Home Blog Pagina 1102

Tommie Smith e John Carlos: The Black Power

Ci sono foto che resteranno nella nostra memoria nonostante non si fosse ancora vivi per seguire da vicino quegli eventi. Gli esempi sono infiniti. Ma solo alcune riescono a raccontare un evento o un periodo storico nella sua interezza attraverso un click.

Siamo nel 1968, anno della primavera di Praga, degli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy, anno delle impiccagioni di neri in Rhodesia e in Sudafrica, e del maggio francese.

Le Olimpiadi vennero organizzate in Messico. L’evento non si aprì senza molte polemiche.

Infatti, il 2 ottobre 1968, dieci giorni prima dell’apertura dei Giochi, nella Piazza delle Tre Culture a Città del Messico, durante una manifestazione, i soldati iniziarono a sparare ad altezza d’uomo. Fu una strage.

Ne rimase coinvolta anche Oriana Fallaci, che fu creduta morta e portata in obitorio e, solo grazie all’intervento di un prete, che si accorse che era ancora viva, si salvò.

In questo il clima iniziarono le XIX Olimpiadi.

Un contesto “peggiore di quelli che ho visto alla guerra”, come disse la stessa Fallaci.

Tutto questo, in una data che rimarrà impressa nella storia delle Olimpiadi, il 17 ottobre 1968, portò Tommie Smith e John Carlos, durante la cerimonia di premiazione, a compiere quella che, probabilmente, è ricordata come la più famosa protesta della storia dei Giochi olimpici.

Salirono sul podio scalzi e ascoltarono il loro inno nazionale chinando il capo e sollevando un pugno con un guanto nero, a sostegno del movimento denominato Olympic Project for Human Rights (Progetto olimpico per i diritti umani) e, più in generale, del potere nero.

Smith, nato nel Texas, settimo di undici figli, aveva 24 anni e veniva da una famiglia in cui il padre raccoglieva cotone. Carlos, 23 anni, era figlio di un calzolaio, nato e cresciuto ad Harlem.

Nella cerimonia tutto fu fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indice della povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos si mise al collo (ogni pietra era un nero che si batteva per i diritti ed era stato linciato).

Non saranno solo loro, però, che a Città del Messico protesteranno. L’atleta Vera Càvlaska, ginnasta ceca, sul podio “chiuse gli occhi e abbassò il capo in segno di tacita protesta” per la repressione seguita alla primavera di Praga.

Salvini e Famiglia Cristiana, e i cattolici dove sono?

La recente polemica tra il capo della Lega Salvini e Famiglia Cristiana non e’ la sola che costella il confronto, articolato è difficile, tra il mondo cattolico e la nuova maggioranza di governo. Certo, questo è stata la più eclatante perché ha investito direttamente il vice Premier e un organo di stampa importante per il prestigio della testata e per l’autorevolezza delle tesi sostenute.

Ma, al di là di questa polemica, quello che emerge in modo sempre più evidente da questo scambio di opinioni non è tanto la virulenza del confronto quanto l’assenza di un interlocutore politico che sappia interpretare, laicamente, una ispirazione, una cultura, un modo d’essere che in questi anni si sono pericolosamente seppur inconsapevolmente eclissati nella dialettica politica italiana.

Perché se è positivo, nonché corretto, che la stampa cattolica nelle sue multiformi espressioni partecipi al dibattito sulle principali scelte politiche della maggioranza di governo di turno, e’ altrettanto importante per i cattolici riscoprire una partecipazione politica diretta, attiva, consapevole e incisiva.

Del resto, e’ noto a tutti – e ormai lo diciamo da tempo, ma lo dicono anche tutti i principali osservatori delle cose politiche italiane – che questa presenza politica e culturale nei partiti tradizionali si è del tutto affievolita ed è radicalmente inespressiva sotto il profilo della progettualità e dell’incidenza politica. Tramontati i partiti plurali come il Partito democratico e Forza Italia, ridotti al lumicino e all’insignificanza le varie sigle elettorali come l’Udc, l’unico compito a cui i cattolici popolari e democratici debbono assolvere oggi è quello di attrezzare ed affinare una rinnovata presenza politica organizzata e diffusa territorialmente. Non ci sono più alternative realisticamente percorribili a questa prospettiva. Il tempo della testimonianza, delle divisioni pretestuose ed impotenti, della delega alla gerarchia per affrontare e cercare di risolvere i problemi sul tappeto appartengono ad una stagione che ormai è alle nostre spalle.

È francamente imbarazzante, nonché singolare, continuare ad assistere ad un confronto tra le nuove formazioni politiche populiste, o di destra o di sinistra e il mondo cattolico senza la presenza di uno strumento politico pertinente, cioè un partito di quest’area culturale. È’ inutile continuare ad aggirare l’ostacolo.

La priorità politica, dopo il voto del 4 marzo e dopo i pronunciamenti e le scelte concrete del governo pentaleghista, richiedono una rinnovata presenza cattolico democratica e popolare nello scenario politico italiano. Una presenza facilitata anche da un patrimonio culturale, politico, sociale e forse anche etico che affonda le radici in quel cattolicesimo politico che per troppi anni anni e’ stato sottovalutato o ritenuto ormai un pezzo di antiquariato.

E proprio la rilettura di uno dei caposaldi di questo pensiero, e cioè il popolarismo di Luigi Sturzo, a cent’anni dal famoso “appello ai liberi e forti” può e deve rappresentare uno stimolo potente per recuperarlo e declinarlo nella società contemporanea. Sarebbe curioso, infatti, se in un clima di ritorno delle identità politiche e culturali solo il pensiero cattolico popolare brillasse per la sua assenza ed inconsistenza.

Ci troveremmo in una situazione dove l’assenza dalla politica dei cattolici non avviene per una imposizione della gerarchia, ma per manifesta incapacità del laicato. Ecco perché, adesso, e’ opportuno esserci.

Sturzo e Giretti: risposta a Palladino

Giovanni Palladino, proseguendo sulle orme del padre Giuseppe, economista ed esecutore testamentario di Sturzo, porta avanti da anni il suo qualificato impegno intellettuale come cultore della memoria di don Luigi. Anche solo per questa ragione, né piccola né banale, devo essere grato per l’attenzione da lui prestata al mio recente intervento sulla “opzione sturziana” – confesso, per me sorprendente! – di Marco Taradash. Con parole garbate, di cui lo ringrazio, ha voluto tuttavia sollevare una obiezione cruciale, che merita una ricognizione e una replica.

Ecco, dunque, quello che ha scritto nel suo intervento riproposto ieri dal nostro giornale online. “Il Direttore de “Il Domani d’Italia”, nello scrivere un equilibrato e in definitiva favorevole commento alla svolta sturziana di Marco Taradash (svolta che tuttavia non è una sorpresa, perché già compiuta da tempo), fa due riferimenti non corretti. Nel primo, non solo storpia il cognome di Gobetti con Giretti, ma sembra fare del giovane Gobetti il leader di una scuola radical-democratica alla quale avrebbe aderito anche Sturzo, nato ben 30 anni prima di Gobetti”.

Ora, con altrettanto garbo, vorrei replicare all’obiezione del mio interlocutore. Naturalmente non ho proposto una lettura incongrua di Sturzo, trasformandolo in un radicale pannelliano ante litteram. Semmai ho posto l’accento sulla convergenza di giudizi tra il sacerdote calatino e alcuni democratici radicali degli anni ‘20, specie sul punto dell’antigiolittismo e quindi sulla polemica contro la politica statalista, di fatto corriva con gli interessi monopolisti dei grandi gruppi industriali del nord, a tutto danno del Meridione.

Salvemini e Sturzo, ad esempio, convergevano sulla battaglia tesa ad affrancare l’economia e la politica italiana dal blocco di potere giolittiano, salvo il bon ton del fondatore del Ppi, che a differenza di Salvemini mai avrebbe chiamato “Ministro della malavita” lo statista di Dronero. Ciò nondimeno la forte personalità di Sturzo non consente di confondere, né in sede storiografica né in ambito strettamente politico, il cattolico sociale con il democratico radicale. I due rimarranno se stessi, facendosi entrambi paladini della libertà e della democrazia, ma certo con premesse e contenuti ideali affini e diversi, tanto prima quanto dopo l’avversata esperienza della dittatura mussoliniana.

Ora, se mi è consentito, devo ricorrere a una citazione di Sturzo per non soccombere all’accusa più antipatica rivoltami da Palladino, quella cioè di aver storpiato il cognome Gobetti in Giretti, tanto da associare in maniera inopinata il leader popolare al giovane e combattivo fautore della “Rivoluzione liberale”. Mi dispiace, non è affatto una storpiatura e non mi sono confuso. Edoardo Giretti è stato un economista e uomo politico, di matrice appunto liberista, aderente al Partito radicale del pre-fascismo (non omologabile, questo, al posteriore partito di Marco Pannella). Sturzo lo chiarisce da par suo in un articolo pubblicato su “La Via” il 6 ottobre del 1951 (ora in Opere scelte di Luigi SturzoII Stato, Parlamento e partiti, Bari 1992, pp. 119-124). La lettura cancella ogni dubbio e chiarisce, fin dal titolo (Un “liberista” fuori stagione) quale fosse la “vera” posizione di Sturzo, mai sostanzialmente modificata nel corso della propria vita.

“Secondo il prof. Ernesto Rossi – esordisce in questo suo illuminante scritto l’ideatore del popolarismo – io sarei un liberista manchesteriano di cento anni fa. Non c’è dubbio che io sia stato sempre coerente ad un ideale temperatamente “liberista”, fin da quando, sull’altra sponda, mi trovavo sulla medesima linea di Napoleone Colajanni, combattendo contro il dazio sul grano, e partecipando alla corrente guidata da Edoardo Giretti. Però, e prima e dopo il fascismo – continua Sturzo -, in Italia e all’estero, ho sempre ammesso e, occorrendo, sostenuto apertamente, un equilibrato intervento statale a fini politici e sociali ben chiari e determinati”.

Dunque, questo era il modello a cui il primo segretario del Ppi sentiva di appartenere, senza tema di abiura o misconoscimento anche a molti anni di distanza dall’incontro, amichevole e dialettico, con i liberisti alla Giretti. Spero allora di aver contribuito a far chiarezza, ben al di là, s’intende, di questioni formali, ovvero di presunti errori che avrebbero intaccato alla radice, ove confermati, la mia sintetica valutazione in ordine a tale decisivo aspetto del pensiero e l’opera di Luigi Sturzo.

Lo sforzo di precisazione non ha nulla di lezioso. In vista del centenario, il prossimo 19 gennaio 2019, dell’Appello ai liberi e forti, abbiamo necessità di non appiattirci sulla canonica e dunque ripetitiva rappresentazione di Sturzo. Urge interpretare e capire, con spirito nuovo, il grande significato dell’invenzione sturziana, ovvero il popolarismo. L’intuizione della sua originalità, tuttora valida per il suo carattere di dottrina politica incentrata sulla libertà e la responsabilità, ha bisogno di essere inverata in una proposta di riaggregazione dell’area dei democratici, portando a sintesi i contributi migliori provenienti dai progressisti e dai conservatori

La città; la mia casa

In agosto le città respirano, anche loro! Molte case di residenza abituale si svuotano almeno per alcuni giorni, perché “si va in ferie”.

Da quelle bellissime e comode fino ai tuguri (purtroppo esistono) gli abitanti che vi alloggiano le considerano il tetto protettivo, il luogo di tutte le esperienze esistenziali, serene o drammatiche: di felicità e di dolore.

Sulla casa, e sulle case, si può dire di tutto e la letteratura, non solo sociologica o architettonica, descrive modi di abitare che fanno sintesi di mondi, di contesti, di sentimenti. Tanti palazzi sono somme di case, che costituiscono il tessuto urbano. Dove ci sono abitazioni scorre la vita della città.

Ogni amministratore comunale avverte che la città non è solo territorio, ma “una casa comune in cui tutti gli elementi che la compongono sono organicamente collegati; come l’officina è un elemento organico della città, così lo è la Cattedrale, la scuola, l’ospedale. Tutto fa parte di questa casa comune. Vi è dunque una pasta unica, un lievito unico, una responsabilità unica che è collegata ai comuni doveri.” E ancora Giorgio La Pira, venerato sindaco di Firenze negli anni 50, esortava i cittadini della nuova città satellite dell’Isolotto “Amate questa città come parte integrante, per così dire, della vostra personalità. Voi siete piantati in essa e in essa saranno piantate le generazioni future che avranno in voi radice. È un patrimonio prezioso che voi siete tenuti a tramandare intatto, anzi migliorato ed accresciuto, alle generazioni che verranno”. Ogni città – aggiunse –racchiude in sé una vocazione ed un mistero. Amatela dunque come si ama la casa comune destinata a voi e ai vostri figli”.

Una grande responsabilità, non solo per gli amministratori, perché la città è di tutti anche se non se ne è pienamente consapevoli.

È vero che anche le nostre case possono essere modeste e, per molte persone per le più diverse circostanze, non sono nè linde nè lussuose; tuttavia è comune il sentimento di protezione che inducono. Chissà perché non dobbiamo coltivare lo stesso sentimento nei confronti della nostra città, che sia metropoli o borgo.

Osservando lo stato di salute dei nostri territori non possiamo non sentirci colpevoli, singolarmente e tutti insieme, per il disimpegno, l’indifferenza e il maltrattamento che dedichiamo. La città non si sporca da sola e costa molto pulirla. È un’affermazione di Lapalisse, eppure la maleducazione regna sovrana. Vediamo persone che gettano per terra mentre camminano, o dai finestrini, quando sono in auto, qualsiasi oggetto. Lo faremmo a casa nostra? La fatica di scaricare gli ingombranti sul ciglio delle strade sarebbe la stessa anche per raggiungere un’isola ecologica… è proprio la testa che manca!

Mancano anche i controlli! Se fioccassero un po’ di multe salate (forse non basta uno per educarne tanti), i Comuni otterrebbero due vantaggi: economico ed ecologico.

Non mi nascondo che la prima responsabilità per la gestione ordinata della città è dei suoi amministratori. Questi devono amare la loro città, conoscerla in ogni meandro: la periferia è città come il centro storico. Si muovano per il territorio; verifichino quali sono le vicissitudini dei cittadini che affrontano quotidianamente il traffico. Conoscerebbero semafori collocati in modo sbagliato, le buche delle strade, gli alberi malati, i tombini ostruiti di tutto, le pedonalizzazioni che ‘uccidono’ la città perché rendono più difficile e lento il traffico, per cui si inquina anche di più e si consuma più energia.

Se il sindaco e tutti gli amministratori si immedesimassero nei propri concittadini non renderebbero impossibile utilizzare i mezzi di trasporto pubblico la cui velocità commerciale è uguale a quella pedonale, perché troppi pullman turistici e panoramici rovinano la città. Ci sono parcheggi di scambio fuori città. A Roma, per esempio, durante il giubileo 2000 i pullman non entravano in città: sarebbero stati uno sfacelo. Gli amministratori hanno un esempio da copiare. Vale anche il ricordo del Giubileo 2000 (sindaco Rutelli): agli amministratori non giunse un avviso di garanzia e furono molte le opere. Sarebbe stato così anche per le Olimpiadi a Roma. Sarebbero giunti finanziamenti utili al restayling della città. Inutile temere la corruzione se si è incorruttibili. In questo ambito sarebbe bello poter finalmente constatare che per le opere pubbliche le gare prevedano date e fondi certi, altrimenti non si avviino. Ai ritardi corrispondano pesanti penalità e si preveda di lavorare giorno e notte, per rispettare i tempi di consegna e risparmiare disagi ai cittadini utenti.

Salvini e Famiglia Cristiana: uno scontro che viene da lontano

Lo scontro tra Matteo Salvini e Famiglia Cristiana data da lontano, e non solo perché da sempre i vertici leghisti, da Irene Pivetti in poi, hanno sempre vissuto con insofferenza la linea del settimanale dei paolini. Si tratta di due mondi che si guardano con sospetto e incapacità di capirsi, con lo stesso spirito con cui i seguaci di Paolo IV si studiavano con Sadoleto e gli erasmiani.

La tentazione di mettersi a fare il tifo è fortissima. Sarebbe però un errore. È vero che la linea adottata dal ministro dell’interno verso migranti e Rom è contraria alle basi stesse non solo della religione cristiana, ma dell’umanesimo che è la radice della nostra cultura (anche di quella sanamente laica). Allo stesso tempo è difficile immaginare che quella copertina contribuisca a indebolirne l’azione, o a creare un risveglio delle coscienze di quei moltissimi italiani che non riescono a provare un briciolo di umana pietà di fronte agli occhi di Josepha che viene strappata alle acque. Verrebbe da dire: trent’anni di politica e vita comune private dei valori cristiani non sono passati senza lasciare traccia. E a questa costante scristianizzazione Salvini, e Bossi prima di lui, hanno contribuito volontariamente e volenterosamente. Partito povero di idee, tradizionalmente, la Lega ha oscillato culturalmente dal neopaganesimo delle ampolle del dio Po al vangelo e rosario sbandierati 48 ore prima di un voto. Se ci si svuota di Dio si è pronti a riempirsi di qualsiasi cosa in un batter di ciglia: e così Salvini non ha avuto problemi a divenire l’ultimo ed il più perfetto degli atei devoti. Categoria, quest’ultima, che in passato è piaciuta tanto anche alle gerarchie, e mal gliene incolse.

Proprio per questo lo scontro tra Salvini e Famiglia Cristiana andava evitato. Astutamente (e per favore evitiamo di ricordarci che i figli delle tenebre sono molto più astuti dei figli della Luce) Salvini, dopo un primo sbotto di bile, ha corretto il tiro e parlato di perdono nei confronti di chi lo accusa. Artificio retorico che puzza di falso lontano un miglio, ma perfetto nel fornire a chi, tra i cattolici, è in cerca di un appiglio seppur minimo per dargli ragione. Come dava ragione a Oriana Fallaci, che ne “La rabbia e l’orgoglio” si atteggiava (lei, che più laica non si poteva) a più cattolica della Chiesa di Roma; o anche a Giuliano Ferrara che nel nome dei valori di un Occidente cristiano – perché posto ad ovest di Gerusalemme – ci spingeva alla nuova crociata contro Saddam Hussein. Esistono cattolici che hanno sostenuto in passato la tesi della punizione divina dietro cataclismi naturali come il terremoto in Giappone di alcuni anni fa: orecchie del genere sono sempre in attesa costante di una parola che giustifichi una totale mancanza di comprensione e approfondimento del messaggio evangelico.

Ma di fronte a uno schieramento del genere la maniera più efficace di porsi non è quella del tono apocalittico. Accostare Salvini a Satana è come usare l’atomica contro uno sciame d’api. Fa di più il fumo della canapa. Vale il precedente di Berlusconi, che si indebolì definitivamente agli occhi del mondo cattolico solo quando esplose l’evidente incoerenza tra le pile baciate e i comportamenti privati, tra le perdonanze di Celestino e le cene con le olgettine. Ci vuole tempo, perché i tempi maturino. Magari qualcuno non capirà mai, e sarà pronto a danzare attorno al prossimo totem. Ma andando di clava, in questo momento, si rischia di rafforzare Salvini, e le sue false soluzioni.

Intendiamoci: avere il coraggio di indignarsi è cosa positiva. L’immediata scomunica, però, può essere dannosa per una giusta causa come è quella di riportare il livello culturale di questo Paese un po’ più vicino alla decenza. Ambrogio fece bene ad affrontare Teodosio dopo il massacro di Tessalonica, parlando delle sue mani sporche di sangue. Fece altrettanto bene Paolo VI a promuovere la strategia della lenta penetrazione a sostegno delle chiese del silenzio, sottoposte al giogo comunista.

Un’ultima riflessione può essere dedicata, dopo la citazione paolina, al progetto dei cattolici in politica. Colpisce che dalle colonne de Il Giornale un sacerdote e teologo parta proprio dal caso Salvini-Famiglia Cristiana per ribadire il suo no ad ogni progetto riaggregatore. C ‘è già Salvini che difende i veri valori, dice. Coetera tolle.

Bene, vuol dire che siamo dalla parte giusta.

Le poesie tengono compagnia e ci aiutano a capire il mondo

Giorgio Rodano

Una volta, durante un’intervista televisiva, Italo Calvino, uno scrittore italiano del secolo scorso, consigliò alle giovani generazioni di imparare poesie a memoria, “perché tengono compagnia”. Ormai quel consiglio viene seguito ben poco (o forse affatto). Ma è un peccato. Nella mia esperienza le poesie tengono davvero compagnia. I versi dei poeti tornano improvvisamente alla mente, illuminando in modo inatteso e mai banale qualcosa dell’attualità. E ci costringono a pensare. La poesia che segue mi è tornata in mente riflettendo sulle drammatiche vicende dei migranti che cercano di approdare alle nostre coste in cerca di un futuro migliore. Questa poesia è stata scritta alla fine degli anni quaranta del secolo scorso, e descrive l’umanità dei lager nazisti. Ma la misteriosa capacità dei poeti è quella di parlarci di cose che ci riguardano anche al di là della lettera di quel che hanno scritto. In questa poesia amara e terribile Primo Levi ci sta parlando anche di una umanità derelitta dei nostri giorni. E ci sta parlando del nostro atteggiamento.

Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

Primo Levi

[Post dell’autore su Fb. Il titolo è redazionale]

Tornare coerentemente sulle orme di Sturzo

Pubblichiamo l’articolo apparso sulla rivista “Servire l’Italia” che s’inserisce, criticamente, nel dibattito aperto dall’articolo sulla  “svolta sturziana“. Seguirà a breve la risposta di Lucio D‘Ubaldo

È un fatto positivo che l’avvicinarsi del centenario (1919-2019) del doppio evento sturziano (fondazione del PPI e Appello ai liberi e forti) stia riportando una meritata attenzione sul pensiero del grande sacerdote e statista di Caltagirone. Ma l’attenzione deve essere corretta nel rispetto del suo effettivo pensiero.

Il Direttore de “Il Domani d’Italia”, nello scrivere un equilibrato e in definitiva favorevole commento alla svolta sturziana di Marco Taradash (svolta che tuttavia non è una sorpresa, perché già compiuta da tempo), fa due riferimenti non corretti. Nel primo, non solo storpia il cognome di Gobetti con Giretti, ma sembra fare del giovane Gobetti il leader di una scuola radical-democratica alla quale avrebbe aderito anche Sturzo, nato ben 30 anni prima di Gobetti.

Ovviamente Sturzo non fu mai un radicale, nel senso politico del termine, pur se Pannella fu poi un suo incoerente ammiratore.

Nel secondo riferimento, Lucio Alessio D’Ubaldo sembra fare di Moro uno sturziano e di Sturzo un anti-liberista. In effetti nella citata commemorazione fatta da Moro in Parlamento nel settembre del 1959, Sturzo venne lodato dall’allora Segretario Politico della DC per la sua vita di combattente in difesa della moralità in politica ed economia, e in favore degli ideali di giustizia e libertà, opponendosi dapprima al liberalismo giolittiano e al fascismo, poi al comunismo e al socialismo.

Tuttavia in quel discorso Moro non citò il fatto che Sturzo era solito definirsi un “liberista impenitente”, specificando che il suo liberismo non era quello irresponsabile del “lasciar fare , lasciar passare” del giolittismo, ne’ quello miope della Confindustria degli anni ‘50 (ma anche dei decenni successivi), che si opponeva alla stretta alleanza tra capitale e lavoro, stretta alleanza invece sempre sostenuta dalla dottrina sociale della Chiesa e realizzata da grandi imprenditori come Adriano Olivetti e Michele Ferrero.

Poi Moro abbandonò le sue convinzioni anti-comuniste (espresse in diversi discorsi fatti negli anni ‘50), ebbe fede nelle capacità dello Stato imprenditore e banchiere, e decise di aprire a sinistra, apertura sempre osteggiata da Sturzo per motivi innanzitutto morali. Questi era giustamente convinto che quanto più la politica mette le mani nell’economia, tanto più politica ed economia corrompono e si corrompono.

Quindi ben venga la “resurrezione” del pensiero sturziano dopo la “sepoltura” decisa coerentemente dalla DC con la politica di centro- sinistra, che andava in direzione contraria a quella auspicata da Sturzo. Ma è una “resurrezione” che esige vera coerenza nella difesa dei valori morali, liberali e sociali (non socialisti) in cui credeva Sturzo. Non basta dire che oggi il suo Appello è ancora attuale, va attualizzato. Senza dimenticare che una delle prime decisioni di Mussolini fu quella di rimettere il crocifisso (dopo oltre 50 anni) in tutte le aule scolastiche per far capire a Pio XI che non aveva bisogno del PPI per difendere i valori cristiani. Poi sappiamo come è andata, a dimostrazione del fatto che quei valori più che appesi al muro devono essere impressi coerentemente nei cuori.

 

Don Luigi Sturzo tra Marco Taradash e Lucio D’Ubaldo

Caro Lucio,

conosco, in realtà mi ritengo suo amico, Marco Taradsh da cinquant’anni, da quando lui, giovane liberale,  ed io altrettanto giovane, ma democristiano, ci confrontavamo quasi quotidianamente con i nostro coetanei livornesi, comunisti e socialisti, ai quali cercavamo di spiegare i limiti delle loro visioni manichee.

Erano i tempi della contestazione studentesca e pensavamo, tutti quanti, di cambiare il mondo superando le barriere create dai fronti contrapposti del dopoguerra. In una città, sia detto per inciso, che fu proprio l’ultima a rompere la regola delle amministrazioni da Cnl del dopoguerra e a subire la logica della rigida contrapposizione tra sinistra social comunista e tutti gli altri.

Ricordo di Marco la passione nel suo riferirsi a Piero Gobetti e alla possibilità di una “ rivoluzione liberale” e, così, non mi meravigliai di ritrovarlo a Roma,  anni dopo, tra i più vicini a Marco Pannella.

Gobetti lo stavo allora studiando in relazione al  suo interloquire con Giuseppe Donati, don Luigi Sturzo e Francesco Luigi Ferrari. Rapporti forti su cui è sceso un silenzio impressionante, perché l’originale pensiero liberale di Gobetti “ disturbava” anche molto mondo laicista. Paradossalmente, noi giovani dc di allora avevamo, invece, tra le nostre letture gli scritti di un liberale come Gobetti.

Così, il riferimento di Taradash  a don Sturzo, dopo cinquant’anni, non mi lascia indifferente e mi stimola, come ho visto che ha provocato le tue importanti riflessioni. Abbiamo un’occasione di analisi vera, lontana dalla opprimente, a volte persino vacua, polemica quotidiana che caratterizza l’attuale fase  italiana.

Contrariamente a chi ritiene che si parli di cose da “ iperuranio”, lontane dalla sensibilità della gente di oggi, credo che il vero sforzo da fare in questi tempi sia, invece,  quello di riprendere i fili tranciati delle grandi scuole di pensiero che, ancorché apparentemente elitari anche allora, hanno permeato sin dagli inizi del ‘900 l’intero Paese e ne hanno reso possibile un più alto ed autentico sbocco democratico. In una prima fase, dopo il ’19,  interrotta dal fascismo, e, poi, definitivamente nel secondo dopoguerra.

Checché se ne dica, sono le idee  a muovere le donne e gli uomini. Alle idee dobbiamo ritornare se vogliamo salvare un Paese smarrito,  cui è necessario ritrovare una propria identità e, persino, le basi di un forte assetto democratico condiviso e del senso di un comune vivere civile.

Don Luigi Sturzo le chiamava “ correnti ideali”. Quelle che  egli contrapponeva al “ pragmatismo politico, esperimentato dalla borghesia”  che finì per darci il fascismo.

Il pragmatismo politico, disse con grande lungimiranza Sturzo, “ inquina e corrompe la cosa pubblica, alimenta ed incrementa il girellismo, rende inconsistente  e vuote le correnti ideali, e disfa la classe dirigente che non ha più la forza per resistere agli urti delle masse organizzate e del nazionalismo esasperato”. Oggi, dovremmo aggiungere i grandi gruppi finanziari e le “ lobbies”, più o meno, rese  nobili dall’importanza degli interessi che le muovono.

Il tuo articolo di ieri,  “Taradash a sorpresa sulle orme di Sturzo” , mi ha subito spinto a riflettere sul fatto  che bisognerebbe, davvero, per la parte nostra, poter approfondire tanta parte del pensiero di don Luigi. Un pensiero  da affrontare nella sua globalità, perché come scrisse Moro nel 1960, ” Tutto unì e conciliò nella sua coscienza, tutto accettò nell’ordine, tutto visse nel suo particolare significato ed insieme inserito nell’ordine totale”.

Si tratta, dunque, di non ridurre ad uno una complessità ed un’ampiezza di visione che fanno di lui uno dei più grandi pensatori del secolo passato.

La concezione dello Stato in Sturzo, infatti, è articolata, perché lo Stato è inteso come organismo che “ vive della stessa vita di coloro che ad esso imprimono le direttive e l’impronta“. Uno Stato, dunque, non “ ente astratto”, neppure “ principio etico”, bensì “organismo concreto”, fatto di persone vere. Sturzo muove la sua idea di Stato  dal presupposto che esso trovi dei limiti nella sfera della propria competenza nei rapporti con la vita sociale, le cui dinamiche non sono, certo, esaurite nella sola organizzazione politica della società.

Non a caso scrisse: ” Non è lo Stato che crea ex nihilo un ordine, perché la politica non può creare l’etica; ma è lo Stato che riconosce un ordine etico sociale che gli uomini elaborano ed esprimono perché soggetti razionali”. Da qui nasce la sua negazione dell’assolutizzazione della presenza e del ruolo dello Stato.

Egli, però, supera anche la visione liberale dello Stato perché , oltre all’assoluta salvaguardia della libertà individuale, devono essere assicurate l’uguaglianza e la giustizia sociale.

In Sturzo, come ricordò tanti anni orsono Piero Pratesi, la riflessione sullo Stato significa impegnarsi in un  profondo mutamento dei rapporti tra i cittadini ed il potere centralistico, attraverso il dispiegarsi di una società “ pluralista” composta da “ varie società interne di cui lo Stato avrebbe dovuto garantire libertà e che avrebbe dovuto mantenere nell’ordine”.  

Una visione che niente aveva a che fare con quella liberale tradizionale del “ giolittismo”, o meglio, che ne coincideva solo per alcune parti,  e che costituì il motivo del suo continuo, fecondo interloquire, così come avveniva a Donati e Ferrari, con Piero Gobetti e con altri del mondo liberal democratico, radicali e socialisti, a partire dal conte Sforza e da Gaetano Salvemini.

L’attenzione del prete di Caltagirone, infatti, andava alle donne e agli uomini visti quali esseri concreti; andava al loro unirsi ed organizzarsi spontaneamente in un impegno, soprattutto al sud, ma non solo, di riscatto e di partecipazione; andava  verso le organizzazioni intermedie della vita civile, all’autonomia degli enti locali, alle leghe bianche dei contadini, alle cooperative, alle banche popolari, alla borghesia lombarda d’impronta manzoniana e a quella delle principali città italiane che sfuggiva alla logica massonico anticlericale.

Ciò portò Sturzo a concepire un’idea di impegno dei cattolici democratici in politica inteso come movimento capace di puntare ad una democrazia “ che prenda dai liberali la libertà, una libertà per tutti; dai radicali le riforme, ma non il materialismo e la lotta anticlericale ( vera e propria istantanea di Piero Gobetti , nda); dai socialisti la elevazione del proletariato, ma non la dittatura. La democrazia cristiana- scrisse-  è in sostanza una democrazia integrale, illuminata dai valori immortali di solidarietà e fraternità, dati dal cristianesimo, per il concorde progresso delle classi e dei popoli”.

C’è dunque molto da riflettere e studiare per rinnovare la sostanza ed il metodo di analisi e proposta politica di don Sturzo ed è molto positivo il fatto che dei laici sensibili portino un contributo in questo senso. Come ha fatto Marco Taradash, il quale ti ha risposto  valutando la tua come “Una riflessione senza pregiudizi e intelligente sulla prospettiva che Centromotore (il nuovo movimento fondato da Taradash, nda)sta aprendo in Italia. Da sviluppare e tradurre presto in iniziativa politica comune.”

E’ indubbio, lo dicevo prima, che questo bisogno di riflettere necessita di approfondimenti comuni, di scambi  fecondi di opinioni. E’ il primo passo da intraprendere per dissodare un campo incolto, dopo decenni di impoverimento culturale e politico e per portare ragionevolezza e un ordine mentale collettivo in cui possano essere riscoperte chiare priorità sia nei diritti, sia nei doveri.

Noi cattolici democratici ci riferiamo alla continua evoluzione del pensiero che chiamiamo Dottrina sociale della Chiesa. Un insieme organico di suggerimenti, sollecitazioni e suggestioni , che potrebbero valere non  solo per i cattolici, per la forza dirompente di un messaggio che mette al centro la persona, la dignità umana, la valorizzazione di quelle “ società interne” cui si riferiva Sturzo e di molto altro frutto dell’articolata visione che gli uomini di Chiesa hanno grazie alla loro conoscenza di situazioni e fenomeni che interessano l’intero mondo.

La questione sociale è diventata antropologica, dopo una crisi economica  che ha prostrato stati e popoli, e si aggiunge così alla questione della Pace, al rispetto della vita umana, sin dal concepimento. Si aggiunge a quella della famiglia, che per noi nasce attorno all’amore tra una donna ed un uomo, al di là del fatto che il suo riconoscimento avvenga in Chiesa o in un ambito civile. Si aggiunge alla riflessione sul ruolo della scienza e delle sue influenze potenziali sull’essere umano, soprattutto a seguito di applicazioni tecnologiche che, partendo dal bene, possono portare anche  al male: la bomba atomica ne è l’esempio più clamoroso; cui si aggiunge, però, subito dopo , molta sperimentazione bio etica dagli sbocchi potenzialmente disumani.

Credo che un confronto, un arricchimento reciproco, la condivisone di importanti impegni politici e programmatici,  possa essere avviato a partire da tutto ciò. Superando antiche preclusioni, stereotipi, pregiudizi e preconcetti, ma sulla base di mettere  al centro la persona tutta intera e tutta la sua ricchezza di connessioni e vitalità all’interno di una società da rendere davvero democratica ed uguale, come auspicavano sia Sturzo, sia Gobetti, sia Salvemini.

I democratici e l’appello di Sturzo

Articolo apparso già su  HuffingtonPost

Non è un caso che attorno al pensiero di Sturzo, in vista del centenario dell’Appello ai liberi e forti (19 gennaio 2019), si sia aperta una discussione dai tratti vivaci, capace di offrire per altro alcuni spunti di novità.

Al popolo dei credenti aveva rivolto l’invito il Presidente della Conferenza episcopale, il card. Bassetti: l’Appello costituisce una pietra miliare nella storia del cattolicesimo politico italiano. È una lezione che va ripresa, aggiornandola con intelligenza.

Su altri versanti, l’ex radicale Taradash auspica vivamente la ripresa del progetto sturziano. Lo fa, come altri in passato, per rinverdire il contributo di un grande uomo di Chiesa e un fine intellettuale politico alla battaglia per la libertà in un’Italia strozzata, ieri come oggi, dal vincolismo e dalle resistenze dei tanti corporativismi.

Qual è la novità nell’intervento di Taradash? Non basta il cenno al liberismo – tutto da interpretare e tradurre – di Sturzo: in effetti, leggendo l’Appello, emerge il richiamo alla costruzione di un blocco culturale e politico, contro il degrado morale e l’anarchia del primo dopoguerra, capace di unire “elementi di conservazione e di progresso”.

Era nel 1919 e potrebbe essere, appunto, ancora oggi la missione legata all’alleanza di tutti i riformisti democratici, per mettere argine allo straripante fenomeno del populismo. Un secolo fa non aveva caratteri molto dissimili, il populismo: salvo che, all’inizio del Novecento, a prevalere non era il tema dell’emergenza emigrazione ma l’opposto, ovvero il dramma degli Italiani costretti a emigrare per sfuggire alla condizione di povertà endemica, con ampie fasce di disoccupazione.

Spiace dunque osservare che nel Partito democratico manchi la capacità, in questa fase estremamente delicata, di ricollegare al discorso di Sturzo sulla convergenza tra gli elementi di “conservazione e progresso” lo sforzo compiuto nel 2007 per associare a un’unica impresa democratica le forze a lungo divise dei riformisti di diversa matrice e tradizione. È come se, a tale riguardo, una suggestione potente trovasse infine strade diverse, o anche alternative, per potersi manifestarsi di nuovo.

Di questo passo, a forza di ragionare in modo esclusivo sul perché del declino della sinistra, il Partito democratico è destinato a incarnare la smentita delle proprie ambizioni originarie. Può darsi che l’amalgama tentato all’epoca fosse azzardato, ma ipotizzare oggi, in termini pratici, la cancellazione dell’esigenza sottostante ad esso è il vero errore che incombe sulla politica dei Democratici.

Per questo il confronto su Sturzo non può essere derubricato – ecco la responsabilità degli attuali vertici del Nazareno – a indagine identitaria dei cattolici, dentro un castello di solitudine per essi, ma certo anche per altri, con una perdita di significato per tutti. Occorre invece fissare bene l’obiettivo prioritario, quello di una nuova alleanza contro i populisti, unendo con intelligenza e flessibilità i diversi “mondi vitali” di un’Italia non rassegnata alla deriva dell’intolleranza e alla pratica della demagogia.

Se non assume questa funzione di riordino e ricomposizione, senza iattanza, il Partito democratico è minacciato di lenta agonia. Dobbiamo evitarlo, insieme, da dentro e da fuori. Ma per evitarlo serve una lettura più rigorosa della crisi attuale, facendo del popolarismo sturziano, in accordo con altre lezioni politiche, la leva di una proposta ai “liberi e forti” di oggi.

Vaccini: se il popolino, istigato da alcuni politici, si oppone alle disposizioni degli scienziati

Anche Jenner, Koch e Pasteur dovettero confrontarsi, nel corso del XVII e del XIX secolo, con le prime forme di opposizione (già allora, per altro, abbastanza feroci) di una parte dell’opinione pubblica alla somministrazione dei vaccini sperimentati. Le rimostranze dei movimenti che oggi si contrappongono alle indicazioni della comunità scientifica non costituiscono affatto una novità relativa agli anni Duemila, dunque, ma hanno radici secolari che risalgono addirittura ai tempi della battaglia contro il vaiolo e dello studio delle mongolfiere.

Tuttavia, in Italia la questione sta assumendo contenuti sconcertanti, poiché è la stessa classe dirigente che sembra “piegarsi” alle volontà delle minoranze agguerrite sostenitrici sine die dell’antivaccinismo. Il problema è che oggi, al contrario di qualche decennio fa, quando le proteste avevano un carattere sia ideologico (legato al tema della predestinazione) che pratico (si contestava il ricorso della medicina alle cellule animali), le tesi sostenute dai movimenti secondo cui i vaccini possono provocare gravissimi danni collaterali sono prive di qualsiasi fondamento scientifico e di ogni controprova medica. A differenza di allora, però, la protesta degli anni Duemila ha assunto un carattere talmente violento e diffamatorio che ha indotto (motivi di opportunità elettorale?) il Ministero della Salute dell’esecutivo testé insediato a rendere le vaccinazioni più o meno facoltative : di fatto, basterà solo una autocertificazione.

E non serviranno certo i futuri controlli a campione – se ci saranno – a evitare il rischio di diffusione di alcune malattie virali strasuperate, eppure, nel caso si manifestassero nuovamente, ancora molto gravi.
Obiettivamente, la attuale battaglia contro i vaccini non costituisce la rivendicazione del rispetto della libertà di scelta dell’individuo, bensì la facoltà di poter mettere a repentaglio la salute altrui trasgredendo alle direttive della scienza moderna, la quale esercita il diritto-dovere di tutelare (innanzitutto) i soggetti più deboli della comunità. Scienza che da alcuni giorni non gode più della credibilità incondizionata del governo.

In tal senso, non si spiegherebbe il proposito – tanto scellerato quanto azzardato – di abolire l’obbligo di vaccinazione entro la prossima sessione scolastica. Non è da oggi che i Salvini e i Di Maio strizzano l’occhiolino ai movimenti contro i vaccini : chi segue le vicende politiche subodorò già un paio d’anni fa i loro intenti di intermediazione tra medicina e sostenitori del “fai da te”. In questo caso, la medicina non può (e non deve) mediare, pena la sua plausibilità. Il guaio è che quando il correntismo politico di una certa parte ideologica è disposto ad agire mettendo in dubbio i valori degli studi medico-scientifici internazionali per accaparrarsi qualche voto in più, significa che il sistema – o meglio una parte di sistema – funziona sempre meno e sempre peggio. Anche sotto l’aspetto etico.