La tratta delle bambine in Afghanistan, aspetto agghiacciante di una crisi umanitaria.

Il gap tra poveri e ricchi si divarica e determina per chi vive in miseria totale condizioni esistenziali lesive della dignità umana e del rispetto dovuto al nostro prossimo. La tratta delle bambine per scopi sessuali, di prostituzione o di sottomissione servile dovrebbe scuotere più di una coscienza, è una consuetudine assolutamente intollerabile.

A sei mesi dalla caduta di Kabul (15/08/2021) per l’evacuazione precipitosa delle forze militari occidentali (ricordo le parole del Prof. Lucio Caracciolo, Direttore di Limes: “gli americani se la sono squagliata”) e la presa di potere dei Talebani, per l’Afghanistan – già dilaniato da circa 40 anni di faide e di guerre tra fazioni – questo è certamente l’inverno più terribile della sua storia più recente. L’ordine imposto dal nuovo regime non ha apportato alcun miglioramento sotto il profilo delle condizioni di vita della popolazione, consumata dalla miseria, dalla fame, dalla precarietà delle condizioni igieniche, dal clima infame, dall’inesistenza di servizi pubblici, dalla mancanza di lavoro. L’ONU – attraverso il Segretario generale Antonio Guterres, il direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale (PAM) David Beasley e il direttore generale della FAO, Qu Dongyu – ha ufficialmente definito quella Afghana “la più grave crisi umanitaria del pianeta”, ormai sull’orlo di una catastrofe irrecuperabile.

La commissaria europea agli Interni Ylva Johansson ha spiegato: “Per evitare che la crisi umanitaria diventi una crisi migratoria, dobbiamo aiutare gli afghani in Afghanistan”. Ma l’ingresso nel Paese di aiuti esterni diventa problematico a motivo dei vincoli di accesso, delle pregiudiziali ideologiche e delle restrizioni di transito imposte da un regime che non ammette ingerenze esterne e manda al mondo messaggi falsamente rassicuranti, dall’insicurezza della permanenza per gli interventi umanitari. Mentre la politica mondiale sembra quasi aver dimenticato quel Paese: preoccupano l’ordine mondiale le mire espansionistiche della Cina (a cominciare dalle minacce a Taiwan) e la crisi ucraina, assediata dall’esercito russo e allertata per una possibile invasione, mentre la pandemia globale subisce le cangianze del virus e le varianti africane.

Già prima del precipitare della crisi bellica (peraltro ancora in atto, con qualche focolaio di resistenza) disponevamo di un Rapporto di “Save the Children” del 15 dicembre 2020, che disegnava un quadro complessivamente drammatico e di cui vale la pena ricordare alcuni passaggi significativi: nel 2019 l’Afghanistan era al 170° posto su 189 dell’indice di “Sviluppo umano”, un Paese a vulnerabilità elevata  dove “i livelli di povertà sono altissimi, l’insicurezza alimentare diffusa e l’accesso all’acqua potabile e alle strutture igienico-sanitarie limitate, con frequenti disastri naturali, come alluvioni e terremoti”….”Più di un terzo della popolazione vive a più di due ore dalla struttura sanitaria più vicina e anche prima della pandemia circa 3,7 milioni di bambiniil 50% del totale, non sono iscritti a scuola”.

Chiaramente il Covid-19 ha portato complicazioni gravissime: se pensiamo ai disagi e ai drammi dei Paesi più evoluti, possiamo immaginare l’incidenza del virus mutante in un contesto sociale già fortemente deprivato di strutture, tutele, difese, cure, profilassi. In questo contesto di problematicità le prime vittime, le più esposte sono i minori e in particolare le bambine e le adolescenti. Credenze tramandate in una cultura chiusa e maschilista, povertà, fame, igiene quasi inesistente sono un vulnus per la crescita delle figlie femmine. Il 17 % delle ragazze si sposa prima di aver compiuto 15 anni e il 46% prima dei 18 anni. Molte sono devastate nel fisico da gravidanze precoci che, insieme al matrimonio e alle condizioni di sudditanza domestica, agli abusi e alle violenze anche familiari causano l’abbandono scolastico.  Il 60 per cento delle donne afghane di età compresa tra 20 e 24 anni senza istruzione si sposa ordinariamente prima dei 18 anni. Senza contare che le classi miste sono una minima percentuale, al pari delle insegnanti donne.

A due anni da quel Rapporto la situazione delle donne e delle ragazze afghane sembra peggiorata. Giungono dall’Afghanistan notizie e video decisamente agghiaccianti e la povertà galoppante, la miseria, la precarietà delle condizioni di vita unite ad usanze arcaiche e pregiudiziali rispetto a qualsivoglia tentativo di emancipazione della condizione femminile, spingono alla disperazione di gesti drammatici. In un report di forte impatto comunicativo a firma di Marta Serafini il magazine “7” del Corriere della Sera del 7 gennaio u.s. riferisce sul triste mercimonio delle figlie femmine da parte di genitori ridotti alla povertà assoluta: “Le ragazze afghane stanno di fatto divenendo il prezzo da pagare per il cibo: senza la loro vendita le famiglie morirebbero di fame”.

Mi sembra indelicato riferire sui prezzi, darebbe il senso di un turpe e disperato mercato. Ma non si tratta solo di matrimoni combinati (badalè”) o riparatori di torti e debiti (“baad”) : si abbassa la soglia dell’età della “compravendita”, ci sono neonate ipotecate alla nascita e bambine di 6/8/10 anni vendute ad uomini adulti: per quale scopo è facile immaginare. “Il risultato è che, senza accesso alla contraccezione o ai servizi di salute riproduttiva, quasi il 10 per cento delle ragazze afghane di età compresa tra 15 e 19 anni ha già avuto un figlio, secondo i dati delle Nazioni Unite”. Il regime talebano si è affrettato a diramare normative restrittive alle quali nessuno crede e soprattutto che nessuno rispetta. I media – sull’onda emotiva delle notizie che giungono da quel Paese – si sono occupati di queste vicende, la TV ha diramato qualche succinto servizio, rigorosamente dopo quelli sul Festival di Sanremo.

Eppure queste vicende ci riguardano e ci interrogano, nell’intimo della coscienza e – comparativamente – rispetto alle lamentazioni quotidiane da cui siamo afflitti, alle mollezze dei nostri stili di vita occidentali, ai diritti continuamente rivendicati. Dovremmo coltivare una lettura paradigmatica delle condizioni di vita sul pianeta: il gap tra poveri e ricchi si divarica e determina per chi vive in miseria totale condizioni esistenziali lesive della dignità umana e del rispetto dovuto al nostro prossimo. La tratta delle bambine per scopi sessuali, di prostituzione o di sottomissione servile dovrebbe scuotere più di una coscienza, è una consuetudine assolutamente intollerabile. Bisogna attivare interventi umanitari, fermare questo lurido commercio che mette i ‘brividi’: anche noi abbiamo i nostri e sono legittime emozioni ma francamente si tratta di un’altra cosa.