Gabriele Papini
Scena Uno. Roma, 13 giugno 1984. In una piazza San Giovanni gremita (oltre un milione di persone) Giovanni assiste commosso ai funerali di Enrico Berlinguer. Giovane militante comunista (18 anni), la maturità classica alle porte e – come si dice – tutta la vita davanti. A un certo punto l’asta di uno striscione gli cade in testa, Giovanni perde i sensi ed entra in coma.
Scena Due. Roma, autunno 2015. In una stanza buia d’ospedale, Giovanni (Neri Marcoré) apre gli occhi. Ad assisterlo è suor Giulia (Valeria Solarino) che lo accompagna nella lenta riabilitazione e nel graduale ritorno alla vita.
Giovanni deve affrontare non solo il delicato passaggio nell’età adulta, ma anche la trasformazione di un Paese in cui tutto, nel frattempo, è cambiato. Il Pci non esiste più (al posto della storica libreria Rinascita oggi c’è un supermercato), è caduto il muro di Berlino, non c’è più l’Urss, Silvio Berlusconi (“quello delle televisioni”) è diventato presidente del Milan e poi – addirittura – presidente del Consiglio. Tutti i suoi cantautori preferiti (da Lucio Dalla a Pino Daniele) sono passati a miglior vita. Del suo film preferito (“Non ci resta che piangere”) è rimasto il solo Benigni.
Funziona l’idea centrale del film di un ragazzo (imprigionato nel corpo di un cinquantenne) che deve imparare da capo a muovere i suoi passi in una dimensione nuova, aliena, senza più i punti di riferimento di un tempo (la lira, il televisore a valvole, ecc). Funziona anche perché, attraverso la messa in scena di un viaggio nel tempo sui generis, fa leva sull’effetto nostalgia, su quel “come eravamo” tanto caro a una certa generazione, per scorgere dei lampi sull’Italia dei primi anni’80.
L’operazione cinematografica del regista Veltroni è fin troppo chiara: il risveglio di Giovanni è un pretesto, una metafora sulla condizione universale attuale (non solo italiana), che ha perso per strada i punti di riferimento. Ci sono i rimpianti per un tempo ideologico, forse più “giusto”, senz’altro distante da una latente superficialità del presente. Affiora anche il rammarico per il senso di comunità smarrito: le bandiere rosse, le sezioni, l’Unità. «Le ideologie erano sbagliate – dice Giovanni – ma le intenzioni erano giuste» (affermazione non scontata e spunto per un possibile dibattito mediatico: chissà cosa ne pensa Elly Schlein…).
Quando è un film che parla anche di pause. Pause dalla storia, pause dalla realtà, pause da sé stessi e pause dalla vita. Un titolo che è un avverbio ma anche una congiunzione, indica un tempo astratto ma anche concreto. Il “mood” del film (perfetto per una prima serata televisiva), alterna leggerezza e rimpianto, sorriso e dramma, per restituire con genuinità lo sguardo ora smarrito, ora incantato, di un ragazzo che si riaffaccia sul mondo. Il senso “veltroniano” dell’esistenza.