Con il dovuto rispetto per qualsiasi riflessione politica, c’è una sola legge che possiamo definire come “la madre di tutte le riforme”. E questa legge è quella elettorale. Del resto, è evidente anche ai sassi che con le leggi elettorali nascono e tramontano partiti, prendono il largo e scompaiono alleanze e coalizioni e, in ultimo, decollano ed escono dalla scena leader politici. Insomma, sono,le leggi elettorali che aprono e chiudono le stagioni politiche e storiche nel nostro paese.
Un esempio tra tutti. Con la legge elettorale maggioritaria, e non più proporzionale, è uscita definitivamente di scena la stessa Democrazia cristiana, cioè il partito che ha caratterizzato la scena politica italiana per quasi cinquant’anni. E con l’abolizione delle preferenze multiple a vantaggio della preferenza singola, si è introdotta prima una competizione violenta all’interno dei partiti fra i vari candidati per poi completare l’operazione con la designazione centralistica dei futuri eletti, espropriando di fatto i cittadini dalla possibilità di scegliersi i propri rappresentanti.
Ora, e proprio soffermandosi su questo aspetto, peraltro al centro del dibattito anche in vista della futura riforma istituzionale e costituzionale, non possiamo non evidenziare un aspetto che resta decisivo se vogliamo ridare credibilità alla politica e qualità alla nostra democrazia. E cioè, non ci sarà la possibilità di ridare il potere ai cittadini di scegliere la rappresentanza parlamentare finchè ci saranno i cosiddetti ‘partiti personali’ o i ‘partiti del capo’. E questa per una ragione persin troppo semplice da spiegare. Ovvero, non può un partito personale, cioè fatto ad immagine e somiglianza del suo capo, avere una rappresentanza parlamentare scelta liberamente dai cittadini che non individua nella fedeltà al capo la regola aurea da rispettare e da venerare. Ed è altrettanto inutile continuare a parlare di dare maggiore forza al popolo nella sua accezione più generale se poi, contemporaneamente, non si dà l’opportunità allo stesso popolo di scegliere la classe dirigente politica del nostro paese.
Questo, purtroppo, resta il vero vulnus della democrazia italiana e che pochissimi mettono in discussione. O meglio, tutti si esercitano nella propaganda di ridare il potere ai cittadini nella scelta dei propri rappresentanti ma poi, al contempo, non mettono in campo iniziative concrete per spezzare definitivamente il tabù o il dogma dei ‘partiti personali’ o ‘del capo’.
Ecco perchè la vera iniziativa politica, e culturale ed organizzativa, per invertire la rotta resta quella di riformare profondamente la natura e il profilo dei partiti, cioè degli strumenti principali e decisivi della politica italiana come recita la stessa Costituzione repubblicana. Ed è proprio su questo versante che il contributo, e la cultura storica, del pensiero cattolico popolare e sociale possono, ancora una volta, essere decisivi per ridare credibilità ed autorevolezza alla politica da un lato e qualità alla democrazia dall’altro. Partiti cioè, dove la ‘nomina dall’alto non può mai precedere la legittimazione democratica dal basso’ come ci ricordava alla fine degli anni ‘80 Carlo Donat-Cattin e dove, soprattutto, non può essere la fedeltà passiva ed incolore nonché sterile e anche un po’ squallida al capo la regola decisiva per selezionare le classi dirigenti nei partiti. Insomma, per dirla con Norberto Bobbio, non può diventare la ‘democrazia dell’applauso’ lo strumento essenziale per regolare i rapporti tra i dirigenti – o il dirigente massimo – del partito e la base del partito stesso.
E sin quando non ci sarà una profonda e sempre più indispensabile riforma dei partiti, non ci sarà una vera e credibile riforma delle istituzioni. Del resto, come ci ricordava sempre Sandro Fontana, è appena sufficiente vedere come un partito pratica la democrazia al suo interno per capire come pensa di riformare le istituzioni quel partito. Appunto, come puntualmente e concretamente sta capitando oggi.