La Santa alleanza della destra su autonomia, giustizia e premierato.

Si è lasciato campo libero ad una sorta di generalizzata deroga al principio di unità della nazione, anche su servizi di primaria natura, deputati ad assicurare l'uguaglianza dei cittadini.

La questione meridionale non è di certo dell’altro ieri. Già al tramonto dell’ottocento e soprattutto nell prima parte del novecento eminenti studiosi del fenomeno, come Giustino Fortunato, prima, e Pasquale Saraceno, per buona parte del secolo scorso, avevano puntato il dito contro le politiche dei governi dell’Italia unita – e Saraceno anche dell’Italia repubblicana – incapaci di delineare progetti concreti e lungimiranti per dare al sud adeguate opportunità di crescita economica e sociale.

Ora un ulteriore capitolo si sta scrivendo ad opera di questa maggioranza di governo con l’approvazione di martedì, in Senato, delle disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e di qui a qualche settimana alla Camera.

Una riforma che, non è fuori luogo affermare, sta ponendo tutti i presupposti per consegnarci un’Italia sfigurata e irriconoscibile, ove il meridione non troverà nuova linfa per rigenerarsi, anzi si troverà sospinto in una condizione sempre più asfittica, sia da un punto di vista economico che sociale.

Siamo senz’altro di fronte ad una riforma sfrontata e temeraria che porterà come primi effetti un profondo divario tra le Regioni del nord e tutta l’area del meridione.

Sicuramente tantissimi italiani ieri avranno idealmente intonato l’inno di Mameli unendosi ai tanti parlamentari che ne scandivano vibratamente le eroiche rime.

Ma quei tanti italiani avranno al contempo avvertito un senso di profonda delusione ponendo mente all’altrettanta ingannevole e opportunistica politica ventennale di questa sinistra, oggi incarnata dalla Schlein e nel 2001 da D’Alema, che per ingraziarsi il favore della Lega di quel tempo, dichiaratamente secessionista, si inventò la riforma del Titolo V, spostando in modo disordinato, e talvolta irragionevole, competenze e funzioni con l’effetto di facili contenziosi tra Stato e Regioni.

Oggi quei nodi sono venuti tutti al pettine perché quella riforma Costituzionale del 2001, fatta in fretta e furia, con una maggioranza risicata,ha dato la stura, nella più impensata delle occasioni, alle destre di governo, per varare una legge di attuazione delle Autonomie regionali, che è un bazooka contro il meridione e la povertà.

Una riforma che suona sinistra contro l’art.5 della Costituzione: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali..”. Un articolo che non può essere giammai disgiunto dal principio universale di uguaglianza previsto dall’art. 3 che sancisce: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge…”, e prosegue al secondo comma: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Così, dal momento dell’approvazione, ogni Regione potrà chiedere e negoziare con il governo forme devolutive di competenze e di risorse.

È evidentemente la porta per disseminare nel paese un regionalismo asimmetrico dai tratti variabili tra un territorio regionale e l’altro, basato sulla possibilità di poter trattenere buona parte del gettito fiscale proveniente dal territorio per finanziare servizi e funzioni di cui si chiede il trasferimento.

Se apparentemente può sembrare una sorta di sussidiarietà a tutto vantaggio delle prossimità delle funzioni e dei servizi al cittadino, in realtà manca nel testo di legge approvato ogni riferimento a validi meccanismi di perequazione onde evitare abnormi disarmonie normative e contesti discriminatori tra regioni ricche e regioni meno fortunate per le peculiari caratteristiche del loro territorio, ove le risorse e il gettito risulterà assai più scarso.

E a poco vale l’argomentazione che una maggiore responsabilizzazione di ciascuna Regione può spingerle a tener fede concretamente ad obiettivi di maggior efficienza e razionalità dei servizi.

Quello che invece appare essere più verosimile è la preoccupazione che una tale devoluzione senza appositi contrappesi di natura perequativa nazionale in capo allo Stato, e senza che sia determinato per legge che ogni attività devolutiva, pur nelle materie non condizionate alla effettiva determinazione dei Lep, non possa avere avvio se non siano stati, nel frattempo, individuati i livelli essenziali di prestazioni che ogni regione dovrà rispettare.

Questo salvacondotto che la normativa ha assicurato ad una lega scalpitante – voluto a tutti i costi da Calderoli, maestro nel disseminare marchingegni normativi, famosa la sua legge elettorale di qualche anno fa, da lui stesso definita una “porcata” – pronto a mettere in pratica e portare a compimento il suo vagheggiato disegno secessionista, non farà che accrescere le disparità e i profondi divari che già affliggono considerevolmente tanti territori regionali, espressione del sud d’Italia, con la conseguenza di accentuare le già enormi sacche di povertà che caratterizzano le Regioni del meridione.

Oltre a questo, non è da sottovalutare l’Inganno semantico di questo testo come approvato in prima lettura in Senato, che, con la previsione di accordi comuni tra regioni può aprire facilmente la breccia per la formazione di macro regioni, anticamera di una  ipotetica evoluzione secessionista: vecchio pallino della Lega nord di Bossi.

In questo scenario i cattolici in politica, ed in primis la nuova Democrazia Cristiana che ispirandosi ai principi della dottrina sociale della Chiesa e in consonanza con i dettami dell’Umanesimo sociale, che metodicamente Papa Francesco ci ricorda di non espungere mai dagli obiettivi primari di ogni azione politica, non possono restare a guardare.

È evidente a questo punto quanto sia urgente e doveroso il portare a compimento la ricomposizione dei diversi filoni culturali, riconducibili alla più vasta area democristiana e il costruire, insieme alle forze liberali e riformiste, distanti da ogni suggestione populista, sovranista o massimalista e qualunquista, diano rappresentanza, in una sorta di arco politico che nel riproporre lo schema della cosiddetta maggioranza Ursula, magari con l’auspicio di avere alla guida della prossimo Commissione europea, Mario Draghi, una lista unitaria nel nome e secondo i principi del popolarismo, come virtuosamente declinati dal Manifesto, Liberi e Forti, da don Luigi Sturzo, e del riformismo liberale, che riporti il tema del meridionalismo tra le priorità programmatiche da affrontare nel paese e nelle future iniziative da parte dell’Ue.

Sarà di certo una sfida assai ardua. 

È ancora più motivante, dato che il sud è sembrato essere, secondo diversi analisti, la vittima sacrificale di un cinico baratto tra la premier Meloni, che, in una sorta di Santa Alleanza con Salvini e Tajani, non avrebbe avuto remore a subordinare il suo placet nel fare approvare un regionalismo differenziato, targato Lega,senza efficaci bilanciamenti, e dare mano larga sulla riforma della giustizia, proposta da Nordio( targata FI) – su cui la premier ha avuto sempre qualche diffidenza, tant’è che lo ha spesso fatto tallonare dal sottosegretario Delmastro – per assicurare al suo progetto di riforma del premierato un percorso senza ostacoli, stante la natura costituzionale di questa riforma. 

Siamo insomma nel mezzo di una deriva autocratica che sta facendo scivolare il paese verso una democrazia plebiscitaria, tendente a modelli di disomogeneità sempre più accentuati in tema di ordinamenti sui servizi primari, aggravati ora dal fatto che con l’approvazione della riforma entreranno nella devoluzione regionale, la giustizia, limitatamente alla competenza dei giudici di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Per non parlare poi della sanità, ove nessuna subordinazione e nessuna conditio sine qua non, sulla governance del sistema sanitario regionale,

come lasciato intendere, stante la farraginosità del sistema previsto, dallo stesso prof. Sabino Cassese, presidente della Commissione incaricata della definizione dei Lep.

In altre parole si è lasciato campo libero ad una sorta di generalizzata deroga al principio di unità della nazione, anche su servizi di primaria natura, deputati ad assicurare l’uguaglianza dei cittadini in tutto il territorio nazionale.

Per non dire dell’ulteriore prevedibile accentuarsi dell’atavico squilibrio tra nord e sud.

La percezione più evidente è perciò che il meridione, con questa riforma, prossima all’approvazione definitiva, è stato abbandonato a se stesso.

E i governi regionali che fanno?

In particolare la regione siciliana dove nella giunta Schifani siedono assessori eletti nelle liste della DC?

Davanti a una generale prevedibile prospettiva di ulteriore depauperamento sociale ed economico del meridione,  e in mancanza di azioni decise del governatore di Forza Italia che assicurino la concreta partecipazione al programma di investimenti offerti dalla Ue con riguardo all’attuazione del Pnrr, per i riassetti e i miglioramenti infrastrutturali in quei territori comunali fragili e afflitti da strutture obsolete, maggiormente prioritari financo rispetto a velleitari progetti, quale appare ad oggi essere il ponte sullo stretto, vien da chiedersi: come intende muoversi la DC regionale in Sicilia, che oltre ad essere parte di quella maggioranza di centrodestra ne condivide, appunto, le responsabilità in giunta?

Non sarebbe il caso di mettere in mora il governo centrale e se del caso far venir meno il sostegno alla coalizione guidata dal governatore Schifani, se resta supino alle prepotenze di ministri che preferiscono giocare con il destino dei territori pur di accontentare lobby e alimentare oligarchie economiche mettendo avanti la sopravvivenza elettorale del proprio partito?