Le elezioni del 4 marzo hanno rappresentato un vero tsunami nel panorama politico nazionale. È inutile negarlo. Come sarebbe del tutto inutile continuare a pensare che gli equilibri politici del dopo 4 marzo ripropongono la geografia politica precedente. Occorre prenderne atto per evitare di disegnare scenari del tutto virtuali.
Innanzitutto è tramontata la cosiddetta “mescolanza”, ovvero quella pluralità che caratterizzava l’esperienza di alcuni partiti. In particolare del Pd. Nato come partito plurale con la segreteria Veltoni nell’ormai lontano 2007 e che contava la presenza al suo interno delle migliori culture riformiste e costituzionali, progressivamente ha smarrito quella cifra per trasformarsi con Renzi definitivamente in un “partito personale”, il cosiddetto Pdr. Una mutazione genetica di quel partito che, accompagnato dal profondo cambiamento della sua line politica ne ha, di fatto, stravolto i suoi connotati tradizionali ed originari. Ed è pertanto del tutto legittimo che oggi quel partito abbia come ragione sociale quasi esclusiva la ricostruzione della sinistra.
Certo, una di sinistra moderna, post ideologica, riformista ma comunque una sinistra tout court. Una esigenza che si imporne anche e soprattutto dopo le continue e ripetute sconfitte politiche ed elettorali che il Pd ha subito dal 2015 in poi. Con tanti saluti, di conseguenza, al partito plurale e al modello veltroniano. Stessa sorte è toccata, per motivi diversi ma complementari, all’altro partito plurale che ha dominato, comunque sia, la politica italiana per 25 anni, dall’indomani della caduta della prima repubblica sino alle elezioni politiche del 2018, cioè Forza Italia di Silvio Berlusconi. Un partito dichiaratamente personale e di proprietà esclusiva del suo leader ma un partito che contava comunque al suo interno varie culture e che è stato per molto tempo il punto di riferimento di vasti settori che si erano riconosciuti nei partiti democratici della prima repubblica. Appunto, sino al voto del 4 marzo. Un voto che, d’un tratto, ha cancellato il vecchio centro destra, l’antico centro sinistra. Cioè quel bipolarismo che ha caratterizzato il sistema politico italiano per quasi 25 anni.
In secondo luogo è tramontata la vecchia definizione di destra e di sinistra. Non perché siano scomparse la destra e la sinistra. Ma, molto più semplicemente, i settori che storicamente si riconoscevano nella sinistra si sono sentiti più protetti da altri partiti, nello specifico dalla Lega di Salvini e dal movimento “oltre” la destra, la sinistra e il centro, cioè il movimento 5 stelle. Ovvero, le periferie, il ceto medio impoverito, la stragrande maggioranza delle giovani generazioni, quel che rimane del mondo operaio, i nuovi poveri, i precari, gli ultimi. Confluiti tutti, o in gran parte, verso i lidi pentaleghisti. E, quel che politicamente va evidenziato, non è del tutto escluso che possa decollare nel futuro un nuovo e del tutto inedito bipolarismo tra una destra a trazione leghista e un movimento populista e demagogico del tutto avulso dalle tradizionali categorie politiche. Con un ex centro sinistra del tutto marginale e periferico rispetto agli equilibri politici nazionali.
Ecco, all’interno di questo quadro, c’è un grande assente. Ed quello che possiamo tranquillamente definire come il cattolicesimo politico italiano. Una tradizione che è’ stata decisiva in tutti i tornanti cruciali della democrazia italiana. Decisivo per la qualità della sua classe dirigente, per le scelte politiche compiute, per l’efficacia del suo progetto politico. Dalla Costituente al centrismo degasperiano, dal centro sinistra alla solidarietà nazionale, dalla difesa delle istituzioni allo stesso Ulivo. Ma, al di là del del richiamo storico, dov’è oggi il cattolicesimo politico italiano?
Il sasso nello stagno lo ha lanciato recentemente, con un intervento singolare e coraggioso, addirittura il Presidente della Cei cardinal Gualtiero Bassetti di fronte all’assemblea dei vescovi italiani. Ricordando Sturzo, il magistero di De Gasperi, l’attualità del popolarismo di matrice sturziana, il centenario dell’appello ai “liberi e ai forti”. Ma, ed è quel che più conta, invitando espressamente i cattolici italiani all’impegno politico diretto, responsabile ed immediato. Un appello importante che ha evidenziato, con forza e coraggio appunto, l’attuale irrilevanza dei cattolici in politica e la sostanziale emarginazione di questa cultura. Un elemento, questo, che si incrocia con la trasformazione dei partiti in partiti personali dove l’apporto delle varie culture e’ del tutto ininfluente