Flavio Felice
Passeggiando per le vie di Pescocostanzo, nel cuore del Parco Nazionale della Majella, in provincia dell’Aquila, mi sono imbattuto nella seguente incisione: “Sui domina”. È il motto posto sullo stipite del portone d’ingresso del palazzo municipale del paese e fa riferimento all’atto del 1774 con il quale Pescocostanzo, riscattandosi dal dominio feudale, assunse il titolo di Universitas sui domina (padrona di sé). È una storia che accomuna Pescocostanzo a tanti comuni italiani e ci consente di riflettere sul principio che anima il tema dell’autonomia: la sussidiarietà.
Universitas sui domina rimanda ad una delle massime che hanno maggiormente influenzato lo sviluppo della teoria politica, è la nota locuzione di Bartolo da Sassoferrato: “Universitas superiorem non recognoscens est sibi princeps”, con la quale il giurista riconosceva l’autonomia dei comuni e delle signorie, rispetto alla pretesa potestà dell’impero e del papato. Effettivamente, il riconoscimento giuridico dell’autonomia, a livello comunale, e la rilevanza politica che essa assume sono i caratteri fondamentali del principio di sussidiarietà.
«La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato» (Art. 114 C.). Siamo al cuore del principio di sussidiarietà, interpretato nella sua dimensione verticale, ma la costituzione italiana prevede anche la dimensione orizzontale, ai sensi del comma 4 dell’articolo 118. È per questa ragione che, al di là del giudizio di merito sulla proposta di legge che intende applicare l’articolo 116 della Costituzione, sulla quale si può pensare tutto il bene e tutto il male possibile e immaginabile, crediamo che la questione dell’autonomia rinvii a questioni di principio che toccano il cuore della teoria politica e investono lo stato di salute delle democrazie liberali.
Interrogarsi sul principio di sussidiarietà significa innanzitutto porsi il problema di quale ordine per la civitas, quali relazioni favoriscono la società aperta e quali invece potrebbero metterla in pericolo. Significa, dunque, andare al cuore delle scienze sociali, porsi la domanda sul come e sul perché del darsi di un fenomeno o di una istituzione e interrogarsi ancora sul come e sul perché una data istituzione è opportuno che funzioni affinché la matrice liberale della società aperta possa emergere.
È stato merito di Friedrich Hayek se la riflessione epistemologica sulle scienze sociali ha acquisito la consapevolezza che l’elemento empirico delle scienze sociali consiste in proposizioni relative ai modi di acquisizione della conoscenza. Il problema che pone Hayek all’analisi dei fenomeni sociali ha a che fare con il problema della “divisione della conoscenza”. Hayek si prefigge l’obiettivo di comprendere come la spontanea interdipendenza di un numero imprecisato di persone, ciascuna portatrice di un numero altrettanto imprecisato di informazioni, possa raggiungere un certo ordine, per la cui realizzazione sarebbe altrimenti necessaria una coordinazione consapevole, predisposta da qualcuno che disponga della conoscenza complessiva di tutti i soggetti che intervengono nella relazione di interdipendenza. La realtà ci dice che i dati sui quali si basa il ragionamento politico non sono affatto dati, almeno non sono disponibili ad alcuna mente superiore.
Ne consegue che la questione rilevante relativa alla decisione pubblica non risiede nella discussione se pianificare o meno, bensì se la pianificazione debba essere effettuata da un’autorità centrale oppure debba essere condivisa da una pluralità di individui, secondo lo schema delineato anche da Luigi Einaudi nel saggio del 1933 Il mio piano non è quello di Keynes.
Il principio di sussidiarietà delinea i rapporti tra le persone e le istituzioni, a partire dalla consapevolezza che la dimensione pubblica non risiede in un ente terzo che ne certifica la rilevanza: lo Stato (status rei publicae), bensì nel fatto che ciascuna persona è soggetto e comunità ed esprime la propria umanità manifestando il proprio status publicus.
Dunque, la sussidiarietà contrasta con ogni forma di accentramento, pertanto lo statalismo e ogni forma di pretesa assolutistica e di monopolio del potere sono contrari alla governance di tipo sussidiario. La governance sussidiaria genera partecipazione, ossia il protagonismo dei soggetti; in pratica, permette loro di esercitare, il più possibile, la funzione sovrana, partecipando, in una certa misura, al processo decisionale che riguarda questioni di interesse comune.
Fonte: L’Osservatore Romano, mercoledì 2 ottobre 2024
Titolo originale: Sussidiarietà e libertà. Per un’autonomia responsabile.
[Testo dell’articolo qui riproposto per gentile concessione dell’autore, docente all’Università del Molise, e del direttore del quotidiano ufficioso della Santa Sede].