Il caos del premierato e il presidenzialismo di cui non sapevamo

La riforma Meloni presenta un congegno perfettamente incongruente dal cui guazzabuglio non potrà che sortire un ulteriore aggravarsi della nostra governabilità e, soprattutto, della nostra democrazia.

È bene dirlo chiaramente! La modifica della forma di governo parlamentare, che dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ha guidato il nostro Paese, l’avevamo fatta e non ce ne eravamo accorti.

Dagli interventi sul tema di Giuliano Amato, Gianni Letta, Marta Cartabia, Silvana Sciarra ed altri abbiamo ora appreso, infatti, che la riforma costituzionale proposta dal governo Meloni per eleggere direttamente da parte del popolo il presidente del consiglio (cd. premierato) non si può fare perché essa ridimensionerebbe poteri e ruolo del capo dello stato assurto ad organo centrale di un sistema neo-presidenziale. Non perché, dunque, intaccherebbe le prerogative del parlamento come da sempre si è paventato quando per correggere la strutturale debolezza dei governi si è proposto di modificarne la forma parlamentare. O perché, comunque, metterebbe in discussione il rapporto fiduciario tra i due organi (parlamento-governo) o, ancora, perché il baricentro dell’indirizzo politico si sposterebbe sul versante del governo o, infine, perché in questa fase tendente ad uno scivolamento personalistico dell’autorità l’elezione popolare diretta del premier favorirebbe ancor di più la propensione dell’attuale politica a caratterizzarsi plebiscitariamente mortificando ancora di più la rappresentanza.

La riforma del premierato non si può fare, invece, perché intacca le prerogative del presidente della Repubblica il quale, secondo l’art. 92 secondo comma della Costituzione, “nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri” e, secondo una prassi costituzionale consolidatasi negli ultimi tempi, assicura in situazione di emergenza – anche attraverso governi tecnici o di larga unità – la continuità dell’azione di governo e della legislatura (Stefano Passigli, Premier, vizi e pericoli della riforma in “Corriere della Sera” dell’8 dicembre 2023, pag. 36).

Ora, che l’esercizio di questi poteri da parte dei presidenti della Repubblica sia diventato negli ultimi tempi sempre più ‘presidenziale’ (vale a dire: personale perché non più adeguatamente collegato al sistema dei partiti politici presenti in parlamento) è un dato indiscutibile. Basti semplicemente andare a verificare l’evoluzione della prassi costituzionale delle consultazioni parlamentari in occasione delle crisi di governo dove la voce dei partiti è diventata sempre più flebile. Così come non solo è assolutamente vero ma è anche inoppugnabilmente confermato dalla grande popolarità che hanno goduto presso l’opinione pubblica che i nostri presidenti della Repubblica abbiano svolto con saggezza i loro delicati compiti istituzionali ed abbiano esercitato con grande senso di equilibrio le funzioni di garanti delle istituzioni repubblicane. Ma tutto questo non autorizza a pensare che essi siano diventati il baricentro del nostro sistema di poteri costituzionali anche se non va trascurato il loro ruolo di capi dello stato e di rappresentanti dell’unità nazionale.

Piuttosto bisogna ricordare che essi sono configurati dalla Carta costituzionale come organi di garanzia e, per alcune competenze, come organi di controllo. Non certo come titolari-protagonisti della determinazione dell’indirizzo politico nazionale, spettante al duo governo-parlamento. Nessun loro atto, infatti, “è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità” (art. 89.1 Cost.), e, come aggiunge l’art. 90.1 Cost., la responsabilità degli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni non gli è imputabile “tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”.

Evocare, quindi, non si capisce bene quale irreparabile vulnus determini nelle prerogative dei presidenti della Repubblica l’elezione diretta popolare del premier è, a me sembra, una vera e propria petizione di principio. A meno che non si intenda colpire con tale critica il principio in sé dell’elezione popolare del primo ministro perché si preferisce mantenere sempre quello indiretto della designazione attraverso il parlamento ed i partiti politici. Magari secondo la modalità, ultimamente invalsa, dell’indicazione dello stesso nella scheda elettorale del partito di maggioranza relativa nella coalizione risultante vincente. Ma se così fosse, bisognerebbe dirlo diversamente e chiaramente, continuando ad indicare negli attuali partiti politici (diventati sempre meno popolari e più personali) i detentori veri della sovranità che in parlamento possono fare e disfare a proprio piacimento i governi mentre i cittadini sono sempre più ridotti a consumatori, utenti, spettatori ed, infine, sudditi dei poteri forti che si sono impadroniti della società e delle istituzioni. Lasciando così cadere ogni riferimento al presidente della Repubblica per ‘coprire’ una tesi che, forse, anche dai suoi sostenitori si ritiene non molto popolare. Ma tant’è!

Ciò che è necessario, sia chiaro, è, quindi, che il premierato è tale soltanto se prevede l’elezione popolare del primo ministro e contemporaneamente la cancellazione del potere di nomina del presidente del consiglio da parte del presidente della Repubblica. Ma non solo del premier eletto direttamente dal corpo elettorale ma anche del cd. “secondo premier”, che, alla luce del disegno di legge costituzionale presentato dal governo, in caso di cessazione dalla carica del presidente del consiglio, il presidente della Repubblica può incaricare di formare il governo “per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere”.

Quest’ultima ipotesi, escogitata più per soddisfare esigenze di accordi all’interno della maggioranza che di equilibrio tra i poteri costituzionali, lasciando al capo dello stato comunque un margine di manovrabilità nella gestione delle crisi di governo, sarebbe infatti in contraddizione con la corretta costruzione del figurino del premierato non solo per la permanenza di poteri impropri in capo al presidente della Repubblica ma anche e soprattutto per la mancanza di automatismo tra la caduta del premier eletto dal popolo e il ritorno alle urne per una nuova sua elezione (non allo scioglimento delle Camere che, come vedremo, non devono essere legate da nessun meccanismo di simul stabunt vel simul cadent al premier eletto). Ma non basta. Perché se si vuole rafforzare la figura del premier non gli si può poi negare ciò che altri sistemi di governo ad elezione non diretta – quali Gran Bretagna, Germania, Spagna – già gli riconoscono e, cioè, il potere di nomina e di revoca dei propri ministri, mentre l’attuale disegno di legge prevede che il presidente del consiglio possa esercitare soltanto la facoltà di “proposta”.

Chiarito questo primo profilo del premierato, quale forma di governo del premier eletto direttamente dal corpo elettorale e titolare del potere di nomina dei suoi ministri, l’altra fondamentale quistione da chiarire subito – per evitare che nelle discussioni che ormai si sviluppano sempre più confusamente si prospettino soluzioni caotiche e pasticciate – riguarda il rapporto del governo con il parlamento che non può essere più di fiducia ma dovrà trasformarsi in rapporto funzionale di controllo. Perché è evidente che se il premier è eletto direttamente dal popolo non può essere un diverso (per elezione e composizione) organo di quest’ultimo a validarne la legittimità in quanto ciò lo metterebbe subito in contrapposizione con il primo ed invece di supportarne il ruolo e le funzioni ne impedirebbe la possibilità di esplicare qualsiasi azione. Diversamente, invece, se al rapporto fiduciario tra governo e parlamento si sostituisce una relazione funzionale di controllo delle attività poste in essere dal governo da parte del parlamento. Perché, in questo modo, il carattere indipendente dei due organi costituzionali non sarebbe sacrificato ed anzi le loro funzioni avrebbero modo di integrarsi perfettamente.

Ciò però implica una contestuale ed ineludibile riforma strutturale e funzionale del parlamento per rafforzarne, sotto il primo profilo, la rappresentatività e, sotto il secondo, la capacità di controllo. In altri termini, si tratta finalmente di superare il bicameralismo paritario e di istituire il senato delle autonomie in modo tale da introdurre accanto alla rappresentanza politica nazionale della camera dei deputati la rappresentanza territoriale delle comunità locali e regionali del senato e così rafforzare in maniera indiscutibile il ruolo del parlamento di fronte a quello del nuovo presidente del consiglio direttamente eletto dal corpo elettorale. Non solo. Ma la riforma del parlamento dovrebbe poi investire anche le sue funzioni con particolare riferimento a quella di controllo che nella sua nuova relazionalità con il premier costituirebbe la modalità principale di organizzare non più i vecchi poteri pubblici derivanti dalla sovranità dello stato ma i nuovi servizi comunitari di cui la Repubblica si è fatta carico per garantire i diritti inviolabili dell’uomo. Il che significa che il controllo parlamentare non potrà più limitarsi alla sola attività ispettiva con i famosi istituti dell’interrogazione, dell’interpellanza e della mozione ma dovrà espandersi a tutte le altre attività parlamentari per fare concretamente valere la responsabilità politica del governo.

Chiaramente, qui, il discorso dovrebbe essere ancor di più portato in profondità almeno nei suoi contenuti essenziali ma, in questa sede, maggiormente necessario appare fare almeno un cenno alle modalità elettorali sia del premier che del parlamento che risultano completamente distoniche rispetto al sistema di governance che si vuole costruire.

Come è noto, infatti, il testo del ddl. di riforma costituzionale si limita a precisare che la legge disciplina il sistema elettorale delle camere “in modo che un premio assegnato su base nazionale garantisca ai candidati e alle liste collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri il 55% dei seggi nelle Camere”. Nulla, invece, dice circa quanti voti il premier dovrebbe ottenere per risultare eletto. Lo stabilirà, poi, la legge elettorale (da approvare magari di volta in volta alla vigilia delle elezioni sulla base delle previsioni e degli interessi della maggioranza!).

Non è una scelta di poco conto, questa adottata dal ddl. in discussione. È una decisione gravissima. Innanzi tutto, perché in questo modo, si introduce l’elezione diretta del premier senza stabilire che ciò avvenga nel rispetto del principio di maggioranza dei suffragi espressi o, almeno, a seguito di ballottaggio come nella maggior parte dei Paesi democratici dove si elegge direttamente una carica di governo. E, poi, perché all’elezione del presidente del consiglio dei ministri viene collegata quella delle due Camere con l’assegnazione di un premio del 55% dei seggi ai candidati e alle liste, presupponendo la persistenza di una continuità tra i due organi costituzionali che l’introduzione del premierato spezza proprio a motivo della diversa legittimazione popolare che, per quanto riguarda il parlamento, porta ad una sua elezione di carattere proporzionale.

Insomma, un caos perfetto dal cui guazzabuglio non potrà che sortire un ulteriore aggravarsi della nostra governabilità e, soprattutto, della nostra democrazia resa ancora più incomprensibile e lontana dall’opinione pubblica e dai cittadini-elettori.

 

Andrea Piraino

Ordinario di diritto costituzionale – Università di Palermo