In questa guerra, che secondo Benjamin Netanyahu sarà «lunga e difficile», pare che tutte le parti abbiano accettato che i civili siano “sacrificabili”. Sono i danni collaterali di una violenza bellica che infrange di fatto uno dei principi di base del diritto umanitario internazionale, elaborato negli ultimi cento anni per proteggere la popolazione inerme ed evitare innumerevoli morti. L’altro caposaldo è il criterio della “proporzionalità”, secondo cui anche le azioni rivolte contro obiettivi militari non possono danneggiare i civili in maniera eccessiva o in maniera sproporzionata rispetto alla finalità militare perseguita.
Nell’attuale conflitto tra Israele e Hamas, così come in tante altre guerre nel mondo, la domanda è allora quella del limite che non si può superare dal punto di vista politico, giuridico ed etico. Questa domanda si pone per i popoli in lotta, ma vale anche per la comunità internazionale: qual è il limite che non si può oltrepassare perché la risposta a un attacco sofferto non si trasformi in qualcosa di ben diverso? La risposta dipende anche da come viene definito il destinatario delle proprie azioni. Un giornalista del New York Times vent’anni fa chiese a una donna palestinese la cui casa era stata distrutta in un attacco se voleva che un’altra madre soffrisse la stessa cosa. La sua risposta fu: «Naturalmente no, spero che Dio non faccia provare a nessun altro la nostra sofferenza».
Quando siamo dentro un conflitto il tentativo di disumanizzare il nemico costituisce una vecchia tattica conosciuta, che nessuna convenzione o accordo internazionale è riuscita a scalfire, al pari di quella di generalizzare e spersonalizzare la responsabilità, al punto che anche i minori diventano colpevoli e meritevoli di essere puniti. Tutto ciò finisce con alimentare la spirale di odio, aumentando la scia di dolore e incomprensione e allontanando la pace.
Per questo è anche nostra responsabilità cercare di smascherare queste narrazioni ogni volta che ce le ritroviamo davanti, che si tratti della guerra arabo-israeliana o di conflitti più domestici, per costruire una cultura che sappia guardare di volta in volta all’avversario, all’interlocutore, al vicino, riconoscendo e abbracciando tutte le sfumature della sua persona, quelle positive come quelle negative, senza sfigurarlo o trasformarlo in un personaggio anonimo.
[Titolo originale: L’umanità va difesa, anche in guerra.]
Per leggere il testo completo
https://www.aggiornamentisociali.it/articoli/lumanita-va-difesa-anche-in-guerra/