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Nota sul PD di Zingaretti

Ieri Zingaretti ha comunicato la nomina di Michele Meta, ex parlamentare di Roma, a capo della sua segreteria politica. In parallelo, dopo l’uscita di Landini, ha inteso esprimere l’adesione del Pd alla proposta di un nuovo patto per il lavoro lanciato dal leader della Cgil. Due atti differenti e apparentemente scollegati – l’uno ha una valenza tutta interna, l’altro incide sulla scena politica generale – tracciano le coordinate dell’ultimo aggiustamento di linea del Pd. In qualche modo vanno letti insieme, per decifrare le vere mosse del partito che doveva essere, secondo le speranze o le ambizioni dei fondatori, il grande coagulo del riformismo plurale, associando il contributo laico socialista a quello cattolico democratico.

Sul primo aspetto, sembra innanzi tutto consolidarsi la tendenza a fare dei rapporti con la Cgil il perno della “politica sindacale” del Nazareno. Nell’intervista a “Repubblica”, si può notare come Landini abbia messo da parte l’appello all’unità sindacale. Ne aveva fatto il cavallo di battaglia appena eletto alla guida della Cgil, tanto da suscitare l’improvvisa e finanche entusiastica  approvazione di Annamaria Furlan. Poteva essere un elemento di rimobilitazione degli iscritti delle storiche sigle sindacali (Cgil-Cisl-Uil) in chiave di superamento di vecchi schemi, ma non se ne ha più traccia.

Landini, per giunta, inserisce nel suo colloquio con l’autorevole quotidiano romano la richiesta di abolizione del job act. Questo punto, in effetti, è molto delicato. Mentre appare ragionevole sollecitare alcune correzioni o integrazioni alla legge varata dal governo Renzi, ben sapendo che la sua debolezza sta principalmente nella mancanza di risorse collegate all’accompagnamento del disoccupato nella transizione da un lavoro all’altro, non è convincente mettere sul tavolo la pura cancellazione del provvedimento. In questa maniera la Cgil torna nel guscio del conservatorismo di stampo classista e il Pd,  plaudendo a Landini, finisce per adombrare un suo distacco dalle forze più innovative e dinamiche del sindacato. Cisl e Uil rimangono fuori dall’orizzonte del centro sinistra?

In ultimo, come si accennava in apertura, balza in evidenza la nomina di Meta, un dirigente di sperimentate qualità, ma nondimeno espressione di quel vecchio “modello Roma” che i principali attori della stagione di Rutelli e Veltroni, a partire dallo stesso Zingaretti, avevano da tempo classificato come un esperimento datato, con aspetti positivi e negativi, circoscritto perciò a un determinato ciclo della vita amministrativa e politica della Capitale. Questa nomina trasmette allora un messaggio che sa di (involontaria) restaurazione di un certo egemonismo del quadro militante e dirigente uscito dalle file del Partito comunista, per altro negli anni che ne avrebbero segnato, come si dice, l’inizio della fine.

Cosa manca all’appello per dare il tocco conclusivo a un poco entusiasmante deja vu? Manca probabilmente il tentativo di adattare su misura la dialettica interna, chiamando sul palcoscenico donne e uomini capaci di esercitare una funzione di adornamento dell’immagine complessiva di partito, senza perciò condizionare, per parte loro, i processi di elaborazione della volontà politica.

Sotto questo profilo l’area degli ex popolari, da Franceschini a Guerini, è soggetta al rischio di un suo svilimento qualora si appalesasse un’operazione di tipo strumentale, con l’intento  di selezionare gli interlocutori sulla base di un principio di simpatia e affidabilità. Bisogna che scatti l’allarme. Ciò che mina la credibilità degli ex popolari, sempre più preziosi dopo gli abbandoni di Renzi e Calenda, mette a repentaglio la credibilità dell’intero partito. Qualche sondaggio, con le Sardine in campo, stima il Pd in forte caduta (addirittura al 13 per cento). Nell’aria si avverte un’ansia collettiva di rompere assetti ed equilibri, non si sa bene per andare dove, se verso un ispessimento o una riduzione della capacità di presa del populismo. Ira, anche i fautori di un nuovo centro possono tuttavia temere che gli arretramenti del Pd, così leggibili nelle recenti opzioni di Zingaretti, comporti un’ulteriore crescita dei fattori di instabilità, favorendo di fatto l’arrembaggio della destra. Non è una prospettiva da prendere alla leggera, magari con l’illusione di trarre utili, secondo il banale calcolo degli imbalsamatori di un centrismo senza storia, dal possibile cedimento strutturale dell’unico partito in grado di rappresentare oggi una forma libera e democratica di partecipazione alla vita pubblica del Paese.

 

 

 

Siamo tutti sardine?

Stando a ciò che raccontano i cosiddetti “giornaloni”, ormai siamo quasi tutti sardine. Migliaia di persone in piazza – il che non può che essere salutato positivamente – a cantare “Bella ciao” o “Bandiera Rossa”; giovani e meno giovani che lanciano strali contro la destra, il centro destra, Salvini, la Lega e la Meloni; voglia di tacitare l’attuale opposizione politica e parlamentare; e, soprattutto, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali, la voglia di ripristinare un linguaggio rispettoso, chiaro, coerente e profondamente democratico. Sottolineo stando alle dichiarazioni ufficiali perché, anche da queste parti, non mancano i segnali tipici di questa stagione politica della demonizzazione delle persone, degli attacchi personali e della delegittimazione morale e politica dell’avversario se non del nemico dichiarato. 

Ora, al di là di tutto ciò che sappiamo a prescindere dalle dichiarazioni ufficiali – e cioè che si tratta, e del tutto legittimamente, di una piazza itinerante di sinistra anche se, curiosamente e misteriosamente, moltissimi lo smentiscono – e’ indubbio che su almeno 3 elementi possiamo convenire. 

Innanzitutto dobbiamo prendere atto che la politica italiana e’ sempre più liquida. Appena 3 mesi un autorevole esponente della politica italiana come Romano Prodi esaltava il Premier Conte per le sue capacità politiche e di governo, poi l’accordo strategico tra il Pd e il partito di Grillo e Casaleggio e oggi già si spertica le mani per il movimento delle sardine. Il tutto nell’arco di 90 giorni. Ecco, se un autorevole statista come Prodi – che appartiene di diritto alla vecchia politica – esprime questi giudizi, oggettivamente molto diversi tra di loro, vuol dire la politica liquida ha ormai contagiato l’intera società italiana. Purtroppo quasi nessuno escluso. 

In secondo luogo, e questo va pur sottolineato anche se tutto è prematuro e rapido, il movimento delle sardine – che è e resta un movimento di sinistra come tutti i sondaggisti confermano – e’ destinato, forse, a cambiare in profondità l’offerta politica di questo campo della politica italiana. Dico questo campo perché, come è persin facile dedurre senza scomodare vari sondaggisti, questo protagonismo politico può essere un elemento potente per rinnovare il campo del centro sinistra nel nostro paese. Ovvero, con una nuova offerta politica, un nuovo linguaggio politico e anche con una nuova soggettualita’ politica e culturale. 

In ultimo, se si vuole cercare di attenuare – perché di più non si può fare, purtroppo – la liquidità della politica italiana, ormai sempre più palese e dilagante, diventa urgente, anche per il movimento delle sardine, passare rapidamente dalla protesta bella e simpatica delle piazze alla proposta politica ed organizzata. E questo perché si corre veramente il rischio che una bella pagina democratica e di libera e disinteressata partecipazione, si trasformi altrettanto rapidamente in una delle tante mode passeggere del passato che abbiamo conosciuto, sperimentato e anche apprezzato – a volte – e che poi si sono prontamente eclissate nel momento in cui si doveva passare dalla protesta alla proposta. E le sardine non possono aggirare questo nodo. Per questo occorre sempre essere cauti a sposare a prescindere o a cavalcare, altrettanto a prescindere, la piazza. Un supplemento di riflessione, e di prudenza, a volte non guasta. Anche quando si parla delle simpatiche sardine. 

L’Italia terza in Europa per il riciclo degli imballaggi

L’Italia si conferma avanguardia dell’industria europea del riciclo, attestandosi per il recupero degli imballaggi al terzo posto (con un tasso di riciclo al 67%), dopo Germania (71%) e Spagna (70%). Diverse filiere degli imballaggi (carta, vetro, plastica, legno, alluminio e acciaio) hanno già superato, o sono a un passo dal farlo, i nuovi obiettivi previsti a livello europeo per il 2025, altre (RAEE, veicoli fuori uso) crescono più lentamente. Un settore strategico per un Paese, il nostro, povero di materie prime e che ogni anno dal riciclo riceve 12 milioni di tonnellate di materie prime per l’industria nazionale.

Sono queste le principali evidenze emerse nel corso della presentazione dello studio annuale “L’Italia del Riciclo”, il Rapporto giunto alla decima edizione, promosso e realizzato dalla Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile e da FISE UNICIRCULAR (l’Unione Imprese Economia Circolare), tenutasi stamane nel corso di un convegno a Roma.

10 anni di crescita per le filiere del riciclo, tra luci e ombre
Negli ultimi 10 anni in Italia i rifiuti totali prodotti sono passati da 155 a 164 mln di tonn. (+6%) e il riciclo è cresciuto da 76 a 108 mln di tonn. (+42%).
Molte filiere del riciclo hanno registrano ottime performance in questi anni, con dati positivi sia a livello europeo che italiano. I rifiuti di imballaggio, per esempio, hanno visto crescere del 27% l’avvio a riciclo, passando da 6,7 a 8,5 mln di tonn. Il tasso di riciclo rispetto all’immesso al consumo è aumentato dal 55% al 67%, in linea col dato europeo e con i nuovi obiettivi del 65% al 2025 e del 70% al 2030. Rispetto alle principali economie europee (Germania, Francia, Spagna e Regno Unito) l’Italia si colloca al terzo posto, dopo Germania (71%) e Spagna (70%). Le singole filiere dei rifiuti di imballaggio in diversi casi hanno già superato gi obiettivi previsti per il 2025 e in alcuni anche quelli per il 2030.

I tassi di riciclo delle singole filiere dei rifiuti d’imballaggio hanno raggiunto livelli di avanguardia: carta (81% e terzo posto in Europa), vetro (76% e terzo posto), plastica (45% e terzo posto), legno (63%, secondo posto), alluminio (80%), acciaio (79%).

Luci e ombre arrivano dalle altre filiere. In decisa crescita nei dieci anni la raccolta degli oli minerali usati, ormai vicina al 100% dell’olio raccoglibile e la raccolta degli oli vegetali esausti (+81% nel confronto con 10 anni fa).
Nell’arco di un decennio la raccolta della frazione organica è passata da 3,3 mln di tonn. del 2008 a oltre 6,6 nel 2017, con una crescita del 100%. Per raggiungere gli obiettivi europei sarà necessario strutturare il settore sull’intero territorio nazionale garantendo lo sviluppo di un’adeguata rete impiantistica.
Per quanto riguarda gli pneumatici fuori uso, la raccolta ha raggiunto l’obiettivo nazionale e in 10 anni il recupero di materia è passato dal 43% al 58%.

Il nostro Paese sconta, invece, ancora un ritardo in termini di raccolta dei RAEE (42% vs obiettivo del 65% fissato per il 2019) e delle pile (42%, ultimo posto tra le potenze europee) e per il reimpiego e riciclo dei veicoli fuori uso, cresciuto di un solo punto percentuale in 10 anni (dall’82% all’83%).

Ogni anno dal riciclo 12 milioni di tonnellate di materie prime per l’industria nazionale
Lo sviluppo del riciclo, anche in chiave strategica per la produzione di materie prime seconde e per il loro impiego all’interno del ciclo produttivo, passa necessariamente dalla sua integrazione con l’industria manifatturiera. All’interno de L’Italia del Riciclo, uno studio svolto da Ecocerved sulla base dei dati MUD quantifica i rifiuti effettivamente trasformati in materie prime seconde (MPS) in Italia e permette di valutare il reale contributo del settore all’evoluzione verso un sistema economico di tipo circolare.

A fronte di quantitativi di rifiuti pressoché stabili negli ultimi dieci anni in Italia si osserva, invece, una sempre maggiore mole di rifiuti veicolati verso le operazioni di recupero e quantità in calo avviate a smaltimento. Nel 2017 (ultimi dati disponibili) le circa 1.200 imprese dell’industria del riciclo hanno trattato 18 mln di tonnellate di rifiuti di carta, vetro, plastica, legno, gomma e organico (+15% vs 2014, anno della precedente rilevazione). In linea con l’aumento dell’avvio a recupero, si è registrata una maggiore produzione dei materiali secondari provenienti dal riciclo di questi rifiuti, con 12 milioni di tonnellate di materie prime seconde per l’industria nazionale.

La resa media delle attività di riciclo (il rapporto tra la quantità di materiali secondari prodotti e quella di rifiuti recuperati) oggi si attesta al 67%. Un aspetto di particolare interesse in termini di economia circolare, emerge dai dati: anche se i riciclatori trattano quantità più alte di rifiuti, a valle delle attività di riciclo resta una quantità di rifiuti pari a 2,6 mln di tonnellate, pressoché equivalente a quella del 2014; dato che mostra una migliore prestazione nella lavorazione, favorita anche da una più elevata qualità della raccolta e della selezione dei rifiuti.

“Alla vigilia del recepimento di nuove direttive europee”, ha dichiarato Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, “il sistema del riciclo italiano è, in generale, già ben predisposto. Oggi occorre quindi intervenire con precisione per mantenere le posizioni conquistate, superare le carenze che ancora permangono e compiere ulteriori progressi. Per aumentare il riciclo dei rifiuti urbani occorre, in particolare, proseguire nell’incrementare le quantità e nel migliorare la qualità delle raccolte differenziate, recuperando i ritardi che ancora ci sono in diverse città. Va, inoltre, adeguato il fabbisogno di impianti di trattamento e di riciclo, in particolare per la frazione organica, ancora particolarmente carente in alcune Regioni. Per la transizione verso un modello di economia circolare, occorrerà prestare maggiore attenzione alla promozione, come previsto dalle nuove direttive, di un impiego più consistente dei materiali generati dal riciclo nella realizzazione dei prodotti”.

“Il nuovo pacchetto di direttive europee per i rifiuti e l’economia circolare contiene ambiziosi target di riciclo”, evidenzia Andrea Fluttero, Presidente di FISE UNICIRCULAR, “Perché si raggiungano va affrontato il tema dell’eco-progettazione, deve essere certa la cessazione della qualifica di rifiuto dopo adeguato trattamento (End of Waste), va assicurato maggiore sbocco ai materiali recuperati attraverso un ‘pacchetto di misure’ finalizzate a promuovere lo sviluppo dei mercati del riutilizzo e dei prodotti realizzati con materiali riciclati: maggiori costi per lo smaltimento in discarica dei rifiuti indifferenziati (salvaguardando la possibilità di smaltire gli scarti delle attività di riciclo), estensione dell’uso di materiali riciclati negli appalti pubblici, agevolazioni fiscali per l’uso di materiali e prodotti riciclati, sostegno alla ricerca e all’innovazione tecnologica per il riciclo, eliminazione graduale delle sovvenzioni in contrasto con la gerarchia dei rifiuti”.

Padre Robert Ballecer apre un server per combattere il cyberbullismo

Padre Robert Ballecer vuole tramite uno videogames più famosi dell’ultimo decennio creare una community intenzionata a sposare i valori di positività, uguaglianza e condivisione, che combattono la tossicità che si “respira” spesso e volentieri nelle community online.

La scelta di Minecraft è derivata da un sondaggio proposto da Ballecer su Twitter.

I risultati sono stati chiari. Con il 64% i partecipanti  suggerivano al sacerdote di promuovere questa iniziativa sul sandbox creato da Mojang. Una preferenza netta che ha permesso al gioco di superare alternative come Rust, Ark: Survival Evolved e Team Fortress 2.

Adesso resta solo da convincere il Vaticano, che valuterà la proposta di padre Robert Ballecer e che dovrà tener conto anche dei consensi di oltre 24mila fan del popolare frate con una passione per l’informatica e i videogiochi.

La guerra a Trump come patologia dell’Occidente

Pubblichiamo in anteprima il primo, di due capitoli, dedicati al controverso tema dell’impeachment a Donald Trump, che è presente nel nuovo libro di Claudio Taddei. “La guerra a Trump come patologia dell’Occidente” è il titolo della nuova fatica di letteraria di Taddei che uscirà a fine febbraio per le Edizioni Robin.

Alla fine di settembre 2019 si giunge all’atto estremo della guerra a Trump, qualcosa di cui i Democratici parlano dal giorno in cui Trump fu eletto presidente. Il 24 settembre l’impresentabile Pelosi, leader dei Democratici alla Camera, sale su un podio e annuncia ai media una “richiesta di impeachment” nei confronti di Trump. Possiamo notare che l’annuncio è implausibile, fuorviante, anche dal punto di vista procedurale: per avviare un impeachment deve votare tutta la Camera, non basta il consenso delle Commissioni, i cui vertici nel 2019 sono occupati dai turpi personaggi di cui ho detto altrove. Il processo di impeachment deve avere una motivazione, che in questo caso non c’è. Che poi i media e la cospirazione consentano di portare avanti le accuse è un’altra questione. Ma l’impeachment, come afferma correttamente Tom Fitton (che presiede il credibile Judicial Watch), non scavalca e non annulla le regole costituzionali. Quello annunciato dalla Pelosi è un attacco premeditato a Trump e ai suoi elettori. L’annuncio è lo scopo in sé: l’annuncio mediatico per confondere le menti e costruire la sovversione.

Il difetto procedurale è il minore dei mali in una disonesta iniziativa politica, spinta avanti da media corrotti, in accordo con un partito politico, con lo scopo di abbattere o almeno danneggiare un presidente. Per quanto privo di fondamento e dunque ignobile sia il tentativo di impeach, il pericolo esiste, perché il pubblico non sa o non può approfondire gli eventi, e forma il proprio giudizio su quanto gli arriva dai media. L’annuncio del 24 settembre dà inizio anche fuori dall’America a una sordida manipolazione mediatica dei fatti. Per esempio in Italia il titolo di Repubblica è: “Trump sotto accusa per abuso di potere”; quello del Corriere della Sera: “Trump trema. La telefonata che lo accusa”.

Il rinnovato colpo di stato è costruito intorno all’accusa, derivante dalla “denuncia” (complaint) presentata da un “informatore” (whistleblower), secondo cui in un colloquio telefonico del 25 luglio 2019 con il presidente ucraino Zelensky, Trump avrebbe “fatto pressioni” (secondo le false parole della Pelosi e dei media) su Zelensky affinché indagasse su illeciti compiuti dall’ex vicepresidente Joe Biden in Ucraina, e avrebbe “minacciato” Zelensky di fermare gli aiuti finanziari in caso contrario. Nessuna delle due cose è avvenuta: le “pressioni” sono smentite dal presidente ucraino, le “minacce” o anche solo il collegamento con gli aiuti non vi sono stati. Il contenuto della telefonata diviene pubblico il giorno dopo l’annuncio della Pelosi, quando Trump – con una decisione che toglie ossigeno alle accuse – autorizza la pubblicazione del testo integrale. Il 25 luglio, il motivo del colloquio con Zelensky è il successo nelle elezioni parlamentari ucraine del partito di Zelensky, che promette la lotta alla corruzione. Il contrasto alla corruzione è l’argomento della telefonata, e in tale ambito trova posto la richiesta di Trump di indagare su un eventuale ruolo di cittadini ucraini nella fase iniziale dell’indagine Mueller (il precedente governo ucraino fu, come quello italiano e altri, contattato quando il direttore della CIA Brennan e i vertici Democratici cercarono di costruire accuse a carico di Trump), e poi di indagare sul licenziamento nel 2015 di un alto procuratore ucraino: episodio di cui si è vantato Joe Biden, il quale nel luglio 2019 è soltanto un cittadino americano candidato alla presidenza. Di aiuti finanziari nella telefonata non si parla affatto. Il tono della telefonata è gentile, mite. Ma, indifferente ai reali contenuti del colloquio con Zelensky, la messa in scena dei Democratici e dei media è costruita intorno al complaint dell’informatore, cioè di una spia, di cui sapremo che è un ex collaboratore di Brennan (il direttore della CIA vicino a Obama); dopo la pubblicazione del complaint, Brennan si complimenta con lui in TV. Veniamo anche a sapere che la spia è un “registered Democrat”, cioè iscritto al partito Democratico. Nell’ottobre 2019 un’inchiesta del Washington Examiner rivela poi che il delatore ha lavorato per Biden quando questi era vicepresidente.

Ora, la parola whistleblower in americano non ha un significato negativo; potremmo tradurla “informatore autorizzato di illeciti”, spesso illeciti governativi. Ma per essere tale, la sua denuncia deve avere criteri di credibilità, che il complaint della spia di Brennan non ha: per esempio, dev’essere basata su conoscenza diretta, non sul sentito dire e non su fatti riferiti da terze persone. Invece la denuncia di cui parliamo è del tutto, in modo dichiarato, basata su dati di seconda mano (la prima restando sconosciuta, il che sembra non interessare i media), su voci anonime e addirittura su rapporti di media come il Washington Post, la rete ABC, Bloomberg, tutti notoriamente avversi a Trump. Il complaint è un documento disonesto, denunciato come tale da osservatori credibili (Mark Levin, Lou Dobbs, John Solomon e altri). Mark Levin per primo, poi altre voci, fanno anche notare che il complaint è scritto come una deposizione legale, costruita da uno o più avvocati. Riguardo poi al fatto che la denuncia è basata sul sentito dire, sconcertante è l’apprendere che, pochi giorni prima del 24 settembre, su un sito ufficiale dell’Intelligence è apparsa la notizia di una modifica alle regole che riguardano i whistleblowers, in base a cui non è più necessario che le informazioni riportate siano di prima mano. La modifica risale ad agosto; la lettera con la “denuncia” inviata dal delatore alla Commissione Intelligence della Camera è del 12 agosto. Se sono coincidenze, sono davvero straordinarie.

I tempi della vergognosa farsa iniziata dall’annuncio della Pelosi sono premeditati. I vertici Democratici della Commissione Intelligence (cioè l’abbietto, squilibrato Schiff, a cui la Giustizia americana dovrebbe togliere l’immunità per le menzogne che propaga da tre anni) avevano in mano la lettera da sei settimane. La scelta di occupare i media con l’annuncio dell’impeachment ha lo scopo immediato di cancellare le importanti notizie di quei giorni di fine settembre. Pelosi sale sul podio il giorno dopo l’eccellente e puntuale discorso all’ONU di Trump, con quella magnifica affermazione (“Il futuro non appartiene ai globalisti, bensì ai cittadini delle nazioni”) che così tanto disturba i custodi del gregge globale. Sono anche i giorni in cui i Democratici in Congresso e i loro giudici in alcuni distretti cercano, di nuovo, di bloccare la costruzione del muro sul confine sud. E sono i giorni in cui in Senato viene presentata la rovinosa legge, voluta dalle grandi società di Internet e dalla Chamber of Commerce, sull’aumento dei visti H1-B, che riempiono le aziende USA, soprattutto in settori scientifici, di diplomati stranieri (in particolare indiani), senza dubbio a danno dei giovani americani.

L’isteria percebile nelle parole della Pelosi, o negli annunci da ciarlatano di Schiff (presentati come notizie da media corrotti come la CNN o la MSNBC), aggiunge patologia alla macchinazione. Come nelle calunnie verso il giudice Kavanaugh, tra media e Democratici vi è una competizione nel rivestire di falsa legalità le menzogne, allo stesso modo in cui brutte figure del mondo dello spettacolo e del cinema competono sui social media riguardo ai migliori modi per decapitare, pugnalare, smembrare il presidente. In Congresso si distingue Schiff, il quale arriva a leggere, mentre milioni di cittadini lo guardano alla TV, una versione falsificata, alterata, della telefonata di Trump con Zelinsky. Come è accaduto per oltre due anni riguardo alla collusione “russa”, di nuovo Schiff dice il falso e inganna il pubblico. La richiesta da parte di Trump di sue dimissioni è più che giustificata. Egli non può restare a capo della Commissione Intelligence. Ma poiché la destituzione dovrebbe venire dalla Pelosi e dunque non vi sarà, da un’autorità di giustizia dovrebbero venire il suo arresto e la detenzione per azioni proditorie, superando l’immunità di cui i politici godono. Rudy Giuliani afferma che l’immunità decade quando Schiff o altri politici parlano fuori dal Congresso, per esempio ai media. Ci chiediamo anche se possono restare impuniti i tre senatori Democratici (Durbin, Menendez, Leahy) che nel maggio 2018 scrissero una lettera al procuratore generale in Ucraina minacciando, in modo esplicito, di fermare in Congresso gli aiuti per l’Ucraina se la procura di Kiev non si fosse adeguata alle richieste degli avvocati di Mueller, volte a costruire accuse verso Trump. E ci chiediamo se può restare impunito il ricatto del senatore Democratico Murphy, che in una conversazione (di cui esiste l’audio) con Zelensky a inizio settembre 2019 minacciò il taglio degli aiuti finanziari se il governo ucraino avesse mandato avanti l’indagine sulla società ucraina del gas che pagò, secondo il giornalista investigativo John Solomon, stipendi molto alti (fino a 83 mila dollari al mese) al figlio di Biden, senza che quest’ultimo avesse competenze da offrire. I Democratici hanno fatto, lontano dai media, ciò di cui accusano Trump, e che Trump non ha fatto. Ma nessuno ne parla, e nessuno indaga.

Nel colloquio di Trump con Zelensky non vi sono minacce, non si propone uno “scambio” (come afferma, mentendo, la Pelosi), non vi è menzione degli aiuti all’Ucraina. In quel colloquio Trump chiede a Zelensky, con tono non perentorio, di verificare la vicenda del procuratore ucraino licenziato su richiesta di Joe Biden: vicenda denunciata da quello stesso procuratore (Victor Shokin) con un “affidavit” (dichiarazione scritta e giurata) consegnato a Rudy Giuliani nel novembre 2018. Trump dice a Zelensky: “Si parla del figlio di Biden e del fatto che Biden fermò il procedimento penale. In tanti vorrebbero sapere che cosa è accaduto. Qualunque cosa potete fare, o se potete sentire il nostro ministro della Giustizia, andrebbe bene. Biden si vanta di aver fermato l’azione penale. Vedi se potete verificare (look into) la cosa. Mi sembra una gran brutta faccenda”. Quanto egli dice è del tutto lecito e in gran misura (come osservatori credibili hanno detto) doveroso. Trump è il capo dell’esecutivo: ha il diritto-dovere di rivolgere a un leader straniero una richiesta riguardo a un possibile caso di corruzione che coinvolge un cittadino americano, e più in generale di sollecitare da un leader straniero le informazioni che ritiene opportuno avere. Il fatto che Biden in quel momento sia un candidato alla presidenza non cambia niente, e non è – dicono gli esperti della materia – una violazione delle regole elettorali. Un candidato alla presidenza non è al di sopra della legge. Del licenziamento del procuratore ucraino, Biden si è vantato in una conferenza di cui esiste un video. Se un ex vicepresidente ha abusato del suo potere d’ufficio, Trump ha il dovere di chiedere chiarezza; poi, ovviamente, può farlo o no. Il reato commesso, e che rimane senza conseguenze, è l’aver spiato una telefonata del presidente, inducendolo a renderla pubblica e compromettendo (come si è detto) le future relazioni con leader esteri, che devono restare riservate.

Il reato è avere un ex agente della CIA che spia il presidente. Il mandato della CIA è difendere la nazione dalle minacce dall’estero. Chi ha messo l’ex agente CIA a spiare Trump? Brennan (leggi Obama)? Chi nella CIA attuale l’ha autorizzato? Vi sono contraddizioni tra la “denuncia” pubblicata dai media e ciò che il delatore scrisse all’ispettore dell’Intelligence: nel modulo delegato allo scopo, egli scrisse di avere informazioni “di prima mano”. Nella “denuncia” invece egli, o l’avvocato che scrive per lui, afferma e ribadisce l’opposto: tutto gli è stato riferito da persone terze. I promotori del falso impeachment sono impegnati nel tenere nascosta l’identità del delatore, con il pretesto di un’esigenza di protezione. La realtà è che l’informatore è un infiltrato, collocato in quella posizione per dare il via all’inganno premeditato. Riguardo alla sua “denuncia” egli dev’essere interrogato in Congresso dai Repubblicani. Il delatore non è un whistleblower, cioè un informatore riconosciuto e “da proteggere” (come si usa dire degli informatori). La sua lettera, fitta di richiami legali e accuse incoerenti, lo squalifica secondo le misure usate per valutare la credibilità di una spia: misure che restano in vigore, anche dopo le (peraltro sospette e da indagare) modifiche dell’agosto 2019. Il delatore ebbe contatti con lo staff di Schiff prima di scrivere la sua lettera. È molto probabile che la “denuncia” sia stata preparata e scritta da avvocati di Schiff (lo stesso avvocato ufficiale del delatore fu in passato al servizio di Schumer e di Hillary). Il delatore è un “attivista di partito” (“partisan hack”): così lo giudicò il direttore dell’Intelligence Maguire, che in agosto inviò il reclamo dell’informatore al ministro Barr, il quale confermò il giudizio di Maguire.

Non così la Pelosi e i deformi custodi della legalità che presiedono le Commissioni della Camera. Essi portano avanti la messa in scena perché i media – braccio operativo del partito Democratico – lo consentono. Alcune ore prima dell’annuncio di impeachment, Trump aveva dichiarato che il giorno successivo il testo integrale del colloquio con Zelensky sarebbe stato divulgato. La Pelosi non aspetta, perché i fatti e la verità non contano, e perché è già a conoscenza della “denuncia” dell’informatore (divenuta pubblica due giorni dopo), su cui basare la messa in scena. Quando poi, due settimane più tardi, la credibilità del delatore appare compromessa, da parte del suo avvocato arriva la notizia che vi è un secondo whistleblower della telefonata sotto accusa. È lo schema seguito dai Democratici nel caso del giudice Kavanaugh: prima un’accusa falsa, poi una seconda e così via. Ma con il rendere pubblico il testo integrale del colloquio telefonico, Trump smonta l’accusa, perché a quel punto ognuno di noi sa, del colloquio con Zelensky, più di quanto ne sapesse il delatore quando ha scritto, o lasciato scrivere a un avvocato, la “denuncia”. E ognuno di noi può giudicare da sé, leggendo il testo della telefonata, in cui non vi è nulla, assolutamente nulla, che conduca ad accusare il presidente.

In un’intervista dell’ottobre 2019, il primo e più importante testimone riguardo alle accuse di cui è investito Trump, cioè il presidente ucraino Zelensky, conferma – benché sollecitato a fare il contrario dal giornalista americano della ABC che lo intervista – che nel colloquio con Trump non vi furono “né pressioni né ricatti”, come il testo della telefonata documenta. Zelensky afferma anche che il suo governo aveva iniziato indagini sulla società del gas, che fu così prodiga con il figlio di Biden, già mesi prima del colloquio con Trump. Quanto alla decisione di Trump di rendere pubblica la telefonata, non si tratta di una prassi ripetibile. La diplomazia richiede riservatezza, anche quando le intenzioni sono buone. E non sempre lo sono. Se pensiamo, per esempio, al rendere pubblici i colloqui telefonici di Obama con il regime iraniano, c’è da rabbrividire. Trump non era obbligato a rilasciare il testo. Il privilegio esecutivo consente a un presidente di non farlo, anche se richiesto dal Congresso. In questo caso i Democratici non chiesero il rilascio del testo, anzi ne furono sorpresi.

Con il nuovo atto del colpo di stato, l’iniziativa e gli annunci mediatici rimangono ai Democratici. Alla Camera i congressmen Jordan, Ratcliffe, Gaetz, Meadows e altri del Freedom Caucus fanno quello che possono, ma ai Repubblicani è negata (dalle regole senza precedenti fissate dalla banda Pelosi-Schiff and Co.) la possibilità di convocare i propri testimoni e, per sei settimane, di interrogare in pubblico quelli della controparte. Schiff impedisce che testimonianze come quella dell’inviato USA in Ucraina (Volker) siano rese pubbliche. Inoltre Schiff svolge il ruolo di procuratore dell’accusa nei confronti del presidente, però è anche un testimone, perché lui o il suo staff hanno incontrato il delatore: voci competenti in materia affermano che in nessun caso, nel sistema di giustizia americano, le due funzioni sono svolte da una stessa persona.

L’esito del falso impeachment dipende dal Senato. La Commissione Intelligence del Senato, presieduta dal Repubblicano Burr, che non ha mai sostenuto Trump, è inerte. Tale Commissione dovrebbe, invece, rendere pubblica una lista di testimoni da interrogare, a cominciare dal delatore e dallo stesso Schiff. Vi è un’altra strada, che potrebbe smontare la messa in scena: il leader del GOP in Senato, McConnell, potrebbe non accettare il dibattito in Senato sull’impeachment, che comunque non avrebbe la maggioranza dei due terzi per essere approvato. Purtroppo, oltre agli uomini del Freedom Caucus alla Camera, solo pochi senatori del GOP sembrano capaci di denunciare la sarabanda di aggressioni verso il presidente e le turpi esibizioni di politici Democratici con la schiuma alla bocca (Schiff, Nadler, Pelosi e altri; quanto alle vicende interne dei Democratici, poco interesse ha il fatto che la Pelosi usi la procedura di impeachment per proteggere la sua posizione di speaker da chi è ancora più a sinistra di lei: ciò che conta è che essi non si curano di recare danno al paese). Poiché il Senato ha il potere costituzionale di vigilare sull’operato della Camera, McConnell e senatori come Lindsey Graham, che è a capo della Commissione Giustizia, devono spegnere il fuoco del falso impeachment. Si deve portare a conoscenza del pubblico ciò che è avvenuto, si devono costringere i media a parlarne, si deve mettere in chiaro il carattere illegittimo e falso della “richiesta di impeachment”. Più che giustificato è il tono risentito con cui Trump scrive, in un tweet (ottobre 2019): “Quando i Democratici pagheranno per ciò che stanno facendo al nostro paese, e quando i Repubblicani reagiranno all’attacco?”.

Poi vi è la è parte facile (in teoria, perché in pratica i media operano per trascurare il tema e il GOP in Senato non si muove): indagare su quanto emerso riguardo alle vicende ucraine del figlio di Biden e chiamarlo a testimoniare sotto giuramento. Il problema non è la candidatura di Joe Biden alla presidenza, che era comunque compromessa da altri fattori. Il problema è portare attenzione su una vicenda che era nota ma fu insabbiata e sparì dai media. Attenzione significherebbe un’indagine sul via libera di Joe Biden ai finanziamenti del governo Obama a Kiev. Vi furono “pressioni” (quelle che Trump non ha fatto, se non nella misura in cui vi è sempre uno “scambio” nelle relazioni diplomatiche) da parte di Biden sul precedente governo ucraino per il licenziamento del procuratore Shokin, che stava indagando. Biden minacciò, come egli stesso si è vantato di aver fatto, di bloccare i finanziamenti se Shokin (di cui si afferma che sia ancora disposto a testimoniare) non fosse stato allontanato. Nel video registrato presso il CFR, Biden racconta di aver detto all’ex presidente ucraino Poroshenko: “Se non mi credi, telefona a Obama”. Dunque vi sono evidenze poco confutabili. Più difficile sarà portare alla luce, per l’opposizione del governo cinese, un’analoga vicenda di corruzione tra Biden e il governo di Pechino. Governo che, in cambio del silenzio sulle proprie scorrette politiche commerciali, trasferì (come ha documentato, tra gli altri, Peter Schweitzer, in un libro dal titolo Secret Empires e in interviste a Fox News), cifre ingenti, addirittura 1,5 miliardi dollari, a una società in cui aveva interessi il figlio di Biden.

La Costituzione americana assegna alla Camera, con molte cautele, la possibilità di impeach un presidente. Ma quello di fine 2019 non è un impeachment della Camera, bensì solo del partito Democratico. Dunque non è ciò che prevede la Costituzione; anzi, è quanto essa intendeva evitare. Non è mai accaduto nella storia americana che un’indagine di impeachment abbia inizio senza che vi sia un voto della Camera intera. Non è mai accaduto che un partito convochi dei presunti testimoni e impedisca agli avvocati dell’accusato, cioè del presidente, di interrogarli. I Democratici cambiano le regole procedurali, nascondono l’identità dei delatori, chiamano a deporre burocrati avversi a Trump e residuati del governo Obama. I media sostengono la messa in scena. Essi ricevono dai Democratici notizie parziali, scelte con l’intento di distorcere la testimonianza (un caso che ho citato è quello di Volcker), e le rendono pubbliche come se si trattasse di fatti veri. L’ultima volta che vi fu l’impeachment di un presidente, nel 1998 nei confronti di Clinton, ai Democratici furono dati pieni diritti di difendere Clinton, convocare testimoni, interrogare i testi dell’accusa, e agli avvocati del presidente fu consentito di partecipare a ogni fase. Tutto era pubblico. L’intenzione dichiarata (da Newt Gingrich) era di rendere la procedura “corretta nei confronti del presidente”. Del resto si tratta di procedure osservate anche per i delinquenti (Mark Levin: “I terroristi ottengono un processo regolare più di quanto la Camera conceda a Trump”). Come può difendersi Trump, o chiunque, da accuse anonime, gestite da una parte politica e presentate dai media come rivelazioni? Non occorre un esperto costituzionale per affermare che si tratta di un sopruso. Le regole non contano, perché si tratta di un colpo di stato. I nemici di Trump non hanno in mano niente per formulare un’accusa credibile, se non il polverone mediatico.

Davanti a una coreografia così disonesta, concordo con chi in America afferma che Trump non deve collaborare in alcun modo (a differenza di quanto fece per l’indagine Mueller), né consegnare documenti, né autorizzare collaboratori a testimoniare, né tantomeno rispondere lui alle accuse in Congresso (come è tentato di fare dalla sua indole pugnace e incline ad accettare la polemica). In nessun modo la procedura dev’essere avallata. La Costituzione, oltre alla realtà dei fatti, sono dalla parte di Trump. Negli USA non vi è il sistema parlamentare inglese, dove il primo ministro è in carica a discrezione della Camera uscita dalle elezioni. Gli USA sono una repubblica presidenziale, dove il potere esecutivo ha pari diritti e autonomia del potere legislativo e di quello giudiziario. Peraltro il Congresso non è al di sopra della legge. L’impeachment messo in scena dai Democratici a fine 2019, in violazione della Costituzione, delle leggi in materia e dei precedenti storici, è “void”, cioè privo di validità.

Dunque corruzione, ostruzione della giustizia, utilizzo proditorio delle strutture di intelligence, abuso del potere conferito dalla maggioranza alla Camera e abuso del potere mediatico a danno dei cittadini: questi e altri reati sono imputabili nella vicenda del falso impeachment, e nessuno di essi è a carico di Trump. La pubblicazione del testo del colloquio telefonico ha smontato la cospirazione. Davanti al coro dei media che in America attaccano Trump (o, in Italia, dei loro ripetitori), per il pubblico la vicenda è un’occasione per prendere le distanze dal pensiero di gruppo. Di nuovo, come per la truffa della “collusione” russa, i responsabili devono pagare, e non in un giorno vicino a quello del Giudizio, bensì subito. Dovrebbero pagare, ed essere esposti a pubblico disonore per infamia e tradimento, i politici che hanno mentito, come la Pelosi, Schiff, Nadler; dovrebbero essere espulsi dal Senato i senatori che hanno cospirato con un governo straniero per danneggiare il presidente; dovrebbero pagare gli operatori mediatici che sostengono il colpo di stato e la truffa del falso impeachment. Dovrebbero.

La “denuncia” del delatore-attivista politico fu scritta per i media e fu scritta da avvocati al servizio di Schiff. Questo è un grave illecito. Al contrario, per un presidente dialogare con leader stranieri riguardo a indagini criminali, o riguardo ad accuse di corruzione, è una procedura abituale e reciproca. Alla Camera, quando nel novembre 2019 alcune deposizioni divengono pubbliche, i congressmen del Freedom Caucus lavorano bene, mettendo in chiaro l’inconsistenza delle accuse. Essi chiedono di interrogare il delatore: di conoscere le sue relazioni, di sapere se ha violato accordi di sicurezza e dunque commesso un reato, se ha consegnato agli avvocati di Schiff documenti riservati, il che è di nuovo un reato. La presidenza della Commissione Intelligence (Schiff) respinge la richiesta. I Democratici vogliono portare avanti la truffa il più a lungo possibile. Siamo davanti a una congiura di palazzo consentita dai media; e, come afferma l’ex procuratore Joe DiGenova, siamo a un passo dalla “distruzione dell’ordine costituzionale che i Fondatori della nazione stabilirono”. L’impeachment non fu previsto per consentire alla Camera di prevaricare il potere esecutivo. Forse anche per il carattere senza precedenti di quanto avviene, il sistema di governo non ha forze sufficienti per abbattere la congiura con un urto frontale. Gli agenti del Deep State (che poi, come dice Steve Bannon, non è tanto deep, poiché le sue azioni sono evidenti a chiunque) sono pronti a distruggere la credibilità della giustizia e del sistema politico americani per i loro scopi. Molto grave è che solo una parte del pubblico comprenda gli eventi. Il continuo battere di messaggi fuorvianti da parte dei media più diffusi ha un effetto sul pubblico. Se al pubblico arriva una quantità sufficiente di bugie, esse possono divenire concetto dominante e pregiudizio. È già successo in passato.

L’impeachment è una cosa seria. La decisione di aprire un processo di impeachment è un atto estremo. Gli autori della Costituzione americana intesero impedire che interessi politici ne fossero la motivazione quando scrissero che l’impeachment avviene per “crimini e misfatti di grave entità”. In seguito, dopo che per la prima volta un presidente fu impeached (Andrew Johnson nel 1868), davanti al pericolo che l’equilibrio tra potere legislativo ed esecutivo fosse compromesso, la Corte Suprema confermò il principio che il Congresso non può rimuovere un presidente soltanto perché è in disaccordo con lui “riguardo alla sua politica, al suo stile e alla sua gestione dell’incarico”. Nei tre casi in oltre due secoli in cui si è giunti a impeach un presidente, vi fu alla Camera un consenso bipartisan, prima di passare la decisione al Senato. Nessun presidente nella storia recente è stato indagato, esaminato, sottoposto a cause legali, senza trovare prove di condotta illecita, quanto Trump. Siamo di fronte a un colpo di stato che prosegue con modalità pianificate per condizionare il pubblico nelle elezioni del 2020. Il falso impeachment è una vetrina di ipocrisia, gestita dai media e dai politici Democratici con il sostegno della piovra che si usa definire Deep State. Nel 2020 la nazione americana è di fronte a una scelta decisiva. I senatori del GOP dovrebbero comprenderlo e avere la fibra sufficiente per mandare al pubblico – cioè a quella parte di società disposta a capire e non vincolata da manipolate ottusità – un messaggio non equivoco.

Epilessia: nuove speranze

Arvelle Therapeutics, una società biofarmaceutica emergente focalizzata su trattamenti innovativi per pazienti con disturbi del sistema nervoso centrale, ha annunciato la pubblicazione su The Lancet Neurology di un importante studio in cui si dimostra che il trattamento con cenobamate ha migliorato significativamente il controllo delle crisi parziali (focali) in pazienti adulti affetti da epilessia.

I risultati di questo studio multicentrico, in doppio cieco, randomizzato e controllato con placebo, dimostrano che il cenobamate, somministrato in dosi di 100, 200 e 400 mg/die, ha migliorato significativamente il controllo delle crisi rispetto al placebo in pazienti con crisi focali che assumevano da 1 a 3 farmaci antiepilettici (AED). Il cenobamate ha registrato tassi di risposta significativamente più elevati (percentuale di pazienti che hanno ottenuto una riduzione ≥ 50% delle convulsioni) con tutti i dosaggi durante la fase di mantenimento di 12 settimane rispetto al placebo.

La sfida delle sardine

In tante città italiane ha avuto grande successo l’iniziativa delle cosiddette “sardine”.
È un fenomeno che va capito ed interpretato, piuttosto che “giudicato” oppure “cavalcato”.
Molti lo vedono come sfida a Salvini, il “tonno” dal quale le sardine vogliono difendersi.
In realtà, temo, il tonno in questione non subirà decisivi danni nell’immediato, anche perché si tratta di una manifestazione di impegno molto legata alle realtà urbane e rappresentativa di un mondo già immune rispetto alle lusinghe della destra.

Ciò non di meno, bisogna guardare con fiducia, interesse e simpatia a queste manifestazioni pubbliche, perché puntano dichiaratamente ad un “risveglio delle coscienze personali” contro un declino segnato da odio, pregiudizi e paure.
Si tratta di una delle tante manifestazioni di disagio da parte di quella parte di società che ancora non si rassegna al declino culturale e civile della vita democratica.

Una parte di società che non “abbocca” alla lusinga dell’Uomo Forte e Solo al comando; che non rinuncia allo sforzo di mantenere vivi i valori di umanità; che non intende barattare la propria libertà per una illusoria promessa di sicurezza.
Non è e non sarà – immagino – un nuovo “partito”. E neppure rappresenta una compiuta risposta “politica” alla deriva che sta interessando il nostro paese e molte nazioni europee, in conseguenza di cambiamenti epocali e radicali.
Ne costituisce però una delle premesse civili e culturali. Perciò è importante: attenua la diffusa passività di molti difronte ad un modo di fare politica che sta minando alla radice la democrazia.
È una fiammata di consapevolezza e di partecipazione salutare: effimera magari nel tempo e nelle basi costitutive, come tutti i fenomeni maturati attraverso la Rete, ma salutare.

In questo senso, più che per Salvini, è una sfida positiva alle culture politiche democratiche, popolari ed europeiste.
Tocca a loro leggere questo fenomeno, rispettarlo per ciò che esprime, abbandonare ogni velleità impropria di “reclutamento” nelle vecchie categorie partitiche e rispondere invece con un progetto politico che sia all’altezza di ciò che questa partecipazione inedita intende evocare.
Cioè con una una politica credibile, affidabile, trasparente, coraggiosa e coerente con il “bisogno” di futuro.

Una politica rinnovata nei linguaggi, nei contenuti, nei metodi e nella classe dirigente, oltre ogni tentazione di praticare un inesistente “populismo buono”, ma impegnata nel riconquistare il senso autentico della sua missione di guida dei processi di cambiamento. In altre parole, il suo carisma e il suo consenso sociale.
Una bella sfida per quella parte della politica italiana che intende rigenerare su basi nuove il percorso della nostra democrazia intesa come progetto di comunità aperta, solidale, europea, come bene è stato descritto nel Manifesto Zamagni.

Fare teologia dopo Auschwitz

Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Isabella Guanzini

Johann Baptist Metz, una delle voci più autorevoli del pensiero teologico contemporaneo, è scomparso il 2 dicembre all’età di 91 anni a Münster, dove ha insegnato molti anni ed era professore emerito di teologia fondamentale. Fondatore della “nuova teologia politica”, che dichiara la propria discontinuità rispetto alla “classica” teologia politica legata all’opera filosofico-giuridica di Carl Schmitt e alla sua legittimazione religiosa dell’egemonia dello Stato e del regime totalitario, ha avuto un grande impatto sul pensiero teologico post-conciliare. Nato il 5 agosto 1928 ad Auerbach, in Baviera, Metz ha compiuto i propri studi a Bamberga, Innsbruck e Monaco di Baviera laureandosi in filosofia e in teologia. Ordinato sacerdote nel 1954, fu, negli anni post-conciliari, consigliere a Roma nel Segretariato per i non-credenti e cofondatore della rivista teologica internazionale «Concilium».

Discepolo di Karl Rahner (1904-1984), Metz ha saputo intrecciare la sua enorme eredità teorica con la potenza teologico-critica di un pensiero radicalmente innestato nel presente e nel passato della storia. Il programma teologico di Metz si è per questo impegnato sistematicamente nel tradurre politicamente la prospettiva trascendentale rahneriana, accentuando nello stesso tempo le potenzialità mistiche che percorrono l’intera opera del maestro. Per questo si può interpretare la sua opera complessiva — della quale l’importante editore Herder ha nel frattempo pubblicato dieci volumi — come una teologia della contemporaneità in cui mistica e politica si incontrano nello spazio della società plurale e secolarizzata, compenetrandosi reciprocamente.

Teologia politica significa qui, in primo luogo, la considerazione del Cristianesimo come risorsa per il nostro tempo: non certo per ragioni di identità culturale, ma per ragioni di fecondità culturale, umana e spirituale. Contro la tendenza contemporanea di una privatizzazione del Cristianesimo, che reagisce alla sua crescente marginalizzazione culturale ritirandosi in una sfera separata, più intima e personale, Metz si è impegnato a mostrare gli effetti pubblici, sociali e profetici del messaggio cristiano, nella convinzione — che muove in effetti l’intera teologia rahneriana — che la speranza e la salvezza che esso annuncia non siano affatto private, ossia destinate a una parte, ma siano, al contrario, per tutti. Perché «Dio è un tema del genere umano o non è affatto un tema. Gli dèi sono pluralizzabili e regionalizzabili, ma non Dio, non il Dio biblico». Per questo la sua «mistica dagli occhi aperti» rimanda a un atteggiamento che non si riconosce in uno spiritualismo estatico e in una religiosità intimistica, ma in una fondamentale attenzione critica al mondo e ai drammi della storia, che invoca una sorta di risveglio umano e spirituale alle fatiche del vivere comune. Perché l’universalità del monoteismo biblico si fonda secondo Metz sul fatto che si tratta di un discorso su Dio sensibile al dolore.

È chiaro come la sua teologia politica desideri rifuggire dalla riflessività sterile di un linguaggio teologico auto-riferito, destoricizzato, tanto lucidamente e logicamente fondato da non poter non solo integrare ed elaborare ma nemmeno percepire le opacità e le incongruenze dell’umano. La sua proposta teologica, biblicamente ispirata e legata alla tradizione della filosofia critica della cosiddetta scuola di Francoforte, si rivolge agli spazi cittadini del mondo globale, incalzando sia l’insensibilità atmosferica del vivere attuale, segnata da una sempre più profonda amnesia culturale, sia l’apatia di sistema della ricerca teologica di scuola, che mostra una «sorprendente resistenza allo sconcerto».

Alla luce di tale «mistica che cerca il volto», Metz si rivolge in particolare alla lingua della compassione, che non chiude gli occhi di fronte alle storie di dolore, passato e presente, del mondo. La sua teologia politica non intende promuovere una vaga «empatia» (Mitgefühl), ma una percezione partecipante e obbligante del dolore altrui, capace di sostenere lo sguardo dell’altro sofferente almeno un poco più a lungo di quanto lo permettano i riflessi spontanei della nostra autoaffermazione. Si tratta di una sensibilità per la situazione (Situationsempfindlichkeit), disponibile a farsi interrompere dal dolore altrui, in cui l’io non viene semplicemente dissolto, quanto piuttosto rivendicato nella sua responsabilità sociale e politica. Il primo sguardo di Gesù, ha ricordato Metz in più occasioni, non si è infatti diretto al peccato degli uomini, ma al loro dolore. «Questa basilare sensibilità per il dolore degli altri contraddistingue il nuovo modo di vivere di Gesù».

Nel contesto atonale della società contemporanea, in cui si mettono sistematicamente in atto dispositivi di stordimento e di distrazione di massa, soprattutto le giovani generazioni sembrano oggi avere perso la potenza del grido, che per Metz rappresenta la possibilità più autentica di fare esperienza della questione del senso e, non da ultimo, dell’invocazione di Dio. Entro questo orizzonte, in un tempo «della crisi di Dio dalla forma religiosa», ossia in una atmosfera benigna nei confronti delle religioni ma in cui è assente la domanda delle domande, la teologia politica di Metz ha avuto il coraggio di porre, non senza durezza, la questione di Dio come questione della teodicea, ossia il «discorso su Dio come grido per la salvezza degli altri, per coloro che soffrono ingiustamente, per le vittime e gli sconfitti della nostra storia» (Memoria passionis. Ein provozierendes Gedächtnis in pluralistischer Gesellschaft, 16). Per il teologo l’esperienza religiosa non ha nulla a che fare con una pratica di superamento della contingenza o con la ricerca di un supplemento d’anima capace di armonizzarci con l’ambiguità del reale. Metz invita a osservare l’atteggiamento biblico del popolo di Israele che, nel momento della tribolazione, nel tempo del deserto, è rimasto «povero in spirito»: di fronte all’evenienza del dolore non ha infatti cercato vie compensatorie o mitizzazioni che lo elevassero al di sopra della sofferenza, della schiavitù, dell’esilio. È stato capace di rimanere nella tribolazione della vita, accettando la propria debolezza senza mistificazioni. La questione della teodicea non riesce ad acquietarsi attraverso risposte teologiche riconcilianti, che in certo modo sorvolano quei traumi individuali e collettivi che sconvolgono ogni fede nella redenzione ed eludono il grido di sdegno, di protesta o di disperazione di fronte a eventi privi di ogni giustizia e di ogni senso. La questione della teodicea deve restare non-dimenticabile, benché irrisolvibile: non può essere rimossa, benché a essa non sia possibile rispondere del tutto. Metz ritiene che l’intera storia della teologia cristiana abbia trovato un punto di arresto nell’abisso umano di Auschwitz come «topografia dell’orrore», che diviene un passaggio di non ritorno per la questione di Dio per l’uomo contemporaneo. Auschwitz non lascia indenni né il cristianesimo e la sua teologia né la società e la sua politica, in quanto «ha abbassato profondamente il limite del pudore, di natura metafisica, tra uomo e uomo» ed è «diventato un irrinunciabile sopralluogo della nostra coscienza storica». Sarà, in effetti, proprio l’autorità dei sofferenti, nella celebre scena del giudizio in Matteo 25, che giudicherà i singoli e la storia alla fine dei tempi. Si tratta certo di un’autorità «debole», ma che può essere fatta valere in tutte le grandi religioni e regioni del mondo, là dove qualcuno soffre ingiustamente e innocentemente.

Fare teologia dopo Auschwitz significa per Metz porre al centro della dottrina della creazione il grido apocalittico: «Dov’è finito Dio?», ossia la questione non-rispondibile e non-dimenticabile della teodicea, anche come questione di responsabilità e di giustizia per i morti. Si tratta non soltanto di ripensare il rapporto del cristianesimo con l’intera tradizione del popolo d’Israele, ma anche di ripensare la teologia cristiana alla luce di una cultura anamnestica, che si esprime come memoria, come memoria passionis.

Johann Baptist Metz ha mostrato con vera passione politica e onestà intellettuale che il cristianesimo può essere ancora una risorsa per il presente plurale e secolare se non rinuncia alla sua irreconciliatezza, se conserva una sana ritrosia nel rispondere, se vive quella «irrequietezza mistica dell’interpellanza» che è segno di una sensibilità biblica per la situazione. La sua nuova teologia politica resti non solo un ricordo per la società pluralista, ma una viva provocazione per il discorso teologico del presente e del futuro.

L’altro lato della medaglia

Il capolavoro si è ripresentato nel 2019. Pensavamo a un quadro senza precedenti e, invece, l’anno successivo l’artista ci ha consegnato un’espressione ancora più sfavillante.

All’inizio del giugno 2018 eravamo tutti scettici nei confronti di una lunga elaborazione con un prodotto del tutto fuori luogo, eppure l’opera ci era stata consegnata: governo tra 5Stelle e Lega. All’inizio del settembre di quest’anno, un’ulteriore prova di sublime maestria: l’artista è riuscito a sfornare una tela del tutto inconsueta. Due espressioni, una di seguito all’altra che meritano davvero il plauso per l’industriosa e febbrile abilità immaginativa.

Il secondo governo 5Stelle-Pd è sembrato un’altra opera divina. Una divinità burlona, ovviamente. Mettere assieme, saldare il dritto e il rovescio è indubbiamente un’arte non ascrivibile alla facoltà umana. Eppure, tutto questo è successo. Increduli, ma questa giravolta è capitata per ben due volte di seguito.

Qual è la costante che ha permesso una giravolta di questo tipo? Si potrebbe dire che sia il movimento di Grillo: era nel primo come nel secondo esperimento. Ma non è poi così. I 5Stelle hanno modificato le loro rappresentanze e hanno subito sostanziali trasformazioni per passare da un esperimento all’altro. La vera costante, la figura che ha fato e fa da perno a tutto questo è il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

Ditemi voi, se nella nostra storia può essere riconosciuta una figura capace di simili miracoli. Né De Gasperi, né Fanfani, figuriamoci Berlinguer, nemmeno Moro e tolgo anche il funambolico Andreotti, infine escludo pure il fine De Mita e il rubicondo Craxi, nessuna di queste autorevoli figure è riuscita a fare quanto sta compiendo l’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri.

Era mia intenzione illuminare anche questo tratto, che per lo più rimane sepolto nell’oscurità e nel totale disinteresse. Tutti volti, me compreso, a vedere cosa combinano i Ministri, oggi, come allora. È raro, pertanto, illustrare certe virtù che, a conti fatti restano ai margini. Ma io ho inteso, almeno oggi, non passarci sopra.

Non so che cosa accadrà dopo il varo di questa finanziaria, intoppi, nodi, spine si troveranno lungo il cammino del governo giallo rosso. Sapranno superarli? Difficile rispondere, posso solo affermare che avendo un cocchiere con simili attitudini, non posso escludere che sappiano pure attraversare l’inferno.

Certo è che siamo ormai abituati a correre su un filo teso, sempre inclini alle incertezze e ad improvvisi brividi prodotti dal funambolismo in carica.

Non va bene, così non va bene, lo spettacolo è meglio assisterlo al circo o tutt’al più al cinematografo. l’Italia avrebbe bisogno di uno standard più conforme alla tranquillità, non solo per dormire meglio, ma per svegliarci con quella saggia voglia di svolgere i propri compiti, avendo dalla propria qualche rassicurante certezza.

L’attesa dell’inatteso

Articolo pubblicato da Civiltà cattolica a firma di Giancarlo Pani

Il contesto dell’articolo. La nascita di Gesù apre – come è noto – la narrazione dei Van­geli di Matteo e di Luca, con connotazioni diverse legate ai contesti storici in cui essi hanno preso forma. L’Antico Testamento, pur per­meato dall’attesa del Messia, non dà riferimenti espliciti sull’evento, ma una serie di passi può aiutarci a scoprire il senso del racconto evangelico.

Perché l’articolo è importante?

L’articolo commenta infatti i quattro oracoli presenti nel libro di Isaia. I testi sono di epoca diversa e di vario genere letterario, ma uniti da una linea di fondo: un castigo angosciante e drammatico sta per incombere sul popolo di Dio. Quando non c’è più alcuna speranza di evitarlo, ecco giungere all’improvviso la salvezza collegata alla nascita di un bambino, erede di Davide, di nome «Emmanuele», che significa «Dio con noi».

Poi, in questa luce, l’articolo rilegge le due genealogie presenti nel Vangelo di Matteo, in apertura, e in quello di Luca; e propone un’interpretazione del mistero del Natale.

Gesù sembra essere il fanciullo della profezia di Isaia: nasce proprio nella città di Davide, ma si rivela da subito come l’«atteso inatteso», poiché nel suo «natale» egli capovolge radicalmente una idea messianica puramente umana. Il popolo di Israele aspettava infatti un Messia vittorioso, glorioso, potente, capace di liberare il popolo dall’oppressione romana.

Un fatto colpisce nella genealogia di Matteo: essa è formata da una storia umana sconcertante per infedeltà e peccato, fallimenti e miserie, povertà e sofferenza, prostituzione e tradimenti, ambiguità e compromessi. Ogni personaggio, da Abramo in poi, è portatore di una storia pesante. Eppure il Signore si incarna proprio in quella storia; e così nella nostra storia, anche nei risvolti più drammatici e difficili, la fa sua, la prende su di sé, la ama e la redime, perché solo ciò che si ama davvero viene redento.

Quali sono le domande che l’articolo affronta?

  • Quale Messia attendeva il popolo d’Israele?
  • Qual è il mistero, il significato del Natale?

Qui l’articolo completo