Scurati, aborto e strilli: una società dal pensiero in gola?

Dominano le barricate. Il caso Scurati evidenzia il perenne rimbalzo della logica amico-nemico sul terreno dell’antifascismo. Sull’aborto si levano voci per la libertà, non una per il dovere di assistenza.

C’è come sempre qualcosa che non va soprattutto in tempo di elezioni. Si alza una canizza sulla presunta censura di Scurati con il suo testo antifascista. Si sarebbe oscurata la democrazia sulla quale è caduta la scure del potere. Così protesta una parte, mentre l’altra parte replica con motivazioni di onere economico per la RAI. Intanto la Giorgia nazionale ha pubblicato lei il testo frutto di contestazione. 

Altra diatriba è a difesa del diritto dell’aborto, minacciato da un emendamento al decreto “Pnrr–quater” che, per come si teme e si comprende, vorrebbe far entrare nei consultori, associazioni anche di stampo antiabortista. C’è chi lancia un allarme per l’aggressione al diritto di aborto e chi invece rivendica che la legge debba essere applicata nella sua interezza. L’emendamento è a firma del deputato Malagola che per molti avrebbe fatto bene a ricacciarsi nelle fauci il pensiero che, sempre secondo alcuni, ha maldestramente tradotto in atto parlamentare perché approvato ed inserito nel disegno di legge all’articolo 44–quinquies.

Mala tempora currunt sed peiora parantur. Se si continua così andremo sempre peggio.

La legge 194 stabilisce che in caso di gravidanza una donna può essere assistita da consultori familiari che attuano direttamente o indirettamente speciali interventi quando la gravidanza o maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi. I consultori “possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni di volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la gravidanza”.

Da qui dibattiti a tutto spiano su chi sia idoneo e chi meno, chi sia intruso o chi no in una vicenda che ha comunque il tenore di un dramma. È questo un tema che non richiederebbe infatti neanche un rigo di scrittura. Il fatto che se ne parli e si commenti e si scriva al riguardo è un segno di grave sconcerto.

Si invoca con allarmi di strada la tutela di un diritto delle donne pronte alla barricata se qualcuno volesse immaginare di mettere i bastoni tra le ruote alla applicazione di una legge dello Stato.

Giungono persino bacchettate dalla Francia e dalla Spagna per il pericolo di una eventuale inversione di tendenza in ordine alla possibilità di non portare avanti una gravidanza. Ci è andato di mezzo anche Bruno Vespa che non ha trovato testimonianze femminili sul tema durante il suo “Porta a Porta”.

Su questo tema si registra un approccio ideologico che rende deprimente ogni discussione. C’è chi è a favore e chi contro e ciascuno, come è giusto, difende il suo pensiero.  La logica dello scontro è il macroscopico difetto di cecità delle parti in causa. Così la contrapposizione si carica di un livore e di una forza che perde di vista la tragedia del fatto, che perde di ogni rilevanza, prevalendo solo il desiderio di affermare la propria ragione.

Non sembra che esista al mondo una donna che abbia vissuto quella esperienza e che possa aver interrotto la gravidanza a cuor leggero. È una piaga che si porta appresso probabilmente per sempre e che richiederebbe una assistenza assoluta dello Stato per curare il dolore che ti accompagna, non solo nella memoria, nel corso degli anni di vita. 

È sempre lo Stato che concretamente potrebbe offrire l’occasione di un ripensamento sulla scelta di abortire, almeno lì dove si trattasse di dover affrontare una maternità in condizioni economiche impossibili, magari offrendo un ingresso al lavoro con quote riservate a chi non disponga di mezzi per sostenersi.

È lo Stato che deve assumersi le sue responsabilità e dare in un caso o in un altro un sostegno vero alle donne di fronte alla scelta di abortire. Stiamo parlando di una esperienza che lascia segni profondi in chi la vive e che non può essere oltraggiata, riducendola ad una avvilente rissa barricadera tra diritti e doveri.

In questi giorni una donna, Azzurra Carnelos, è morta avendo interrotto le cure chemioterapiche per non pregiudicare il prossimo parto del figlio che aveva in grembo. Il marito racconta che Azzurra stringeva i denti e sorrideva. E nato il bambino ma il cancro si è tolto la sua soddisfazione, uccidendola. Azzurra forse un giorno sarà proclamata santa, comunque resterà un esempio di dedizione di generosità e di amore.

A nessuna donna si può chiedere il sacrificio della propria vita per darne alla luce un’altra. Neppure si possono chiedere atti di eroismo diventando mamme quando nessuno alza un dito per darti una mano o se non ti senti pronta per un passo così impegnativo.

Azzurra insegna a tutti che il baccano dei diritti e dei doveri è comunque un modo distorto di approcciare il tema della maternità e le sue conseguenze. Allo Stato si deve chiedere molto di più, pretendere una assistenza vera, per tutto il tempo che occorre, che si scelga in un modo o nell’altro, per la vita o per l’aborto. Di questo non sembra invece levarsi alcuna voce.