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Coronavirus e Università telematica

I pericoli nella diffusione del virus cinese stanno imponendo nuove forme di insegnamento soprattutto con il ricorso a nuovo strumenti tecnologici.

Sono ormai lontane le tesi estremiste e distruttive di Ivan Illich propugnate in “Deschooling Society” nel 1971 che partendo da una critica severa della educazione “istituzionalizzata” giunge ad una formula radicale di “descolarizzazione” totale della società.

Una tesi da rifiutare perché non può esistere una società senza scuola.

Poi venne la Commissione dell’Unesco presieduta da Edgar Faure del 1970 che redasse un rapporto voluminoso (“Apprendre à être”, Parigi 1970) rilevando le insufficienze radicali spaziali, temporali e della comunicazione.

Le tecniche moderne aprono nuove prospettive nei processi educativi. Del pari, si apre allora il problema delle risorse da destinare allo sviluppo delle società umane.

In tempi di emergenza è necessario ricorrere a mezzi alternativi non dimenticando che l’università è il principale modello di insegnamento fin dal Medio Evo. È concepita da sempre, infatti, come Istituzione fondata sulla concentrazione spaziale di un microcosmo intorno a una Autorità incaricata di diffondere la conoscenza e di attribuire attestati” come sottolineava Henri Dieuzeide nel 1972.

Dunque non basta seguire sullo smartphone. Importante è cosa si segue e chi insegna.

Raggi ora vuole snellire gli appalti: il suo programma elettorale diceva il contrario

Volentieri condividiamo la lettera che Virginia Raggi ha inviato al Presidente dell’Anci Antonio De Caro in cui si elogiano le misure straordinarie messe in campo dal Governo per fermare i contagi e quelle prospettate per un pronto riscatto.

Nel testo di Virginia Raggi si chiede: l’applicazione del  “modello Genova”. “Da amministratore di una grande città – oltre a fare i miei personali complimenti al collega di Genova, Marco Bucci – desidero sottolineare come questo modello abbia consentito al sindaco di avere maggiori possibilità reali di intervento e di snellire gli infiniti tempi della burocrazia. E’ un modello da replicare”.

In una fase di emergenza, come quella che stiamo vivendo, sembra logico snellire le procedure anche se rimane pur sempre il problema di un codice – quello degli appalti- che troppe volte si vuole aggirare.

Bisognerebbe aprire, piuttosto, una discussione seria su una modifica di tale codice, snellendo se è il caso le procedure più macchinose.

Inoltre andrebbe ricordato alla Sindaca che uno dei punti chiave del Movimento 5 stelle romano era:  “Una Roma a 5 Stelle ha una task force sugli appalti che limita gli affidamenti diretti e ferma la corruzione, proseguendo sulla scia di una vigilanza collaborativa con l’Anac”.

 

Se l’architettura facilita le relazioni

Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Mario Panizza

I cento anni del quartiere romano della Garbatella non costituiscono un compleanno isolato. Dopo la fine della prima guerra mondiale si avviano in Europa molti programmi di ricostruzione, spesso collegati alla ripresa e al potenziamento dello sviluppo industriale.

Non si tratta di quartieri esplicitamente operai, come i villaggi storici di Crespi D’Adda (Bergamo, 1878), Krupp nella Ruhr (1847), New Lanark in Scozia (1786), ma di interventi di edilizia popolare, anche pubblica, rivolta a promuovere aree residenziali, ordinate e soprattutto dotate di quei servizi, complementari come il verde e i trasporti, indispensabili per rendere concreto e vivibile l’impianto abitativo.

Da questi interventi è possibile ricavare indicazioni preziose sul progetto della città contemporanea. Tutti, o quasi, sono sostenuti da un piano disegnato, misurato nelle quantità e, soprattutto, corrispondente a chiari intendimenti imprenditoriali. La gran parte di essi, a distanza ormai di un secolo, propone soluzioni dove il modello residenziale garantisce ancora buone condizioni di vivibilità e relazioni sociali attive.
Negli anni in cui è realizzata la Garbatella, a Berlino si portano avanti diversi insediamenti, firmati da architetti di valore, tutti impegnati nella ricerca di modelli abitativi fedeli al razionalismo funzionale, ma anche attenti a un inserimento ambientale personalizzato da un forte richiamo espressivo.

Tra tutti emerge il Quartiere di Berlin Britz, progettato da Bruno Taut e inaugurato poco dopo la Garbatella. Sono gli anni in cui Berlino registra una notevole crescita della popolazione; di conseguenza, emerge il tema della residenza e la necessità di affrontarla in una programmazione su tempi lunghi. Taut, sostenuto da una ricerca molto fertile e dallo spirito progressista della linea socialdemocratica, porta avanti il disegno innovativo di una costruzione immersa nel verde e contenuta nei costi, perché attenta a perseguire scelte di razionalità che prevedono anche l’eliminazione delle aggiunte ornamentali della casa borghese.

Accolta subito con favore, si è prestata a soddisfare le esigenze di una classe operaia pronta ad abbandonare gli ottocenteschi, insalubri, blocchi urbani. Berlin Britz disegna un impianto, chiaro nel suo insieme, contraddistinto dalla ripetizione di unità abitative, ordinate da una rigorosa aggregazione seriale. Con la forma di un grande ferro di cavallo si apre su un’area verde che racchiude un ampio spazio destinato al tempo libero, con al centro un piccolo lago.

Il tutto costruisce un ambiente che, con grande intensità, rende il clima di un’accorta disposizione di elementi naturali. La sua composizione abbandona il modello della casa isolata per configurare un insediamento unitario, di grande dimensione, destinato a offrire alle classi meno agiate una residenza “autorevole” che, come un “palazzo” nobile costruisca un’impronta riconoscibile, ben ancorata sul territorio.

La condizione d’insieme è riposante e, unita alla comodità di muoversi, usufruendo di treni urbani, favorisce la duplice sensazione di sentirsi all’interno di una comunità protetta e, allo stesso tempo, di essere parte di un tessuto che lega molti centri. I nuovi quartieri entrano in relazione diretta con i borghi che hanno formato nel tempo la città di Berlino.
Sempre in quegli anni, ad Amsterdam, Berlage imposta un piano urbanistico destinato a guidare alla scala territoriale lo sviluppo dell’intera città. Il progetto si affida a un disegno formalmente concluso, dove tutte le componenti sono programmate per sostenere gli accrescimenti futuri, senza rischiare di incorrere in paralizzanti imprevisti. Il verde, i trasporti, le residenze, le aree industriali riempiono campi con tanta precisione che, anche a distanza di cento anni, riescono a sostenere il mutare delle esigenze, comprese quelle legate all’incremento del trasporto privato.

All’interno del Piano territoriale di Berlage si sviluppano alcuni insediamenti, soprattutto nell’area sud della città, dove la ricerca architettonica pronuncia un’espressività molto marcata. Le singole opere rispondono a criteri compositivi comuni, che accettano la linea della continuità materica e la logica della modellazione morbida degli involucri, offrendo tuttavia soluzioni individuali differenziate, pronte a interpretare ruoli di vero e proprio protagonismo urbano. Come a Berlino, il quartiere beneficia negli anni del rispetto della città: non è sopraffatto dalle nuove costruzioni e le parti realizzate negli anni Venti del secolo scorso rimangono sufficientemente integre e, soprattutto, separate dalle espansioni successive.

La Garbatella, sorta su un’area agricola scarsamente abitata, attraversata per secoli dai pellegrini che percorrevano via delle Sette Chiese, esprime una logica progettuale dissimile da quella dei due esempi di Berlino e di Amsterdam: il suo modello abitativo si colloca in una dimensione che sconfina nell’idea di borgo, distante dal riferimento del comparto urbano. Destinata a ospitare gli sfollati provenienti dalle demolizioni della Spina di Borgo e di via dei Fori Imperiali, è un quartiere che offre, soprattutto ai suoi residenti, un’ampia dotazione di servizi che qualificano l’intero comprensorio: il teatro, il mercato, l’albergo, ecc. Negli anni alcuni di questi edifici hanno ovviamente cambiato destinazione d’uso perché molte funzioni hanno trovato sistemazione all’interno dei singoli alloggi. Così il diurno è stato recentemente recuperato e trasformato in una biblioteca popolare.
La Garbatella, dopo la posa della prima pietra il 18 febbraio 1920 da parte del re Vittorio Emanuele III, viene realizzata nel decennio successivo durante il pieno sviluppo edilizio che fa seguito alla fine della guerra.

La qualità edilizia, fin dai primi edifici, è alta, affidata alla sapienza costruttiva di molti architetti, tra cui Gustavo Giovannoni e Innocenzo Sabbatini, cui si deve il carattere un po’ barocco e un po’ medievale, che pervade la decorazione delle facciate. Il suo impianto morfologico e tipologico registra tuttavia negli anni un cambiamento progressivo: dopo le prime costruzioni, intorno a Piazza Benedetto Brin, dove il rapporto tra aree verdi e aree edificate è molto generoso, gli spazi liberi tendono a ridursi.

La Garbatella, al contrario dei due quartieri di Berlino e di Amsterdam, è costretta a subire l’invadenza della città che le cresce intorno: parte della sua qualità iniziale è alterata da superfetazioni e intasamenti; soprattutto i bordi sono compromessi dalle nuove costruzioni, di dimensioni molto maggiori, che vengono accostate senza soluzioni di continuità. Per lungo tempo questo quartiere non è stato considerato un insediamento particolarmente degno di nota e, proprio per questo, è risultato facilmente aggredibile da una latente speculazione che, come detto, ne ha sbiadito i caratteri in non pochi punti. Anche il suo nucleo storico, quello della città giardino, è stato parzialmente compromesso.

Oggi la Garbatella, anche grazie a questa ricorrenza “centenaria”, vive una condizione di particolare tutela che la protegge da incursioni speculative, comunque sempre possibili. Il suo carattere e la sua personalità sono ormai acclarati, anche se, ma ormai solo per pochi, continua a rappresentare un’architettura minore, almeno rispetto alle sperimentazioni portate avanti negli stessi anni nell’Europa centrale e settentrionale. La sua protezione si appoggia, oltre che sulla qualità dell’architettura, sui valori di socialità e di vivibilità che permangono solidi e robusti, nonostante la città, che viviamo ogni giorno, sembra smarrire talvolta i suoi punti di riferimento.

I tre esempi, presi in esame in occasione dei loro vicini compleanni, costituiscono momenti alquanto significativi dell’architettura moderna. Anche se con valori differenti, indicano un modo di affrontare la crescita della città attraverso regole disegnate e prescrizioni capaci di governarne lo sviluppo. A Roma l’obiettivo di progettare la città sembra appannato, sostituito da indici di densità che, se non vengono accompagnati da proiezioni formalizzate, rimangono valori astratti, del tutto inadeguati a controllare l’esito di quanto ci si propone di realizzare.

In mancanza di un modello urbano, che potrebbe rifarsi come termine di riferimento proprio alla Garbatella, si sviluppano ragionamenti, limitati a tracciare solo quantità, senza incontrare la giusta attenzione per coinvolgere gli operatori sia pubblici che privati a investire nell’adeguamento delle esigenze della città futura.

Coronavirus: serve buona volontà

Al di là degli errori che si possono commettere e delle imprecisioni che ciascuno registra, quando è obbligato a far fronte ad emergenze di un certo tipo, bisogna dar realmente conto del fatto che in Regione, quanto a livello Nazionale, non c’è mai stata assenza di attenzione.

L’intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha fatto capire che non si tratti solo e limitatamente di aspetti di carattere medico-ospedaliero, ma ha fatto chiaramente intendere quanto sia importante il contributo di ciascun cittadino al fine di limitare questa cattiva esperienza sanitaria. Sembrerà strano, ma sono proprio queste le circostanze in cui non solo si invitano le parti a deporre le quotidiane schermaglie politiche, ma c’è un invito a rispolverare, in ciascuno di noi, quello spirito collaborativo, spirito che sembrava già da tempo in disuso ormai abbandonato chissà in quale angolo della nostra storia.

Come dire, di fronte a un guaio di tale portata, si possono sfoderare momenti per lo più ordinari.

La chiusura delle scuole, dei momenti collettivi, culturali, sportivi, politici, testimoniano lo sforzo richiesto a ciascun soggetto, dai fanciulli, alle madri, ai padri, ai nonni, per non scordarsi i lavoratori, le imprese, il mondo religioso e l’intero tessuto che da luogo a un Paese. Tutto questo mette in rilievo il senso di collaborazione comune e di luminosi intenti di unità dell’intera Italia.

Per parte mia, ma gli esempi che cito sono geograficamente limitati, ricordo le tragedie capitate nelle nostre terre: la prima che ho vissuto direttamente relative all’alluvione nel 2003 della Val Canale Canal del Ferro; e, la seconda, vissuta ai margini, relativa alla tragedia del terremoto del 1976. Anche in questi due tristi casi, le popolazioni interessate hanno dato prova di una elevata partecipazione collettiva e di una sensibilità, non più registrate in misura così profonda.

Oggi, in un raggio molto più vasto, in una condizione che sembra via via diventare sempre più estesa, riscopriamo quanto sia importante, quanto sia intenso, quanto sia indispensabile, per ciascuno di noi, sentirsi uniti per fronteggiare in sintonia una calamità così rilevante.

Degli errori, delle inesattezze, dei modi non sempre adatti e cose di questo genere, non intendo in alcun modo rilevare. Sarebbe del tutto sciocco che mi mettessi a criticare un’azione, perché in questo modo, vanificherei il saggio messaggio di Mattarella, che ha invitato tutti quanti a rimboccassi le maniche e a seguire gli indirizzi volti a far convergere le energie, forze, abilità di tutti.

Curiosity fotografa Marte in altissima risoluzione

Curiosity ha realizzato le immagini con la sua fotocamera Mastcam.

In 6 ore e mezza di scatti nell’arco di 4 giorni, Curiosity ha catturato le immagini che poi i tecnici hanno assemblato nelle settimane successive.

Il rover sta esplorando nello specifico la regione del Glen Torridon, immortalata negli scatti diffusi dalla Nasa, dal gennaio 2019. Si tratta di un’area molto ricca di minerali argillosi intrappolati negli strati di roccia sedimentaria, motivo per cui è di grande interesse per i geologi planetari.

 

Il telelavoro

Il telelavoro è basato sull’idea che il dipendente abbia una postazione fissa, ma dislocata in un luogo diverso dalla sede aziendale. Per l’appunto, tipicamente a casa del lavoratore.

Si tratta di un concetto fortemente legato all’evoluzione delle tecnologie informatiche e quindi soggetto ad una continua trasformazione.

Il telelavoro è molto più di una tecnica per delocalizzare gli uffici: esso permette di liberare il lavoro dai vincoli spaziali e temporali, e, di conseguenza, le persone possono scegliere dove, quando e come lavorare. Spesso il telelavoro è un misto col lavoro tradizionale e richiede la presenza fisica in ufficio alcune volte alla settimana o al mese, oltre all’impegno a telelavorare entro un intervallo di orari flessibile -ma comunque limitato e non a completa discrezione del lavoratore-, in cui il lavoratore deve essere reperibile.

Il telelavoro non è una professione, né un mestiere: chi telelavora resta comunque un traduttore, o un programmatore o qualsiasi altro tipo di professionista; tuttavia, per svolgere i suoi compiti, non dovrà più recarsi in ufficio per le classiche otto ore lavorative, perché il suo posto di lavoro sarà localizzabile ovunque ci sia una connessione alla rete aziendale o la possibilità di inviare file e messaggi.

La dotazione hardware minima consiste in un computer, connessione Internet a banda larga, periferiche che possono essere già incorporate nel PC (cuffia con microfono, webcam, scanner). L’utente compie un accesso tramite desktop remoto al proprio PC situato in ufficio con i relativi file e programmi, ovvero si connette dal PC di casa al server dell’azienda sul quale è installato e gira il software ERP. Le aziende che adottano una policy informatica di tipo Bring your own device (BYOD), consentono ai telelavoratori di usare il proprio cellulare e portatile, separando del tutto i dati personali da quelli aziendali (con partizioni logiche e fisiche dedicate). L’attuazione di programmi di telelavoro è facilitata se l’azienda già adotta il Cloud computing, per cui i dati e programmi risiedono e sono gestiti su server remoti cui i dipendenti si collegano dalla sede di lavoro.

Rispetto a una connessione effettuata in ufficio, l’utente noterà maggiori problemi di sicurezza e connessione più lenta perché si entra da un nodo esterno al dominio aziendale, ma con le stesse funzionalità di base di un database management system, richieste allo stesso software quando è gli utenti si trovano fisicamente negli uffici dell’azienda: autenticazione degli utenti, tracciabilità di tutte le operazioni (di visualizzazione, cancellazione, aggiornamento), gestione dei conflitti in un file condiviso e in modifica presso due o più utenti, storage/ back-up e punto di ripristino, eventuale trasmissione cifrata dei dati e firma digitale

Questa la circolare del ministro per incentivare il Telelavoro

La progressiva digitalizzazione della società contemporanea, le sfide che sorgono a seguito dei cambiamenti sociali e demografici o, come di recente, da situazioni emergenziali, rendono necessario un ripensamento generale delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa anche in termini di elasticità e flessibilità, allo scopo di renderla più adeguata alla accresciuta complessità del contesto generale in cui essa si inserisce, aumentarne l’efficacia, promuovere e conseguire effetti positivi sul fronte della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti, favorire il benessere organizzativo e assicurare l’esercizio dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, contribuendo, così, al miglioramento della qualità dei servizi pubblici.
L’attuale quadro normativo interviene sulla materia, prevedendo per le pubbliche amministrazioni apposite misure che, anche al fine di verificare gli effetti delle politiche pubbliche, richiedono un apposito monitoraggio.
Con la presente circolare si forniscono alcuni chiarimenti sulle modalità di implementazione delle misure normative e sugli strumenti, anche informatici, a cui le pubbliche amministrazioni possono ricorrere per incentivare il ricorso a modalità più adeguate e flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa.

2. Disciplina per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche
L’articolo 14 della legge 7 agosto 2015, n. 124 ha disposto l’obbligo per le amministrazioni pubbliche di adottare, nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, misure organizzative volte a fissare obiettivi annuali per l’attuazione del telelavoro e, anche al fine di tutelare le cure parentali, di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa che permettano, entro tre anni, ad almeno il 10 per cento dei dipendenti, ove lo richiedano, di avvalersi di tali modalità, garantendo che i dipendenti che se ne avvalgono non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera.
La disposizione prevede che l’adozione delle predette misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi costituiscano oggetto di valutazione nell’ambito dei percorsi di misurazione della performance organizzativa e individuale all’interno delle amministrazioni pubbliche.

Le amministrazioni pubbliche, inoltre, adeguano i propri sistemi di monitoraggio e controllo interno, individuando specifici indicatori per la verifica dell’impatto sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa, nonché sulla qualità dei servizi erogati, delle misure organizzative adottate in tema di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti, anche coinvolgendo i cittadini, sia individualmente, sia nelle loro forme associative.
Per effetto delle modifiche apportate al richiamato articolo 14 della legge n. 124 del 2015 dal recente decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9, recante “Misure  urgenti  di  sostegno  per  famiglie,  lavoratori  e  imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, è superato il regime sperimentale dell’obbligo per le amministrazioni di adottare misure organizzative per il ricorso a nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa con la conseguenza che la misura opera a regime.
La legge 22 maggio 2017, n. 81, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinatoha introdotto, tra l’altro, misure volte a favorire una nuova concezione dei tempi e dei luoghi del lavoro subordinato, definendo il lavoro agile come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
Per il settore di lavoro pubblico, l’articolo 18, comma 3, della predetta legge n. 81 del 2017, prevede che le disposizioni introdotte in materia di lavoro agile si applicano, in quanto compatibili, anche nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, secondo le direttive emanate anche ai sensi dell’articolo 14 della legge 7 agosto 2015, n. 124 e fatta salva l’applicazione delle diverse disposizioni specificamente adottate per tali rapporti.

Per effetto delle integrazioni normative operate dalla legge di bilancio 2019, i datori di lavoro pubblici e privati che stipulano accordi per l’esecuzione della prestazione di lavoro in modalità agile sono tenuti in ogni caso a riconoscere priorità alle richieste che pervengono dalle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del periodo di congedo di maternità previsto dall’articolo 16 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, ovvero dai lavoratori con figli in condizioni di disabilità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
In attuazione del richiamato articolo 14, comma 3, della legge n. 124 del 2015, è stata adottata la direttiva n. 3 del 2017, recante “Linee guida contenenti regole inerenti all’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti”. La direttiva, che è stata adottata sentita la Conferenza unificata, definisce gli indirizzi per l’attuazione delle predette misure e linee guida contenenti le indicazioni metodologiche per l’attivazione del lavoro agile, gli aspetti organizzativi, la gestione del rapporto di lavoro e le relazioni sindacali, le infrastrutture abilitanti per il lavoro agile, la misurazione e valutazione delle performances, la salute e la sicurezza sul lavoro.
Alla direttiva in questione si rinvia per i necessari approfondimenti.

Le modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa, tra le quali il lavoro agile,
sono altresì richiamate nella direttiva n. 1 del 25 febbraio 2020 con oggetto “Prime indicazioni in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019 nelle pubbliche amministrazioni al di fuori delle aree di cui all’articolo 1 del decreto-legge n.6 del 2020” in cui tra l’altro le amministrazioni in indirizzo, nell’esercizio dei poteri datoriali, sono invitate a potenziare il ricorso al lavoro agile, individuando modalità semplificate e temporanee di accesso alla misura con riferimento al personale complessivamente inteso, senza distinzione di categoria di inquadramento e di tipologia di rapporto di lavoro.
Anche nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 1° marzo 2020 concernente ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, all’articolo 4, comma 1, lettera a) sono state introdotte ulteriori misure di incentivazione del lavoro agile.
Da ultimo, allo scopo di agevolare l’applicazione del lavoro agile quale ulteriore misura per contrastare e contenere l’imprevedibile emergenza epidemiologica, nel citato decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9 sono previste misure normative volte a garantire, mediante Consip S.p.A., l’acquisizione delle dotazioni informatiche necessarie alle pubbliche amministrazioni al fine di poter adottare le misure di lavoro agile per il proprio personale.

3. Misure di incentivazione

Tra le misure e gli strumenti, anche informatici, a cui le pubbliche amministrazioni, nell’esercizio dei poteri datoriali e della propria autonomia organizzativa, possono ricorrere per incentivare l’utilizzo di modalità flessibili di svolgimento a distanza della prestazione lavorativa, si evidenzia l’importanza:

  • del ricorso, in via prioritaria, al lavoro agile come forma più evoluta anche di flessibilità di svolgimento della prestazione lavorativa, in un’ottica di progressivo superamento del telelavoro;
  • dell’utilizzo di soluzioni “cloud” per agevolare l’accesso condiviso a dati, informazioni e documenti;
  • del ricorso a strumenti per la partecipazione da remoto a riunioni e incontri di lavoro (sistemi di videoconferenza e call conference);
  • del ricorso alle modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa anche nei casi in cui il dipendente si renda disponibile ad utilizzare propri dispositivi, a fronte dell’indisponibilità o insufficienza di dotazione informatica da parte dell’amministrazione, garantendo adeguati livelli di sicurezza e protezione della rete secondo le esigenze e le modalità definite dalle singole pubbliche amministrazioni;
  • dell’attivazione di un sistema bilanciato di reportistica interna ai fini dell’ottimizzazione della produttività anche in un’ottica di progressiva integrazione con il sistema di misurazione e valutazione della performance.

4. Monitoraggio
Come indicato nella richiamata direttiva n. 3 del 2017, le amministrazioni sono tenute ad adottare tutte le iniziative necessarie all’attuazione delle misure in argomento, anche avvalendosi della collaborazione dei Comitati unici di garanzia per le pari opportunità, per la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (CUG) e degli Organismo indipendente di valutazione della performance (OIV) secondo le rispettive competenze.
In particolare, le amministrazioni curano e implementano il sistema di monitoraggio previsto nella richiamata direttiva per una valutazione complessiva dei risultati conseguiti in termini di obiettivi raggiunti nel periodo considerato e/o la misurazione della produttività delle attività svolte dai dipendenti.

E’ importante ricordare che nella stessa direttiva si precisa che le amministrazioni, tramite apposito atto di ricognizione interna, individuano le attività che non sono compatibili con le innovative modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa, tenendo sempre presente l’obiettivo di garantire, a regime, ad almeno il 10 per cento del proprio personale, ove lo richieda, la possibilità di avvalersi di tali modalità.
Considerato il tempo trascorso dall’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015 è auspicabile che, in esito al monitoraggio, le amministrazioni, nell’esercizio dei poteri datoriali e della propria autonomia organizzativa, verifichino la sostenibilità organizzativa per l’ampliamento della percentuale di personale che può avvalersi delle modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa, tra cui in particolare il lavoro agile, anche ricorrendo alle misure di incentivazione sopra descritte.
Si invitano le amministrazioni in indirizzo a comunicare al Dipartimento della funzione pubblica – a mezzo PEC al seguente indirizzo: protocollo_dfp@mailbox.governo.it – le misure adottate, coerentemente a quanto chiarito nella presente circolare, entro il termine di sei mesi.

Il monitoraggio da parte del Dipartimento della funzione pubblica è finalizzato a verificare gli effetti delle misure normative, anche al fine di eventuali interventi integrativi o modificativi sulla disciplina di riferimento e sulla direttiva n. 3 del 2017.

Il sorpasso delle donne medico

i dati elaborati dal Ced della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri ci dicono che gli uomini sono sempre la maggioranza tra il personale medico – 212.941, il 66%, contro 168.241 colleghe -, lo scenario cambia negli under 65: le donne sono 139.939, il 52,72%, gli uomini 125.476.

Sotto i 40 anni le donne costituiscono quasi il 60%, e, tra i 30 e 34 e 35 e 39 anni, arrivano quasi a ‘doppiare’ gli uomini.

Situazione ribaltata tra gli over 70, dove il numero di uomini è cinque volte quello delle colleghe: 45.293, a fronte di 9.108 donne. Addirittura sei volte, tra gli over 75. Ma se la tendenza è in crescita (lo scorso anno si contavano 210.713 uomini e 163.336 donne), diminuisce la forbice tra i neoiscritti: sotto i 30 anni si è vicini al pareggio.

Stando ai dati di Anaao-Assomed, alle donne appare ancora preclusa la possibilità di fare carriera: solo una su 50 diventa Direttore di Struttura Complessa e 1 su 13 responsabile di Struttura Semplice.

Passeggiata d’artista…

Non sono mai stato un Sorcino e difatti in questi giorni piango su Facebook la perdita di Elisabetta Imelio dei Prozac+ che hanno caratterizzato con la loro musica indie i miei anni 90, però riconosco a Renato Zero una carica di novità che negli anni 70/80 ha percorso il pop italiano e poi, nel proseguio della sua vita una serenità di giudizio e anche un affetto verso la sua città, Roma dove ha provato più volte di costruire le condizioni per avere una città della musica.

E così non mi stupisco della sua passeggiata nel centro di Roma il giorno dopo il DPCM che per la prima volta nella storia della Repubblica ha sospeso l’attività di scuole ed università ponendo di fatto limiti alla nostra vita quotidiana e costringendoci al confronto ravvicinato con un morbo che colpisce sia il corpo che l’economia e la socialità soprattutto del nostro paese. Come tutti gli artisti ha colto subito il rischio più grande. E cioè la socialità, quella dei concerti, dei teatri, del cinema, dell’incontro in piazza a Roma, anche del – perdonatemi la parolaccia- del sano “cazzeggio” tra amici sotto il sole, anche d’inverno, che permette di prenderti comunque una pausa da tutte le ansie e le sofferenze di ogni giorno.

Questo virus ci costringerà per forza di cose a guardare il nostro Paese, e in prospettiva politica anche a discutere di come il coordinamento delle regioni, il rapporto con lo Stato, sia stato affrontato; di quali sono le strutture sanitarie e come funzionano, ma certo questi sono discorsi del domani, adesso c’è l’emergenza.

In questa emergenza che nasconde però- e speriamo di imparare a discuterne- tante altre emergenze che ogni anno affrontiamo magari senza la giusta mentalità e la giusta unità del paese: penso ai circa 3000 morti sulle strade( nel 2019 con +7% invertendo la rotta che era in diminuzione degli anni passati); ai 120.000 infartuati di ogni anno ( e molti grazie sempre alla pubblica sanità si salvano oggi) e 185.000 italiani colpiti da ictus….. E bene, in questa emergenza in cui siamo costretti a fare i conti con noi stessi con queste difficoltà di un anno che lasciamo correre sotto i nostri occhi questa passeggiata nella città è un gesto che forse dovrebbe essere guardato con attenzione della politica, anche soprattutto da quella romana così presa delle piccole questioni di ogni giorno e da una certa insensibilità a cambiare forse dovuta all’eternità della città ma anche ad un calo grave, una sorta di immunodepressione delle virtù civiche.

Se c’è una colpa che va fatta a questo Sindaco al di là di ogni singola questione su cui si può discutere è proprio l’aver fatto regredire il popolo romano nelle sue virtù civiche lasciando spazio all’idea che ogni quartiere sia abbandonato a se stesso, che ogni esistenza non è dentro la comunità romana, ma è singola e per certi versi disperata e disperante quando tocca le punte basse e le debolezze della povertà oppure dell’incomunicabilità.

La passeggiata di Renato Zero è certo un gesto d’artista, nulla più. Ma anche nulla di meno. E dovrebbe farci riflettere sulla necessità che una passeggiata per la città la facciano anche tutti coloro che hanno a cuore le sorti di questa grande metropoli che avrebbe bisogno di unità, di coerenza e di coraggio da dimostrare proprio in questi giorni più difficili per portarlo con sè magari – rinnovati nello spirito- anche nelle proposte che possano guardare ad un futuro migliore. Per tutti, per una comunità. per una città che merita di essere migliore.

Roma,”terzium non datur”

In questi giorni Roma si dibatte nell’ambiente sociale ed economico creato dalla presenza nella città del Corona-virus, difendendosi,peraltro, con energia, scienza e coscienza e limitando, fino ad ora ,i danni sul piano medico e su quello clinico.
Non è un pessimo risultato, questo, in specie se si considera il particolare ed unico contesto rappresentato dalla Capitale, nella quale avrebbero potuto incidere,e potrebbero ancora nel prossimo futuro, elementi strutturali e sovrastrutturali preoccupanti in termini di potenzialità e di possibilità di trasmissione del virus.

La Metropolitana insufficiente, la Rete Tramviaria tra le più estese in Europa, l’Università con il maggior numero di iscritti del Vecchio Continente, il il Nosocomio con il maggior numero di posti-letto,i Siti culturali,Turistici ed Archelogici, per citarne soltanto alcuni.
In questo clima psicologico,purtuttavia,prende ogni giorno più piede il dibattito sul futuro, ormai non lontano, della Amministrazione della città e dei suoi Municipi.
La tragicomica esperienza della Sindaca Virginia Raggi si avvia ad una fine che di non inglorioso sembra far registrare esclusivamente la durata, che,in realtà, nessun osservatore aveva previsto potesse protrarsi fino alla scadenza naturale della Consiliatura.

Fattore, quest’ultimo, che dovrebbe obbligare a qualche seria riflessione le forze della opposizione capitolina nella prospettiva della individuazione e della presentazione di una valida proposta di alternativa alla ventilata ricanditatura di Virginia Raggi e,comunque,a quella di un esponente del M5S, oggi partito apparentemente in caduta libera e quindi non in grado di giocare un ruolo importante nella partita per il Campidoglio,se non per il sostegno da dare,forse,ad uno dei due competitors al probabile ballottaggio finale.

Tra poco più di un anno, quindi,potrebbe riproporsi il confronto Sinistra-Destra e da qualche tempo ormai iniziano a girare, al riguardo, i nomi di possibili candidati, con la Destra che dovrà sciogliere il nodo della appartenenza del candidato tra un esponente della Lega,intenzionata ad aprire un suo fronte anche nella Città Eterna ed un rappresentante di Fratelli d’Italia, che a Roma ha storicamente sempre avuto una presenza evidente e da tutti riconosciuta.

A Sinistra, almeno per quanto attiene alla appartenenza del candidato Sindaco, la situazione appare decisamente più semplice,non essendo in discussione la primazia del Partito Democratico in ordine alla indicazione del candidato, seppur filtrato,secondo Statuto,da Primarie di partito o di coalizione.
Le complicazioni, per il Partito Democratico e per la probabile coalizione di Sinistra si appaleseranno al momento della individuazione del candidato medesimo, che, a meno di provvedimenti in deroga, dovrebbe comunque cercare e ricevere una conferma sul suo nome presso l’elettoratoche si recherà al voto alle Primarie.
Siamo, dunque,alle prime schermagli,ma diverse ipotesi sono già state formulate, ed alcune, ma non tutte, sono state puntualmente rigettate.

Carlo Calenda, uscito dal Partito Democratico subito dopo ultime le Elezioni Europee nelle quali è stato eletto nelle liste dello stesso Partito Democratico, considerato un candidato potabile in molti ambienti della Sinistra, forse più dall’elettorato che dall’apparato, ha cortesemente rinunciato ad ogni opzione in tal senso dichiarandosi molto a strutturare ed organizzare “Azione”, il partito da lui recentemente fondato.
Quasi contemporaneamente alla ribadita rinuncia di Carlo Calenda, in area Partito Democratico è stato fatto il nome, prestigioso, di Enrico Letta.

L’ex Presidente del Consiglio dei Ministri ha prontamente respinto l’assalto motivando il suo No con il suo “non essere romano” e con l’impegno da mantenere fino alla fine con la Scuola di Politica a Parigi.
L’unico a non rigettare a priori possibilità di una sua candidatura a Sindaco di Roma è stato,correttamente e coerentemente, Roberto Morassut, deputato, attualmente Sottosegretario all’Ambiente, ex Assessore nelle Giunte Veltroni, uomo di partito e di esperienza politica ed amministrativa.
Per molti il candidato naturale.

Ma il vero problema che si presenterà a breve al Partito Democratico sarà costituito dalla natura e dalla struttura della coalizione della quale si metterà a capo e da quale progetto di città intenda proporre ai romani.
Se il Partito democratico vorrà nutrire qualche speranza di rovesciare il tavolo e tornare al vertice della Amministrazione della città e della Area Metropolitana sarà necessario non limitarsi ad indicare agli elettori il nome di un candidato che potrebbe essere uno di quelli sopra citati o quello, rivoluzionario per Roma, di una donna come Sabrina Alfonsi, Presidente del 1° Municipio ,o Patrizia Prestipino, deputata al Parlamento, ex Assessore Provinciale ed ex Presidente dell’attuale 9° Municipio.

Entrambe preparate, capaci e sicuramente portatrici di elementi di forte innovazione politica ed amministrativa.
No, non basterà un nome, anche il migliore sulla piazza e nemmeno, per paradosso, quello di Renato Zero, come su qualche social viene suggerito dopo la sua intervista rilasciata l’altro ieri ala stampa nazionale.
Sarà necessario, per il Partito Democratico, presentarsi agli elettori romani con la forza tranquilla di una proposta politica moderna plurale, liberale, aperta alle istanze di tutte le componenti, culturali e sociali, economiche e finanziarie, produttive e burocratiche, centrali e periferiche, che hanno fatto di Roma un unicum al mondo.

Il modello “Gualtieri” trasferito dalla Zona a Traffico Limitato a Torbellamonaca, a Montespaccato, a San Basilio e a Prima Porta.
O fare così o assistere al quinquennio del declino finale della “Caput Mundi”.
Terzium non datur.

8 marzo. Perché la mimosa?

L’idea di una giornata internazionale dedicata alle donne nacque nel febbraio del 1909, quando gli Stati Uniti, su iniziativa del Partito Socialista Americano, cominciarono a porsi un dilemma: “è necessario istituire un simbolo dell’emancipazione femminile?”. Nel settembre del 1944 l’UDI (Unione Donne in Italia) lavorava per concertare i festeggiamenti per una giornata interamente dedicata alla donna.

L’8 marzo fu fortemente voluto dai componenti del PCI, del PSI e del Partito d’Azione, come ricorrenza che rimandasse, anno dopo anno, al sacrificio culturale e politico del genere femminile, nel suo tentativo di autodeterminazione da quello maschile, fortemente radicato all’interno della società occidentale, grazie a secoli di cultura fondata sul patriarcato, retto nel trinomio “Dio, Patria e Famiglia”.

Due anni dopo, in occasione della vigilia di quella nuova festa “privata”, la pedagogista Teresa Mattei, l’ex partigiana Teresa Noce e la comunista Rita Montagnara proposero la Mimosa come fiore simbolo di quella giornata, in alternativa ad altri come, ad esempio, la rosa. La mimosa, pianta acacia, particolarmente resistente, rimanda alla Resistenza (quella della pianta ma anche a quella politica) poiché, anche se bruciata, la pianta spesso rinvigorisce. E’ anche un simbolo molto utilizzato dagli ambienti liberali e filomassonici, gruppi che sostennero particolarmente sia l’antifascismo che l’emancipazione femminile. Tuttavia la festa rimase solo una commemorazione privata.

Negli anni ’50 distribuire le mimose in strada era proibito, perché considerato un atto contro l’ordine pubblico. Le attiviste del movimento femminista italiano compresero da subito l’alto valore simbolico della mimosa, il potente messaggio che, ancora una volta, turbava i delicati nasi dell’ambiente politico, a quel tempo ancora fortemente dominato da uomini conservatori.

Fu soltanto nel ’72 che la manifestazione ebbe un rilievo nazionale, appoggiata da gran parte del mondo politico e culturale. L’8 marzo di quell’anno venne celebrata nell’evocativa piazza di campo de’ Fiori (sede della statua di Giordano Bruno) la festa delle donne, alla presenza dell’attrice newyorkese Jane Fonda, ancora oggi impegnata, dopo tanti anni, nell’attivismo politico e sociale. Buona festa a tutte le donne. A voi tutte un pensiero, una mimosa, un bacio sulla mano.