Rosario Angelo Livatino, giudice studente per amore di giustizia e carità.

Le inchieste importanti che guida non lo trasformano in magistrato d’assalto. Vuole essere un magistrato rigoroso e intransigente. E per esercitare con coscienza il suo lavoro sceglie di estendere gli studi.

 

Andrea Piraino

 

Da quando, il 13 giugno 1979, il Consiglio Superiore della Magistratura gli conferisce le funzioni giudiziarie e fino al 21 agosto 1989, quando lascerà la Procura e si insedierà come giudice presso il Tribunale di Agrigento, per tutti questi dieci anni in cui esercita le funzioni requirenti come sostituto, Rosario Angelo Livatino (il “giudice-ragazzino” trucidato dalla mafia agrigentina sul viadotto “Gasena” della statale 640 Caltanissetta-Agrigento il 21 settembre 1990 ed oggi primo magistrato a salire all’onore degli altari) svolge il suo lavoro di giudice non solo in modo meticoloso e rispettoso delle regole, forte di una preparazione giuridica improntata ai valori della giustizia e della carità che lo avrebbero guidato sempre, anche nella sua breve esperienza giudicante, ma anche con una umiltà e serenità di atteggiamento che ne svelano subito la forte fede che lo anima.

 

Le inchieste importanti che guida – da quella sui finanziamenti regionali alle cooperative giovanili di Porto Empedocle del 1982 a quella sulle fatture false che coinvolgeva i maggiori gruppi imprenditoriali catanesi, da quella sugli sperperi e le inefficienze dell’ospedale civile di Agrigento alla famosa operazione “Santa Barbara” con quarantacinque mandati di cattura che avrebbe dato il via al maxi-processo “Antonio Ferro e altri”, comprese tutte le altre scottanti delle quali si occupa – non lo inorgogliscono, non diventano occasioni per apparire sui mass-media, rilasciare interviste, farsi fotografare. Insomma, non lo trasformano in magistrato d’assalto. Piuttosto lo confermano come magistrato rigoroso ed intransigente ancorché mai presuntuoso o supponente. Il suo lavoro, infatti, è supportato da sempre non dalle polemiche giornalistiche ma dagli studi e dalla ricerca di più approfondite conoscenze ed informazioni. E ciò perché, come lo stesso Livatino sottolineava nella famosa conferenza Fede e Diritto tenuta il 30 aprile1986 presso il salone delle suore vocazioniste a Canicattì, “il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; (e) decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni…è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare”.

 

Dunque, per esercitare con coscienza la professione del magistrato per Livatino bisognava continuare a studiare, approfondire, ordinare e ricostruire il sistema giuridico al fine di interpretarlo nella prospettiva per “il magistrato credente (di) trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché – scriveva – il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. (E) un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. Il magistrato non credente – aggiungeva invece – sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani”. Potere che, concludeva, “sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società…disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo ma anzi con costruttiva contrizione”.

 

Nasce da questo profondo senso di responsabilità e da questa consapevole umiltà, quindi, a mio parere, la decisione del “piccolo giudice”, a dieci anni dal conseguimento con lode della laurea in Giurisprudenza ed ormai nel pieno del suo autorevole esercizio delle funzioni giurisdizionali, di iscriversi alla Scuola di perfezionamento in Diritto regionale della Università degli Studi di Palermo per conseguirne il relativo diploma che, oggi, potrebbe essere equiparato, come titolo, al conseguimento di un master di secondo livello.

 

Era un settore dell’ordinamento giuridico, questo del diritto regionale, che soprattutto in una Regione a statuto speciale acquistava ogni giorno un peso specifico sempre più rilevante e non solo nelle materie affidate alla competenza esclusiva della Regione ma anche in quelle come il diritto penale che, pur rimanendo appannaggio riservato dello Stato, era inevitabilmente condizionato dalla normativa del legislatore regionale. Livatino, sul campo, nell’esercizio delle sue funzioni di indagine, sperimentava già da tempo quanto diventasse importante difendere, ad esempio, la natura e l’ambiente dal saccheggio degli incendi e dell’abusivismo edilizio, che peraltro nell’Agrigentino costituivano una vera e propria piaga come del resto aveva dimostrato l’enorme frana che il 19 luglio 1966 aveva sfregiato Agrigento ed aveva causato più di ottomila sfollati. E – poiché le cause accertate, non solo di quest’ultima, erano la speculazione edilizia, la devastazione del territorio, le costruzioni realizzate in zone fragili e financo nell’area archeologica ancorché tutelata da severissimi vincoli di inedificabilità, tutti profili regolamentari che evocavano il potere regionale – il “giudice-ragazzino”, pur essendo ormai diventato esperto, decide che per svolgere al meglio la sua funzione deve approfondire la conoscenza dell’ordinamento regionale siciliano nel quale opera ed applica le norme giuridiche che tutelano questi e tutti gli altri beni comuni dei cittadini e quindi si iscrive al corso di diploma in Diritto regionale della facoltà di Giurisprudenza dell’Università palermitana.

 

Ricordo ancora il suo esame di Diritto regionale (siciliano), sostenuto davanti ad una commissione da me presieduta e superato con il massimo dei voti e la lode, nel quale dimostrò tutta la sua differenza rispetto agli altri esaminandi ma soprattutto la sua profonda conoscenza non solo della struttura e dell’organizzazione regionale ma anche delle politiche pubbliche della Regione siciliana. Circostanza, quest’ultima, che ebbi modo poi di vedere confermata allorché dopo poco tempo mi contattò per avere assegnato l’argomento della tesi che avrebbe dovuto svolgere per il conseguimento del diploma.

 

Come con gli altri miei tesisti, chiesi a Lui stesso di indicarmi alcune sue preferenze tematiche tra le quali avremmo poi concordato l’oggetto  del lavoro di ricerca per la tesi. Egli con immediata determinazione mi indicò, però, un solo tema dicendomi che era molto interessato ad approfondire la politica urbanistica della Regione. Naturalmente, pensai subito che la ragione di quello specifico interesse potesse essere legata alla circostanza che nel territorio nel quale operava fosse impegnato in indagini contro la mafia per impedire che continuasse lo scempio urbanistico ed ambientale che si registrava da lungo tempo nell’Agrigentino e, quindi, mi dichiarai subito disponibile a definire un tema inerente la materia urbanistica. Stabilimmo così quello che poi sarebbe stato il titolo della  tesi: “La tutela della disciplina urbanistica nella Regione Siciliana, dalla legislazione statale alla produzione normativa regionale”.

 

Livatino, coerentemente alla sua personalità, svolse un lavoro attento ed approfondito, di ricostruzione e riordino non solo della legislazione regionale con tutti i suoi provvedimenti di sanatoria edilizia ma anche della legislazione nazionale nella quale la prima, pur frutto dell’esercizio di una potestà esclusiva ai sensi dell’art. 14 lett. f dello Statuto siciliano, si inquadrava e trovava i suoi punti di riferimento. Ma non si fermò a questo. Condusse l’analisi, inoltre, con un rigore ed una scrupolosità tali da fare emergere tutta la sua capacità di saper leggere il sistema normativo non nella sua astratta formalità ma in relazione alla realtà sociale e politica che ne costituiva il substrato sostanziale. E soprattutto di saper applicare il principio del discernimento non solo alla fase del processo decisionale che porta alle scelte giudiziarie ma anche a quella della interpretazione delle norme sulle quali quest’ultimo si fonda.

 

Con queste premesse, naturalmente, l’esame di diploma (conclusosi con il massimo dei voti e la lode) non poteva che consistere in una dotta dissertazione accademica che riguardò pure la tesina orale, sul tema “Specificità e funzioni del Commissario del Governo e del Commissario dello Stato”, che ogni candidato doveva presentare assieme alla tesi scritta. E poi, seppure brevemente, anche le considerazioni di carattere generale che ne fece seguire. E nelle quali il “giudice-studente” ebbe modo di far emergere la propria concezione del diritto che, rifacendosi all’insegnamento evangelico secondo il quale “se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli”, finiva per sostenere che “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore…verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana”. Concludendo, poi, come scriveva ancora nella relazione su Fede e Diritto, che “la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge”. Il che significa che la sua “stessa interpretazione e…applicazione vanno operate con il suo spirito e non in quei termini formali, miticamente formali…(che erano stati alla base delle degenerazioni giudiziarie) degli scribi e dei farisei”.

 

E qui viene fuori come, per Rosario Angelo Livatino, non solo la sua esperienza professionale ma anche la sua vita, tout court, fossero fondate sul rapporto permanente tra fede e diritto (o giustizia). Ma non nel senso di quest’ultimo che diventa assorbente di tutta la problematica regolativa dei rapporti umani quanto piuttosto nella prospettiva che la relazione fede-diritto si dovesse trasformare in una sorta di inveramento della giustizia nella carità. Del resto Cristo non aveva detto mai, ricordava il “giudice-studente”, che sopra ogni cosa bisognasse essere giusti. Anche se in molte occasioni aveva esaltato la virtù della giustizia. Diversamente, invece, Gesù aveva elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria perché è proprio in questo salto di qualità che si connota il cristiano.

 

Livatino, fin da giovane, sa che questo precetto è l’essenza della sua fede e lo vive come un dovere assoluto che, da magistrato, lo obbliga a comportamenti professionali frutto dell’ascolto esclusivo dei suggerimenti della sua coscienza di giudice imparziale e di uomo fedele ai principi religiosi nei quali credeva. Ma, ancora di più. Egli sa anche che, alla fine, questo precetto gli imponeva di occuparsi e preoccuparsi degli altri. Come quando il giorno dopo un ferragosto, meravigliando molto le guardie carcerarie, si recò nel penitenziario “Petrusa” di Agrigento per notificare l’ordine di remissione in libertà di un detenuto che aveva finito proprio quel giorno di scontare la pena e all’osservazione dei custodi che sarebbe potuto andare il lunedì successivo, rispose “questa persona ha pagato il suo debito con la giustizia ed ha diritto alla sua libertà (“immediatamente!”) o come quando si poneva alla pari dei difensori degli imputati o non voleva prevaricare le ragioni del pubblico ministero.

 

Naturalmente, questa postura lo portava anche a non indietreggiare mai davanti alle minacce o a non cedere alle pressioni intimidatorie. Ma, soprattutto, lo induceva a viaggiare senza scorta non volendo – come confessò alla sua insegnante del liceo, Ida Abate – “che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia” o, come disse ai suoi genitori, “in caso di emergenza, cioè di attentato, è meglio che soccomba uno solo, anziché altri della scorta”.

 

Questo era – si può dire – il già allora “beato” Rosario Angelo Livatino che io con tutta la Comunità universitaria palermitana abbiamo avuto il privilegio di incontrare, sì come giudice-studente di diritto e scienze regionali, ma anche e soprattutto come maestro di fede, giustizia e carità. Circostanza, quest’ultima, che abbiamo il dovere, ora, di trasmettere alle nostre future generazioni!

 

 

Il testo muove dalla circostanza della intitolazione (ieri 6 maggio) dell’aula 7 del Dipartimento di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali dell’Università di Palermo alla memoria di Livatino.