Mi vado convincendo che sulle elezioni regionali stiamo prendendo sottogamba un fenomeno importante e centrale per le democrazie rappresentative moderne. Non gli si dà, cioè, il rilievo dovuto perché, appunto, valore scontato o maturo delle società occidentali. Che in realtà facciamo bene a difendere e non a fraintendere trascinandolo spesso nel ridicolo e nella banalità. Mi riferisco al pluralismo. A quel pluralismo che nelle idee di Norberto Bobbio serve a limitare il potere centralistico dello Stato. E che nelle idee del cristianesimo sociale di del Codice di Malines (1927) “…si dispiega in un certo numero di società”. Ma oggi – tocca constatarlo – interpretato e realizzato politicamente solo con fotocopie e duplicati di partiti uguali. Quasi sempre con identici valori di base. Diversi solo per manie leaderistiche e tornaconti individuali. Forse anche per gelosie e invidiucce. E spesso ai giorni nostri, diciamola tutta, diversi solo per presunzioni narcisistiche e personali.
Un pluralismo sovente ridotto a valore finto e di facciata, che poi, quando si declina nella pratica della competizione elettorale, si trasforma nella sua parodia. Perde cioè quel valore centrale a tutela dei corpi intermedi e dell’associazionismo locale, precipuamente a difesa della libertà di pensiero e di quelle “formazioni sociali” previste dalla nostra Costituzione. Quel pluralismo politico e partitico sano, che nel suo rovescio inflazionato, abbandona il suo ruolo e la sua efficacia nel mercato della società politica, diventando anche motivo di confusione e di sbriciolamento, che non fa il bene della partecipazione democratica. E che arriva a preoccupare per l’effetto che produce in termini di snaturamento sociale e culturale.
Per spiegarmi meglio, alludo a quel pluralismo che si è potuto verificare con i 25 partiti, partitini e liste, coalizzati o meno, presenti sulla scheda elettorale sarda, e ai 12 partiti, partitini e liste presenti in Abruzzo. In generale, nelle elezioni politiche del 2022, in Italia e ad eccezione della Val d’Aosta le liste sono state 23. Partiti, partitini e liste, i quali più che legittime associazioni differenti nei valori di fondo e nei programmi, volendo con distinzioni operanti in qualche sfera civica locale, sono invece diversi solo nel leader o fondatore del partito (e nel relativo contrassegno sulla scheda). Ciò fa capire bene quale possa essere oggi la causa della nota crisi dei partiti e della democrazia. Oggi, anche se si afferma il contrario, non si vota più per un partito, ahimé!, ma solo per la faccia del leader-segretario di quel momento, una volta rinforzato dai social e dai media, specie da quelli di proprietà, o da quelli pubblici lottizzati. Prima di Silvio Berlusconi era impensabile. Ma dopo di lui si è fatto avanti un pericoloso bisogno diffuso dell’uomo forte. Un bisogno, scrive Marco Revelli su Millennium del giugno 2017, che “…non è un pio desiderio…ma purtroppo riflette la realtà dominata dalla pesante personalizzazione della politica”.
È stato invece Aldo Moro che sin dai suoi giovanili 25 anni, nel suo “Corso di lezioni di filosofia del diritto” tenute nell’Università di Bari, scriveva sull’uomo altre e ben diverse cose: “…Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete” .
Un profluvio di partiti e partitini, insomma, nelle mani di un leader. Che alla fin fine, e tranne i rapporti di parentela, vicinato, amicizia, e con le lobby e gli interessi particolari in sottofondo, stanno a indicare un paradossale effetto contrario alle attese e alle previsioni: quello di allontanare ancor più dai seggi l’elettore, anziché incentivarlo a votare aumentando l’offerta e differenziandola. La frantumazione del messaggio politico non aiuta a distinguere le differenze: servirebbero piuttosto poche, fondamentali e chiare scelte, in primis quelle tra futuro e passato, uguaglianza e disuguaglianza, tra bene comune e bene di pochi. In fondo, tra valori universali da difendere, e valori particolari e localistici da testimoniare.