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venerdì, Marzo 14, 2025
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ReArm o non ReArm, questo è il dilemma

Come saranno spesi gli 800 miliardi di euro in 4 anni? Questo è il problema. Intanto il Pd è uscito a pezzi dal voto: diviso al suo interno e isolato nella famiglia socialista europea.

In Parlamento europeo, l’altro giorno , gli occhi erano puntati sulle due risoluzioni, una sul rinnovato sostegno all’Ucraina e l’altra sul Libro bianco della Difesa Ue in cui si promuoveva il ReArm EU. Vero è che, come richiesto da Ursula von De Gasperi (ha aperto l’intervento in Plenaria citando lo statista trentino e la necessità di un sistema comune di difesa), l’Eurocamera sarà esentata dal votare la proposta legislativa, che sarà invece esaminata dal Consiglio. Ed in questo, ha ragione Manfred Weber, Presidente e capogruppo PPE. Bypassare l’unica istituzione eletta direttamente dai cittadini è un errore: un voto avrebbe dato ulteriore credibilità al piano e maggior forza comunicativa verso i cittadini. A volte, la fretta porta a forzature non necessarie.

Ma ai cittadini (e ai veri democristiani) interessa la sostanza. Come saranno spesi questi 800 miliardi di euro in 4 anni? Si tratta di due diverse linee di spesa. La prima è costituita da 150 miliardi di prestiti garantiti da Bruxelles per gli investimenti degli Stati membri nel settore della difesa. La seconda, da 650 miliardi, potrebbe essere definita teorica: in sostanza, i Governi possono spendere fino all’1.5% del Pil in più in difesa senza che queste vengano conteggiate nel Patto di Stabilità e crescita (quindi fuori dal tetto del 3% di sforamento nel rapporto deficit/Pil). Insomma, non sono soldi in uscita da subito, non serve debito comune (mentre il Parlamento europeo lo ha, invece, chiesto nella risoluzione invitando ad usare ai fondi non spesi del Next Generation EU – i cosiddetti “coronabond” – per finanziare i 150 miliardi di prestiti). In questo senso, hanno ragione i Popolari: bene, ma è solo un primo passo, serve uno sforzo maggiore.

Non per questo, tuttavia, va dato credito alla narrativa dei socialisti e democratici italiani. Il Pd è uscito a pezzi dal voto: diviso al suo interno e isolato nella famiglia socialista europea. D’altra parte, tra i socialisti europei troviamo – non in Italia, ça va sans dire– autorevoli esponenti come il premier spagnolo o il laburista Starmer. Sarà per la necessità di correre dietro all’ex premier Conte, sarà per l’incapacità di essere forza di governo, ma il dibattito tutto interno alla sinistra italiana degli ultimi giorni sembra uscito da una tesi di laurea intitolata “Come rinunciare alla politica”. Pur non passando in Parlamento, il testo va approvato dal Consiglio e, prima, ci sono una miriade di riunioni preparatorie. In quella sede. Insomma, il testo si può emendare, con rilievi o proposte migliorative. E stupisce che questa rinuncia alla politica venga da una forza come il Partito democratico italiano, che ha governato spesso negli ultimi 20 anni. Il capolavoro di isolamento ha pochi precedenti. Sembra essere tornati 50 anni indietro, quando i comunisti erano contrari all’Unione europea perché il loro orizzonte era l’Internazionale socialista.

Intendiamoci. Il piano non è perfetto. Si potrebbero, proporre correttivi intelligenti, come vincolare una percentuale alla ricerca e sviluppo. In effetti, la ricerca in ambito militare è la radice di tanti prodotti di uso quotidiano, dal GPS alle macchine fotografiche digitali dal nastro adesivo, ai forni a microonde alla gomma sintetica, fino a internet. Si potrebbe dedicare dei fondi a progetti pilota anche nella sanità (valga per tutti l’esempio delle banche del sangue).

Rinunciare “a prescindere” è una scelta legittima che denota però scarsa cultura di governo. Scegliere di guardare l’orticello sempre più arido del “campo largo” italiano e non lo scenario europeo e mondiale è scelta legittima ma scriteriata, dannosa e provinciale. La politica è un’altra cosa e, in tempi così duri, andrebbe lasciata a chi ha senso di responsabilità e cervello.