Il 20 agosto La Lettura, inserto settimanale sempre interessante del Corriere della Sera, ha dedicato una pagina al tema della conoscenza delle lingue straniere da parte dei cittadini europei. Lo ha fatto pubblicando una rappresentazione grafica (c.d. visual data) dello stato di fatto in ordine al tema citato, dotata di note, richiami, citazione di fonti etc., ma incapace per sua natura di guidare il lettore verso una conoscenza del tema, efficace dal punto di vista della percezione visiva-conoscitiva
Il tema indubbiamente interessa e sfida la nostra Associazione Svegliamoci Italici, di cui Piero Bassetti è Presidente ed io vice, poiché la nostra ambizione di creare progressivamente una Italica Global Community che raggruppi i circa 250 milioni di Italici sparsi nel mondo, accomunati dalla condivisione di conoscenza ed ammirazione per la civiltà italica, necessariamente fa i conti con il problema linguistico. Pensiamo infatti che il nostro obiettivo si potrà raggiungere offrendo come strumento di interconnessione, approfondimento, integrazione, una piattaforma telematica multilingue, capace di diffondere la cultura italica e valorizzare ulteriormente l’uso della lingua italiana, già oggi tra le lingue più parlate nel mondo tra quelle non obbligate per territorio di residenza o necessità di rapporti commerciali, ma “scelte”.
Cerchiamo per prima cosa di capire i dati riportati anziché limitarci a guardarli. Una media del 64,6% dei cittadini europei conosce almeno una lingua straniera, ed i nostri concittadini italiani se la cavano discretamente collocandosi sopra tale media, al 66,1%, prima dei francesi (60,1%), degli spagnoli (54,3%), e di altri 7 popoli ancora, ed infine degli inglesi (34,6%). Il raffronto statistico con l’intera platea dei 34 popoli europei, vede l’Italia molto penalizzata poiché superata da ben 24 di essi, tra i quali brilla la Lettonia dove il 95,7% degli abitanti parla una lingua straniera, con grande spazio per la lingua russa.
Ora, conoscere questo dato può interessare chi sta compiendo uno studio specifico sulla Lettonia, ma sicuramente poco incide sul conteggio di quante persone in Europa parlano una lingua straniera, poiché stiamo parlando di una popolazione di 1 milione ed 800 mila abitanti in tutto, ed identica o simile valutazione vale per molti altri Paesi considerati nella tabella (Lituania, Estonia, Cipro, Slovacchia, Slovenia, Macedonia del Nord, Lussemburgo, Croazia, Serbia, Malta, Finlandia) ognuno con un numero di abitanti che va dai 500mila ad un massimo di 5 milioni. Né viene fatto un cenno alla particolare situazione, che indubbiamente si riflette nei dati rilevati, di Paesi legalmente multilingue quali Svizzera e Belgio.
Un raffronto inutile e fuorviante a fronte del quesito di base, rispetto al quale è da memorizzare solo il dato medio complessivo europeo: il 64,6% dei cittadini parla almeno una lingua straniera. Interessante è certamente sapere che la lingua straniera più parlata dagli europei è quella inglese, con la notazione maliziosamente ma utilmente aggiunta sulla pagina in questione, tramite l’articolo sottostante la tabella ed intitolato Gli inglesi parlano solo l’inglese: pare infatti che solo il 34,6% dei cittadini del Regno Unito parli una lingua straniera, atteggiamento comprensibile, poiché essendo la loro lingua veicolo principale nei rapporti commerciali internazionali e strumento di “servizio” per una immediata comprensione nei rapporti interpersonali a livello mondiale, gli inglesi non vedono la necessità di impararne un’altra.
Al di là delle impressioni ricavate dai visual data, esiste effettivamente una questione linguistica per noi europei, e l’UE ha codificato da tempo dei principi base e delle regole di comportamento. I Trattati istitutivi del 1958 prevedevano 4 lingue ufficiali: francese, tedesco, italiano, olandese; dal 1973 entra poi come lingua ufficiale anche l’inglese, che diventa progressivamente egemone nonostante, o forse anche per questo, le lingue ufficiali siano ormai 24, ed ufficiale resta anche dopo la Brexit. Il tutto a fronte delle solenni dichiarazioni ufficiali dell’UE ed i congrui stanziamenti destinati a favorire la progressiva adozione del multilinguismo, con vari strumenti, a partire dal programma Erasmus. Un processo, quello che rende l’inglese lingua predominante, che avviene gradualmente, prima sostituendola alla lingua italiana tra le c.d. lingue essenzialiper il lavoro interno delle Istituzioni Europee, e soprattutto con la adozione di fatto dell’inglese come lingua di servizionel lavoro quotidiano della burocrazia europea.
D’altra parte, da parte dell’UE che tutto regolamenta, neppure è stata tentata l’adozione obbligatoria del multilinguismo nella comunicazione via web, o almeno una regolamentazione della stessa, lasciando alla casualità selvaggia la scelta di quali e quante lingue utilizzare. A chi assegnare la responsabilità di tale declassamento, se non all’incuria dei nostri Rappresentanti negli Organismi Istituzionali dell’U.E. ed ai funzionari italiani facenti parte del corpo burocratico dell’Unione? Tutto ciò è avvenuto nonostante le periodiche “esibizioni muscolari” del nostro Governo, e non solo a Bruxelles: basterà ricordare che, pur essendo l’Italia (dato arcinoto e periodicamente sbandierato) il Paese con il maggior numero di Siti dichiarati Patrimoni dell’Umanità, l’elenco delle lingue ufficiali dell’UNESCO comprende arabo, cinese, francese, inglese, russo, spagnolo, ma non l’italiano. Nessuna contromisura ad un fenomeno sempre più evidente è stata messa in atto ed anzi è stata affossata velocemente la proposta a suo tempo (1982) avanzata dall’allora Ministro dei Beni Culturali, on. Enzo Scotti, che puntava a creare un Raggruppamento istituzionale dei Paesi di lingua romanza-neolatina (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Romania) quale strumento attivo di promozione culturale e difensivo nelle sedi istituzionali multilaterali. Occorre pure aggiungere che l’indubbia preponderanza dell’uso della lingua inglese, che diviene pressoché totalizzante nei linguaggi tecnici, scientifici, mercantili, non comporta che chi la utilizza venga a contatto con la cultura anglosassone e tanto meno che ne diventi conoscitore ed estimatore, condizione che fortunatamente si verifica per i c.d. “cervelli italiani in movimento” attivi negli ambienti delle Università, della ricerca scientifica, del management internazionale.
Dalle analisi che gli Istituti di ricerca hanno prodotto sul rapporto tra italiani e lingua inglese, parrebbe poi emergere una carenza qualitativa nell’uso di tale lingua, cosa che andrebbe verificata e corretta, anche con una maggiore qualificazione dei docenti, dai Responsabili dell’Istruzione Pubblica, visto che ormai dal 1970 le cattedre di lingua inglese nelle Scuole italiane sono numericamente maggioritarie, contrariamente al periodo precedente che le vedeva minoritarie rispetto a quelle di lingua francese, tedesca e spagnola. Comunque, indubbiamente, l’inglese è ormai lingua straniera predominante, in Italia come altrove, anche se sopravvivono significativi spazi per altre lingue, in ambiti specialistici.
Una predominanza, quella della lingua inglese che, per forza d’inerzia e per pigrizia dei vertici istituzionali e dei burocrati, come sopra evidenziato, rischia di diventare egemonia assoluta senza peraltro che essa sia accompagnata da una contestuale crescita di conoscenza della cultura anglosassone. La risposta a ciò non può essere di tipo “sovranista”: la difesa della lingua nazionale da parte dei singoli Stati è una risposta illusoria se l’obiettivo è contrastare la diffusione dell’inglese come lingua di servizio; è invece corretta, anche se talvolta insufficiente e in prospettiva futura in parte inefficace, se come avviene nel caso del nostro Paese, le azioni messe in atto dagli Istituti Italiani di cultura all’estero, dalla Dante Alighieri, da Entità pubbliche o private, per rispondere alla richiesta di conoscenza della nostra lingua mediante il suo insegnamento, sono rafforzate se collegate con qualcuna tra le varie espressioni della cultura italiana, sia antica che contemporanea e del nostro modo di vivere.
A questo principio è pure ancorata la politica linguistica adottata dall’Unione Europea, nella consapevolezza che la costruzione dell’Europa unita dipende sicuramente anche dalle conoscenze linguistiche dei suoi abitanti; infatti, se vogliamo che i nostri futuri cittadini sappiano vivere in una Europa multilingue ed apprezzare la grande diversità linguistica e quindi culturale, è necessario che conoscano più lingue. L’UE sulla base delle conclusioni del Vertice di Göteborg del 2017, raccomanda che entro il 2025, tutti i giovani europei che concludono un ciclo di studi superiori, dovranno avere una buona conoscenza di due lingue oltre la propria; allo stesso tempo dovrà essere garantita la sopravvivenza delle lingue locali e dialettali, testimonianze significative di culture e storie antiche.
Questo lo stato di fatto in Europa. Per lo più riscontrabile anche a livello mondiale, con qualche peggioramento dove non giungono le cautele normative che l’UE si è data ed il campo è libero per ogni scorrettezza da parte dei grandi gestori dei nuovi media, delle nuove tecnologie, per la conquista dei mercati globali. Quindi ancora inglese, basico, elementare, di servizio, senza alcun riferimento culturale. Sovrastante una realtà linguistica mondiale che vede coesistere gli effetti della crescita demografica cinese ed indiana con le realtà di aree post-coloniali, più o meno consolidate (spagnolo, francese, portoghese), e che prima o poi subirà un radicale cambio a seguito della prevedibile convergenza verso una lingua scelta come veicolo comune, da parte delle popolazioni di vaste aree in Africa e Asia che tuttora usano lingue tribali, oppure poco radicate e prive di tradizioni culturali, tendenza di cui possiamo scorgere un preannuncio nel frequente ricorso all’uso dell’inglese in India, per superare la frammentazione degli idiomi locali.
Un contesto mondiale, confuso ed in sommovimento, nel quale la lingua italiana continua a mantenere una posizione significativa grazie al forte e tenace rapporto con essa e con le sue diversificazioni dialettali, da parte degli italicisparsi nel mondo, e grazie alle peculiari caratteristiche che hanno permesso alla lingua italiana di esistere per due millenni, prima quale unico elemento di continuità diretta, assieme al diritto, dall’Impero romano dopo il suo disfacimento, poi quale lingua comune e simbolo del Rinascimento, e poi in seguito come essenziale carsico legame, nonostante il frazionamento istituzionale del territorio, e di conseguenza delle leggi, delle consuetudini amministrative, dei dialetti, tra i tanti popoli convissuti nella Penisola fino al 1870. Due millenni nei quali la civiltà italicaè stata l’elemento talvolta inconsapevole di caratterizzazione ed unione degli abitanti della Penisola, abituandoli al riuso di tradizioni, usi ed invenzioni del passato, all’accoglimento nel “sentire comune” di apporti innovativi da parte di nuovi abitanti, anche se invasori, e dell’ibridazione con culture differenti, il tutto sostenuto dalla condivisione della religione cattolica. E così la Penisola è riuscita ad apparire pur sempre unitaria nell’immaginario collettivo, ed essere patria vocativa di una comunità culturale diffusa in tutta Europa, sorretta dalla forza della parola e della letteratura, del modo di essere e di porsi, dell’arte e delle invenzioni, della assimilazione del nuovo.
L’unità linguistica degli italiani, da latente si è trasformata in effettiva e visibile, in due tappe. La prima, subito dopo l’unificazione, con la scelta lungimirante della Monarchia Sabauda di tollerare la sopravvivenza dei tanti dialetti locali, assegnando il ruolo di lingua progressivamente unitaria e caratterizzante a quella parlata in Toscana, rinunciando in questo caso all’imposizione del “modello piemontese” adottato per la pubblica amministrazione, le leggi e l’esercito. La seconda, nell’Italia repubblicana dopo la Seconda guerra mondiale, con concrete politiche di sostegno alla alfabetizzazione generale ed alla scuola dell’obbligo, nonché attraverso le potenzialità offerte dall’avvento dello strumento televisivo, attuate prima con la “Telescuola” (1958) a favore dei giovani residenti in località sprovviste di Scuole secondarie, e poi con il programma “Non è mai troppo tardi” (1960) indirizzato agli adulti analfabeti. Il resto l’hanno fatto la musica, le telecronache degli eventi sportivi, la Messa domenicale in italiano a partire dal 1970, le Tribune politiche seguitissime, i programmi di intrattenimento. E nel frattempo, in maniera spesso spontanea, è continuata la “scelta emotiva e culturale” della lingua italiana da parte di milioni di stranieri affascinati dalla più varie espressioni della cultura/civiltà italica, compensando il minor uso della lingua (per la verità soprattutto dialetti) degli antenati da parte delle nuove generazioni di italo discendenti residenti all’estero e progressivamente integrati nei contesti locali.
Occorre aggiungere che l’accentuata mobilità favorisce sempre più un massiccio afflusso nella Penisola di turisti desiderosi di avvicinarsi, visitandola, alle sue bellezze e cultura, ma né i turisti sono attrezzati dal punto di vista linguistico, né lo siamo ancora abbastanza noi per accoglierli; né il problema sarebbe risolto da una generale interlocuzione in inglese basico, che, se anche avvenisse per la soluzione dei problemi essenziali, non fornirebbe certo l’opportunità di un avvicinamento del turista alla nostra cultura. Noi italiani, infatti, abbiamo altri valori ed obiettivi da salvare attraverso la nostra lingua, al di là del facile accesso alle transazioni internazionali e la comunicazione interpersonale resa più semplice con l’adozione di un linguaggio semplificato ed essenzialmente tecnico.
La terza tappa o terza fase che dir si voglia, di cui l’esempio della accoglienza turistica è il preannuncio, è quella che riguarda il futuro, della nostra lingua in rapporto al domani dell’Europa e del mondo. Un futuro da immaginare e preparare dimenticando i confini fisici dello Stato italiano ed assumendo un’ottica italica. Il tema italicità è un grandangolo nella cui visione può stare tutto, tutte le particolari visuali, addirittura sia del passato che del futuro, e può comprendere tutte le discipline sia umanistiche che scientifiche, toccando e qualificando tutti quei variegati settori che concorrono a formare il soft power italicoapprezzato e riconosciuto in ogni continente. È tuttora valida la lezione insita nel discorso del Presidente Mattarella agli “Stati Generali della Lingua italiana nel mondo” del 23 ottobre 2018:
“…Valorizzare la propria cultura, di cui la lingua è espressione, non è esercizio statico e conservativo. Non si tratta soltanto di tutelare una ricchezza incastonata nella storia, ma di far vivere un patrimonio vivo, pratico, multiforme, con articolazioni che spaziano dai registri più alti agli usi più quotidiani e comuni. La sfida oggi è, esattamente, come far fiorire la nostra lingua e cultura nel tempo della mobilità, in cui cioè, accanto alle comunità territoriali, sorgono comunità globali, talora solo virtuali, legate da linguaggi peculiari. Le reti dell’italiano nel mondo vanno dunque certamente al di là di accezioni consuete ed includono italiani, italofoni ed italofili: quella grande comunità di italici ai quali Piero Bassetti, non da oggi, chiede di rivolgere i nostri sforzi e la nostra attenzione. A chi appartengono lingua e cultura italiane? Per definizione ogni cultura ha natura e vocazione universale, dunque non ha confini. La civiltà italica ha influenzato ed è alla base di numerose altre civiltà. E poiché ciascuna lingua è veicolo di rapporti sociali, di arte, di diplomazia, di affari, di identità, l’intensità di rapporti raggiunta ormai a livello internazionale, suscita, per quanto riguarda la civiltà italica, un crescente interesse ed una vera e propria fame di Italia.…”.
La terza fase che si intravvede quindi per la lingua italiana, è coerente con la necessaria prospettiva, a livello globale, di un generalizzato multilinguismo funzionale, dove c’è spazio per l’inglese come lingua di servizio, per lo spagnolo, il francese, il cinese, l’italiano, come lingue aggreganti di macroaree geoculturali, e di molte altre lingue identitarie più o meno diffuse: una innovazione impegnativa anche dal punto di vista economico, se come auspicabile, comporterà modifiche significative nei “percorsi scolastici” ad ogni livello, innovazione già autonomamente messa in atto dai tantissimi giovani italiani che hanno inserito la mobilità accentuata, soprattutto intraeuropea, nel loro modello di vita, innovazione che con l’affievolimento delle barriere linguistiche creerà più consapevolezza di Europa, anche grazie al ricongiungimento linguistico/culturale con i3 milioni di italiani residenti (AIRE) all’estero ed i milioni di italo discendenti che stabilmente vivono in Europa, creando anche le condizioni, utili già in occasione delle imminenti elezioni del Parlamento Europeo, per l’identificazione e riconoscibilità di un vasto bacino di elettorato transnazionale italico.
Quale spazio, in conclusione, resta per una ulteriore espansione della lingua italiana? Un grande spazio, se oltre a proseguire e rafforzare le azioni di sostegno già in atto nei vari Continenti, e ad approntare una efficace politica di formazione linguistica e civica dei “futuri nuovi italiani” giunti in Italia per scelta o per necessità, si avrà l’accortezza di accompagnare, con una sorta di “kit multilingue” che oltre a tradurre il testo italiano, riesca a dare sinteticamente una immagine dell’Italia, ogni espressione ed ogni manifestazione del nostro soft powernei più vari ambiti culturali e produttivi, liberandoci di ogni possibile presunzione di autosufficienza.