L’ANALISI DI GALLI DELLA LOGGIA SULLA IRRILEVANZA POLITICA DEI CATTOLICI SI NUTRE DI AVVERSIONE PER I POPOLARI.

 

Occorre un esame più sereno delle vicende susseguenti alla diaspora democristiana. In quel difficile contesto, i Popolari sono stati artefici di una sofferta rimeditazione del fattore identificativo della presenza cattolica nel tempo della secolarizzazione e della scomparsa del “comunismo reale”. Si operò con lo scrupolo di preservare la forza di una tradizione e la coerenza di un messaggio politico. Se dobbiamo guardare avanti, serve comunque la piena fedeltà ai valori che irradiano e sostanziano la vicenda del cattolicesimo democratico e popolare.

 

Giuseppe Fioroni

 

L’editoriale di Galli della Loggia sul Corriere della Sera di ieri sollecita una riflessione seria, non ostica pregiudizialmente ma neppure arrendevole, perché la “questione cattolica” di cui si occupa l’autore con indubbia perspicacia, ormai da tempo costituisce oggetto di analisi in molte sedi e per diversi interlocutori, dentro e fuori il perimetro del mondo ecclesiale.

 

Anche questo intervento mette sotto osservazione la scomparsa dei cattolici dal panorama politico nazionale. Sembra che il vuoto lasciato dalla Democrazia cristiana provochi un sentimento di sconcerto nella pubblica opinione, a dispetto della prolungata opera di demolizione, specie negli anni del post Concilio, persino dei presupposti ideali di un partito di ispirazione cristiana. Quando Tangentopoli ha raso a zero un’intera classe dirigente, stuoli di opinion maker salutarono quel passaggio traumatico con un certo entusiasmo perché cadeva finalmente un “muro” anche in Italia, e il “muro” era rappresentato, per ironia della sorte, proprio dalla Democrazia cristiana.

 

Nell’editoriale si misura con velata tristezza questo declino della funzione pubblica della Chiesa e dei cattolici. Dice Galli della Loggia, non senza una punta di veleno: “Fino a qualche anno fa a tale silenzio della Chiesa corrispondeva tuttavia la voce dei cattolici. Che per molto tempo è stata una voce ben udibile in grande prevalenza a favore del centrosinistra (come voce: quanto al voto le cose stavano probabilmente in modo diverso). Dopo la fine della Democrazia cristiana, infatti, esponenti importanti vecchi e nuovi del mondo cattolico, spesso della stessa Dc, si sono schierati sì con il Pd, ma sempre nella sostanza come dei puri vassalli fiancheggiatori. Con la speranza forse di dare un’anima cristiana a una sinistra rinnovata, (…)”. Dunque, non solo il vuoto ma anche lo sprofondamento nel suo buio – questa la tesi – per effetto di una logica di remissione opportunistica di fronte alla perdurante forza organizzata della sinistra, sebbene essa stessa trasformata.

 

L’errore, continua Galli della Loggia, è consistito nel “pensare che una volta eliminato l’ostacolo rappresentato dalla Dc l’arrivo al potere dell’ex Pci e dei suoi uomini avrebbe rappresentato l’inizio di chissà quale rinnovamento del Paese”. Così non è stato. Perciò, conclude, il “fallimento di questo disegno ha lasciato i cattolici italiani come si trovano oggi: di fatto politicamente muti, incapaci di una iniziativa autonoma”. Muti, i cattolici, per colpa di quelli che tra le loro fila avrebbero piegato alle convenienze del potere il compito di ritrovare, al di là dell’esperienza storica della Dc, il modo di istruire una nuova modalità d’impegno nella società e nelle istituzioni, mantenendo vivo il patrimonio del cattolicesimo politico. Muti, in sostanza, per un errore strategico dei cattolici democratici.

 

Ebbene, questa forzatura di Galli della Loggia non regge ad un esame più sereno delle vicende susseguenti alla diaspora democristiana. In quel difficile contesto, i Popolari sono stati artefici di una sofferta rimeditazione del fattore identificativo della presenza cattolica nel tempo della secolarizzazione e della scomparsa del “comunismo reale”. Andrebbero riletti i documenti che furono di sostegno e guida alla costituzione del nuovo partito, nonché alla evoluzione verso nuove mete (prima la Margherita e poi il Partito democratico). Si operò con lo scrupolo di preservare la forza di una tradizione e la coerenza di un messaggio politico, immaginando di apportare un contributo originale al dibattito politico che sorreggeva, sia pure malamente, lo sviluppo della cosiddetta seconda repubblica.

 

Ora, si può ragionare sulle fragilità di alcune scelte, come ad esempio l’adesione un po’ precipitosa all’idea del “partito unico” dei riformisti, senza sperimentare una fase di avvicinamento attraverso un patto federativo tra Ds e Margherita, ma è perlomeno ingeneroso declassare quella operazione a scorciatoia opportunistica, con il risultato, attribuito a forza alla condotta dei Popolari, di un irrimediabile “vassallaggio” nei confronti degli ex e post comunisti. Invece, il Partito democratico è nato da un desiderio di attualizzazione e ricomposizione delle culture democratiche che sono all’origine della Repubblica e della Costituzione. Non è stato un imbroglio. Che si torni a valutare la congruità del progetto, per capire ciò che non ha funzionato rispetto al disegno originario, è giusto; ma che si cancelli tutto con un colpo di spugna, senza alcun discernimento, appare inaccettabile.

 

Dobbiamo guardare avanti, anche disponibili a svolte coraggiose ove fosse evidente la consumazione di un’esperienza politica e organizzativa. Neanche il Pd è eterno. Come sappiamo, gli esami non finiscono mai, neppure in campagna elettorale. Dipende in ultimo, per quanto ci riguarda, dalla capacità di leggere i segni dei tempi, sempre rimanendo fedeli ai valori che irradiano e sostanziano la vicenda del cattolicesimo democratico e popolare.