ancora dispiegare una propria “mission” e specificità non può che guardare altrove. Del resto, questa immagine del tutto marginale e periferica emerge in modo addirittura plastico da una intervista rilasciata alla “Stampa” da Delrio. Una serie di dichiarazioni generiche e confuse dove l’unico elemento chiaro che emerge è che i cattolici devono restare nel Pd purché quel partito sarebbe l’unico e l’ultimo campo in cui impegnarsi. Una riflessione che, oltre ad essere arrogante perchè esclusivista e grottesca, riduce quella pattuglia di cattolici alla esperienza dei “cattolici indipendenti di sinistra” all’interno del Pci degli anni ‘70. E, del resto, è proprio questa l’immagine concreta che emerge dopo le primarie del Pd stravinte dalla Schlein. Che, coerentemente, al di là riconoscimento formale ai soliti capi corrente e ai loro cari in alcuni ruoli chiave nel partito, ha già tratteggiato con rara chiarezza il profilo politico e culturale del Pd. Un partito, cioè, con una chiara e schietta identità radicale, massimalista, libertaria ed estremista. Sul versante dei valori di riferimento, soprattutto.
Ora, al di là del profilo e dell’identità del nuovo Pd e del ruolo ancillare e di puro potere gentilmente riconosciuto a qualche “ardito” cattolico per confermare la natura plurale del partito, come esattamente avveniva nel glorioso Pci, credo sia giunto il momento anche per porre qualche domanda a chi, legittimamente, pensa di rilanciare e riscoprire un Centro dinamico, riformista e democratico nella politica italiana, cioè il cosiddetto “terzo polo”. Un luogo politico dove proprio la cultura, l’esperienza e la storia dei cattolici popolari e sociali possono ancora svolgere un ruolo decisivo e qualificante.
E, al riguardo, credo sia indispensabile ricordare almeno 3 elementi. In primo luogo lo spazio politico di Centro dev’essere un luogo autenticamente democratico e partecipativo. La logica dei “partiti personali” e “del capo” non è compatibile con una cultura, come quella cattolico popolare, che fa della partecipazione, del pluralismo e della collegialità la sua cifra distintiva. In secondo luogo lo spazio politico del Centro non può che essere plurale. Certo, storicamente, il Centro nel nostro paese si è quasi sempre identificato con la cultura cattolico popolare e sociale, seppur con l’apporto significativo ed importante di altre culture laiche e liberali. Ma è indubbio che la tradizione cattolico popolare continua ad essere decisiva e qualificante per la costruzione del progetto politico di un partito che ha l’ambizione di ricostruire una “politica di centro” nel nostro paese”. Come, giustamente, ha sottolineato con forza e determinazione Elena Bonetti nei giorni scorsi. In ultimo, ma non ordine di importanza, la stessa selezione della classe dirigente in un luogo politico di centro non può che essere ispirata a criteri democratici e partecipativi e non legati ad altri modelli che sono stati sperimentati con grande abbondanza: e cioè, fedeltà al capo, cooptazione e nomine ad personam.
Ecco purché, dopo l’affermazione e il consolidamento di una destra democratica e di governo, dopo la vittoria a valanga della Schlein che ha modificato radicalmente identità e profilo del Pd, dopo la confusione del campo dei 5 stelle che rimarrà a metà strada tra il populismo violento di Grillo e il trasformismo sfacciato di Conte, tocca al Centro riorganizzarsi e ridefinirsi. E non può che farlo affrontando e sciogliendo definitivamente i tre nodi politici, culturali e di metodo che ho ricordato poc’anzi.