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Smartwatch, nel primo trimestre 2019 il mercato è cresciuto del 48%

Le analisi condotte da Counterpoint sul primo trimestre del 2019 indicano che il mercato degli smartwatch è in crescita. Durante i primi tre mesi dell’anno, le spedizioni del settore sono incrementate del 48% rispetto allo stesso periodo del 2018. Con una quota di mercato di quasi il 40%, Apple Watch resta lo smartwatch più venduto, come confermato anche dai dati diffusi dall’azienda di Cupertino.

La popolarità del dispositivo è legata soprattutto alle funzionalità dedicate alla salute. Samsung occupa il secondo gradino del podio con una quota di mercato dell’11,1%.

In crescita anche Fitbit: e Huawei.

Gli analisti di Counterpoint prevedono che nei prossimi anni saranno gli smartwatch dotati di display flessibili a trainare il mercato: un andamento del tutto simile a quello ipotizzato per il settore degli smartphone. In base alle loro stime, i dispositivi indossabili con uno schermo pieghevole diventeranno di massa dopo il 2025.

Tu sei un poeta! A Cori la mostra per raccontare l’universo di Leo Lionni

Fino al 31 Maggio, presso la biblioteca comunale di Cori “Elio Filippo Accrocca”, sarà possibile visitare nei normali orari di apertura al pubblico, la mostra itinerante, “Tu sei un poeta!”, curata dalla casa editrice Babalibri, in collaborazione con l’Associazione culturale Arcadia e il patrocinio del Comune di Cori. Si tratta di percorso celebrativo di conoscenza e divulgazione dell’opera di Leo Lionni, a 20 anni dalla scomparsa dell’artista e nel 60° anniversario della pubblicazione di “Piccolo blu e piccolo giallo”.

Nato ad Amsterdam nel 1910, nel 1939 Leo Lionni deve emigrare a causa delle leggi razziali. Ha vissuto fra Italia e Stati Uniti, lavorando come grafico pubblicitario. Il suo primo libro, “Piccolo blu e piccolo giallo” è stato realizzato durante un viaggio in treno con piccoli pezzi di carta colorata per i due nipoti Pippo e Annie. Nella casa di campagna, fra le colline del Chianti, ha disegnato e realizzato in bronzo piante immaginarie descritte nel libro “La botanica parallela”. Amava la musica e suonava la fisarmonica. È morto nel 1999.
Leo Lionni ha creato un mondo magico e incantato. I protagonisti dei suoi libri sono coccodrilli esploratori, topini curiosi, poeti, musicisti, pesci alla scoperta del mondo, lumache dal guscio multicolore, civette, alberi parlanti, uccelli dorati. Sono bambini che giocano e abbracciandosi cambiano colore.

I 10 pannelli in esposizione riprendono i personaggi più rappresentativi dell’universo di Leo Lionni preceduti da un pannello introduttivo. I visitatori saranno coinvolti in attività creative e di stimolo alla riflessione.

L’iniziativa rientra nel Maggio dei Libri, campagna nazionale di promozione della lettura a cura di MiBACT e Cepell, alla quale l’Istituto Culturale di Cori aderisce con vari appuntamenti: Libri Salvati, progetto dell’Associazione Italiana Biblioteche (10 Maggio, 18:00); Maratona Nati per Leggere, insieme al Gruppo Locale Nati per Leggere (20-24 Maggio); presentazione del libro “La colomba e il caduceo” di Giuseppina Rossi e Giancarlo Onorati, nell’ambito del Sistema Territoriale delle Biblioteche dei Monti Lepini (31 Maggiore, 18:00).

Congo: l’epidemia di Ebola che non si ferma

È l’allarmante bilancio reso noto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

Sono circa 12mila le persone nella Repubblica democratica del Congo sotto osservazione perché potrebbero essere entrate in contatto con il virus. Il bilancio delle vittime  è salito a oltre 1.000.

L’epidemia nella Rdc è iniziata nell’agosto scorso ed è la seconda che ha provocato più morti nella storia.

Inoltre visiti gli scontri sempre presenti sul territorio, anche i centri medici di assistenza ai malati di ebola sono vengono attaccati da miliziani e dalla popolazione  che “teme il contagio”.

In queste settimane oltre un centinaio di medici e personale sanitario straniero hanno manifestato a Goma per denunciare l’inerzia delle autorità locali.

Caro David, che ne pensi di Biden? “Io voto Warren”. Alinsky Jr. parla delle primarie americane.

Camera dei Deputati - 14 luglio 2011 - A destra nella foto David Alinsky

Ho conosciuto David qualche anno fa. Venne in Italia perché “Il Mulino” aveva pubblicato un mio lavoro sul padre, il radicale ebreo-americano Saul Alinsky.   Anni fa Jacques Maritain ne Il contadino della Garonna – libro controverso (Parigi, 1966) perché critico con il post-Concilio – lo aveva indicato come uno dei tre rivoluzionari del suo tempo, gli altri due essendo il cileno Edoardo Frei e lui stesso, il filosofo francese. L’amicizia tra di loro fu cementata dalla curiosità per le rispettive attitudini e convinzioni. Maritain, in una lettera, provava ad applicare a Saul la categoria del “tomista di strada”, pur non avendo molto a che vedere con la filosofia dell’Aquinate.  

Era l’estate del 2011, a Roma il caldo si faceva sentire. David venne con la sua signora, Joanne, e passammo alcune giornate piacevoli, in occasioni pubbliche e private, tra commenti e ricordi sempre vivaci, specialmente sulla figura del padre. David possiede dell’americano medio il classico pragmatismo, intriso però di quell’acume critico e senso di introspezione tipici della cultura ebraica. Presentammo il libro presso la Camera dei Deputati e poi alla Festa dell’Unità a Caracalla. Da quel momento siamo rimasti in contatto, trovando modo di comunicare, volta a volta, le cose più importanti.

Recentemente gli ho scritto per sapere cosa ne pensasse della candidatura, appena presentata, di Joe Biden. A mio parere, dopo aver atteso a lungo, l’ex vice Presidente di Obama ha fatto la scelta più giusta e coraggiosa, proponendo una possibile soluzione in alternativa alla consacrata (e deleteria) polarizzazione del confronto democratico che in America ha condotto alla vittoria di Trump.

Secondo una interpretazione originale, di cui si è fatto interprete sul “New York Times” (“The Revolt of Democratic Elites” – 2 maggio 2019) David Brooks, la radicalizzazione del bipartitismo americano avrebbe un’origine diversa, e quindi uno sviluppo altrettanto diverso, per i Democratici e i Repubblicani. I primi sono attraversati da un sentimento di “rivolta”, che nasce appunto dai vertici, ovvero dall’establishment intellettuale, mentre la base popolare conserva mediamente un approccio moderato. A rovescio, nel partito repubblicano ha preso piede una corrente radicale che ha investito  direttamente gli elettori, essendo il gruppo dirigente più legato alla visione di un confronto a sfondo tradizionale, quindi più attento alle esigenze di una certa politica bipartisan.

Se questa è la raffigurazione più corretta della dialettica politica operante negli Stati Uniti, non è difficile comprendere il successo  della “socialista” Ocasio-Cortez nel campo democratico. Molti candidati alle primarie, a partire dal vecchio Sanders, si atteggiano a campioni della lotta contro la finanza predatrice e il potere dei grandi gruppi economico-imprenditoriali. Il populismo ha radici antiche negli Stati Uniti. Stavolta, allora, il centrista Biden si presenta come l’uomo della sfida, pronto ad andare contro corrente, perché rimette in discussione l’assunto in base al quale solo un radicale di sinistra può vantare i requisiti giusti per affrontare e battere la “politica estremista” dell’attuale inquilino della Casa Bianca.

La risposta di Dave – di seguito riportata in inglese e italiano – non si è fatta attendere. Si nota, tra le righe, che la figura di Biden incontra la sua stima. Tuttavia, da buon democratico bostoniano, i suoi favori vanno alla governatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren. Del resto, non potevo sperare che il figlio del grande reinventore e interprete del radicalismo americano del Novecento fosse attratto dal moderato Biden! Rimango però convinto, a parte i sondaggi,  che sia lui il candidato che incarna meglio l’ambizione dei Democratici a porsi come alternativa credibile nelle elezioni del 2020. La strada è lunga, staremo a vedere.

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Dear Lucio,

With 20 some candidates some of whom I don’t even know, Biden is probably the best middle-of-the-road candidate but he’s carrying a lot of political “baggage” and I’m not sure he can stand up and return, blow for blow, the punishment and the lies Trump will throw at him.  Sanders (to me) is really un-electable.  Warren is also on the far (but not extreme left) and presently I am in support of her.  She can give as good as she’s going to get, has some interesting programs – and how to pay for them – and can certainly stand up to Trump.  Pete Buttigieg, Mayor of South Bend, Indiana is also very interesting and worth watching. There are a few others but it’s very early yet so we shall see.

Best to you my friend,

David

Caro Lucio,

con 20 candidati, alcuni dei quali nemmeno conosco, Biden è probabilmente il miglior candidato di centro. Tuttavia sulle spalle reca un voluminoso “fardello” politico e non sono sicuro che possa resistere e rispondere, colpo su colpo, all’aggressione e alle bugie che Trump riverserà su di lui. Sanders (per me) è davvero poco eleggibile. Invece Warren è su posizioni più di sinistra (ma non di estrema sinistra), tant’è che al momento mi ritrovo schierato a suo favore. Lei garantisce quanto ha in animo di ottenere, presenta alcuni programmi validi – insieme a come fare per sostenerne il costo – e possiede certamente i requisiti per resistere a Trump. Anche Pete Buttigieg, sindaco di South Bend, Indiana, è molto interessante e vale perciò la pena di tenerlo d’occhio. Ce ne sono ancora altri, ma è presto per darne conto, e quindi staremo a vedere.

I migliori auguri a te, amico mio.

David

Il cerchio magico del potere e la politica economica

E’ possibile fare uscire il Paese dalla crisi senza affrontare le cause vere? Evidentemente no. Eppure è quello che succede. Dunque è lecito chiedersi perché ciò non avviene.

Nel mondo, ed in modo particolare in Italia, è in atto un impressionante fenomeno di ricostituzione della ricchezza privata, come dimostra il rapporto capitale/reddito oramai prossimo a 7 volte! Infatti a fronte di un reddito nazionale di circa 1750 miliardi la ricchezza privata è di oltre 12.000 miliardi.

Parallelamente è in atto un altrettanto significativo processo di concentrazione dei patrimoni e dei redditi individuali.

Un solo dato: 1%. degli italiani possiede il 25%  del patrimonio ( 3.000 miliardi) e guadagna un reddito nazionale pari al 10% ( 175 miliardi).
Di contro il 50% più povero degli italiani detiene  solo il 5% del patrimonio e guadagna il 25% del reddito!
Eppure nessuno ne parla. Perché?

Perché parlarne significherebbe già di per sè mettere il discussione lo scandaloso livello delle disuguaglianze del nostro Paese, destinate peraltro a crescere ancora.
Meglio “cazzeggiare” parlando di crescita del PIL e soprattutto di flat tax.

Chi detiene il reale potere economico/finanziario e, alla lunga, politico, del nostro Paese può permettere tutto, tranne una cosa: che si metta in discussione questa  evoluzione e  concentrazione.
Cioè la causa della nostra crisi attuale.

Fino a quando il “popolo” ( il 99% degli italiani) non prenderà coscienza di ciò e sfiderà il potere (1% ) l’ Italia non uscirà dalla crisi.

È possibile? Si. Ma è difficile perché il cerchio magico controlla tutto, soprattutto stampa e università, le sedi naturali di un pensiero critico e democratico, come ha dimostrato il prof. Thomas Piketty scrivendo “Il capitale nel ventunesimo secolo”, un libro  che vale un Nobel che mai gli verrà assegnato.

Da Milano a Roma a piedi con croce sulle spalle

Un viaggio lungo e faticoso quello di Gennaro Speria, ex carcerato che uscito dal carcere ha scelto di dedicarsi ai ragazzi di strada per insegnare loro valori importanti che lui ha scoperto pagandone le conseguenze.

Da 7 anni Gennaro racconta questi valori ai giovani e ha deciso di partire da Milano e raggiungere Roma a piedi con una croce sulle spalle, e durante il viaggio già tanti giovani lo stanno raggiungendo poiché avendolo scoperto sui social hanno deciso di incontrarlo di persona.

Le stelle del tennis mondiale al Foro Italico

La 76esima edizione degli Internazionali BNL d’Italia si svolgerà dal 6 al 19 maggio al Parco del Foro Italico.

Dal 2011 il torneo si gioca con la formula “combined event”: le gare del tabellone femminile si alternano a quelle del maschile. Nella stessa giornata, come nei quattro tornei del Grande Slam, sarà possibile ammirare il numero uno al mondo Novak Djokovic, Rafa Nadal  e gli altri top player a cominciare dai Next Gen Alexander Zverev (vincitore nel 2017 e finalista lo scorso anno) e Stefanos Tsitsipas. Nella entry list è presente anche Roger Federer. Sempre nella stessa giornata si potranno applaudire le protagoniste del circuito femminile: da Serena Williams, che torna al Foro Italico dopo tre anni, alla numero uno Wta Naomi Osaka, da Simona Halep a Elina Svitolina, vincitrice delle ultime due edizioni. Gli appassionati potranno inoltre sostenere le azzurre e gli azzurri: da Camila Giorgi e Sara Errani a Fabio Fognini (recente trionfatore a Monte Carlo), Andreas Seppi, Marco Cecchinato e Matteo Berrettini (vincitore la scorsa settimana a Budapest).

Un appuntamento da anni a pieno titolo tra i più prestigiosi del calendario mondiale. Le prime gare si giocheranno già sabato 4 maggio con le pre-qualificazioni; sabato 11 e domenica 12 le qualificazioni e anche 8 incontri del main draw maschile. Domenica 19 maggio le finali.

Gli incontri dei tabelloni principali saranno suddivisi in due sessioni, una diurna e una serale. L’inizio alle ore 11 su tutti i campi. Sul Centrale, giudicato da tennisti e addetti ai lavori come lo stadio con la miglior visibilità al mondo, la sessione serale avrà inizio alle ore 19.30: in campo un incontro maschile e uno femminile.

Sulla Grand Stand Arena il programma proporrà, invece, una “long session” (cinque match al giorno a partire dalle ore 11) che offrirà agli appassionati un “menu” lunghissimo e di prim’ordine. Semifinali e finali si giocheranno sul Centrale.

Il glifosato non provoca più il cancro

L’Epa conferma quanto già detto in precedenza scagionando l’ingrediente chiave del pesticida Roundup della Monsanto, azienda ora controllata dalla Bayer.

Contro la Monsanto ci sono 13 mila cause sui presunti effetti del glifosato, una delle quali è una class action. Già due sentenze hanno condannato l’azienda a risarcimenti milionari.

L’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, ha espresso un giudizio rassicurante con una valutazione che ricalca quelle dei produttori del glifosato.

In particolare ha aggiornato il profilo tossicologico e dichiarato che “è improbabile che il glifosato costituisca un pericolo di cancerogenicità per l’uomo” proponendo “nuovi livelli di sicurezza che renderanno più severo il controllo dei residui di glifosato negli alimenti”.

Ma sempre l’Oms assicura che pesticidi ed erbicidi avrebbero causato la morte di almeno 200mila persone, nel mondo, per avvelenamento.

Azione Cattolica. Truffelli: “Camminare insieme a persone di ogni età, condizione sociale e culturale”

Fonte Agensir a firma di Andrea Regimenti

“Essere popolo per tutti vuol dire sapere che la nostra vocazione, che è anche la nostra identità, è quella di camminare insieme a chiunque”. Ne è convinto Matteo Truffelli, presidente nazionale dell’Azione cattolica (Ac), impegnato in questi giorni a Chianciano Terme nel convegno delle presidenze diocesane. Un’occasione per riflettere “sul tema della fraternità come categoria unificante, attraverso la quale l’Ac intende declinare il tema del popolo ‘civile’ poiché ‘il primo nome di cristiani è fratelli’”. A margine dell’evento il Sir lo ha intervistato.

Presidente, cosa vuol dire oggi essere un popolo per tutti, riscoprirsi fratelli e stare nella realtà del nostro tempo?
“Essere popolo per tutti vuol dire sapere che la nostra vocazione, che è anche la nostra identità, è quella di camminare insieme a chiunque, a quella che nel Vangelo viene chiamata ‘la folla’.

Camminare insieme a persone di ogni età, condizione sociale e culturale, credenti e non credenti, prendendoci cura della vita concreta e dei bisogni più profondi della loro esistenza.

Consapevoli del fatto che tutti questi bisogni hanno alla radice una necessità fondamentale: riscoprire dentro la vita la presenza del Signore. Se essere ‘popolo per tutti’ significa quindi aiutarci reciprocamente a riscoprire la presenza del Signore, esserlo come fratelli implica invece una seconda domanda fondamentale, quella che il Signore pone a Caino: ‘Dov’è tuo fratello?’. Questa domanda deve guidare ogni nostra riflessione e ogni nostro programma di vita, ovvero cosa fare per essere dove sono i nostri fratelli, per scoprire in ciascuno il volto di un nostro fratello, compreso chi è diverso da noi.

Il fratello è anche l’altro.

Questo ha una valenza ancora più particolare nella dimensione della città, perché è lo spazio in cui la fraternità va scelta, non te la ritrovi come famiglia”.

Questa è una prerogativa che spetta solo ai cattolici?
“Non è chiaramente una prerogativa esclusivamente cattolica. È un elemento che nasce dal desiderio di convivere, del vivere bene insieme. In questo senso

la dimensione della fraternità diventa fondativa della città, perché diventa lo spazio in cui essa viene messa alla prova essendo le città anche un luogo di sopraffazione, violenza, ingiustizia.

Non si devono chiudere gli occhi davanti a queste situazioni, ma bisogna accettare la sfida di prendersene carico”.

Papa Francesco, nell’ Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, in un certo modo lancia questa sfida. “La sfida – scrive il Pontefice – di scoprire e trasmettere la ‘mistica’ di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità”. Cosa ne pensa?
“Da questo punto di vista l’Evangelii Gaudium è molto provocante, perché ci spinge a interpretare la nostra identità di credenti come un qualche cosa che non può essere circoscritta a noi stessi, ma che ci chiede di cercare gli altri come necessari compagni del nostro camminare dentro al mondo.

La ‘mistica del vivere insieme’ è proprio questo sentimento di bisogno che noi abbiamo degli altri e che abbiamo di camminare insieme con gli altri e per gli altri.

È realizzazione della nostra identità più profonda”.

Questo include anche le drammaticità del nostro tempo?
“Certo! Quando parliamo di fraternità, di camminare insieme, non possiamo farlo pensando che sia tutto ‘rose e fiori’. La condizione della convivenza tra gli uomini è sempre anche una condizione di drammaticità e proprio per questo deve essere un camminare insieme che sa farsi carico delle situazioni di criticità, a partire da coloro che, dentro la città, meno sono ritenuti fratelli, come chi vive nella marginalità, chi non è considerato cittadino perché non membro della comunità e chi addirittura viene ritenuto membro di un’altra fraternità, quelli che consideriamo avversari o nemici. Lo scoprire in ciascuno di essi tratti fraterni ci aiuta a capire e ricordare che apparteniamo tutti a una sola universale famiglia, quella umana”.

Nella grande famiglia umana c’è anche la grande famiglia europea, che si sta preparando all’importante appuntamento delle elezioni di fine mese. Cosa auspica?
“Le elezioni europee sono un passaggio importante da cui dipende, più di quello che crediamo, il futuro del nostro Paese.

Noi siamo abituati a pensare alle elezioni europee come a qualche cosa di relativamente importante. Invece, sempre di più, dobbiamo acquisire la consapevolezza che stare in Europa è decisivo per il nostro futuro.

Pertanto, si deve arrivare a queste elezioni con consapevolezza, sapendo per cosa e come si vota, e sapendo anche che dal modo in cui staremo dentro l’Europa dopo l’appuntamento elettorale dipenderà gran parte di quello che l’Italia potrà essere, perché, in un contesto di fortissima globalizzazione, da soli non possiamo sopravvivere né tantomeno essere protagonisti. Possiamo essere protagonisti solo se lo facciamo assieme a tutta l’Europa”.

In questo senso quanto è importante riscoprire i valori che hanno ispirato i padri fondatori? Alcide De Gasperi, ad esempio, il 21 aprile 1954 alla Conferenza parlamentare europea di Parigi, ha parlato dell’Europa come della “nostra patria”…
“Sì! Dobbiamo riscoprire, saper ridire e saper rilanciare le ragioni del nostro stare in Europa come cittadini europei, che sono certamente legate anche ai benefici economici e di vita, ma ancora di più a un progetto di convivenza pacifica dentro al Continente e per il resto del mondo. Questi sono i fondamento entro i quali dobbiamo riscoprirci europei”.

Se l’aspirazione all’unità non è più una costante

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Flavio Felice

Una «costante della storia mi pare possa dirsi l’aspirazione e la tendenza degli uomini all’unità, ad una unità sempre maggiore». Sono queste le parole che introducono l’intervento di Alcide De Gasperi alla tavola rotonda sull’Europa che si tenne a Roma il 13 ottobre 1953, intitolato: «Il problema spirituale e culturale dell’Europa considerato nella sua unità storica, e i mezzi per esprimere tale unità in termini attuali». Lo statista italiano considerava una tendenza spontanea quella che va da aggregati di scala minore, come il comune, le province e le nazioni, ad aggregati più ampi che possano rispondere al «desiderio di Dio» che tutti gli uomini siano uno: «Ut unum sint» (Giovanni, 17; 22).

L’intenzione che muove De Gasperi e, insieme a lui, l’opera dei padri del processo d’integrazione europea è di lavorare per questa unità, affinché non siano «la crudeltà» e «l’odio» a muovere e a reggere le ragioni della coesistenza civile, bensì il valore della pace: «noi proponiamo e promuoviamo l’Europa unita in sé e per sé». Così come le città unite hanno dato vita alle nazioni, De Gasperi immagina che le Nazioni Unite possano dar vita al processo di unificazione europea, sebbene, precisa De Gasperi, mancandoci la «cosa», ci manchi ancora il «nome»; in pratica, emerge il metodo gradualista o processuale dello statista democristiano, il quale non intende ingabbiare il progetto europeo all’interno di un determinato schema istituzionale, in nome di un dogmatismo dottrinale. De Gasperi, non volendo rinchiudere il progetto europeo all’interno dello schema federale, confederale o altro, si limita a dire che «le nazioni europee creeranno l’Europa».

Le sorgenti culturali che nutrivano il progetto istituzionale degasperiano erano la civiltà classica, l’Europa medioevale, l’età moderna e, affermava De Gasperi, anche la sua contemporaneità, con tutto il carico di desolazione di cui essa era portatrice. Sebbene nel Nostro fosse chiaro il portato universale del cristianesimo che lo renderebbe indisponibile a qualsiasi riduzione geopolitica, riconosceva che non possiamo neppure immaginare l’Europa senza il cristianesimo, fonte di culture politiche e, inevitabilmente, di prospettive sul diritto e sulla socialità, ispirate ai principi di fraternità, di tolleranza, di giustizia e di pace.

Per questa ragione, osservava De Gasperi, l’Europa, almeno nei suoi «elementi spirituali», appariva già abbastanza unita, ciò che mancava erano gli «elementi materiali», quella implementazione istituzionale che rappresentò il vero capolavoro politico dei padri fondatori, intendendo per politica «la via istituzionale della carità» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 7), e che condusse al processo d’integrazione europea che, pur tra alti e bassi, è ancora in corso.

Tra gli aspetti più significativi di tale processo, abbiamo la condivisione, da parte di De Gasperi, del modello economico chiamato «economia sociale di mercato», sintetizzato dallo statista trentino con l’espressione, forse oggi equivoca, ma all’epoca molto diffusa, di «terza via» e inserito nel trattato di Lisbona all’articolo 3: «L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il progresso scientifico e tecnologico».

De Gasperi ha più volte richiamato tale espressione sia in sede di Assemblea costituente, il 4 ottobre del 1947, sia durante i lavori parlamentari, il 14 febbraio del 1950, sia in occasione del discorso al Congresso della Democrazia Cristiana del 25 novembre 1952, unitamente al corollario di idee politiche, economiche e culturali, tanto nel contesto domestico quanto in quello internazionale, di cui un tale concetto è portatore. Lo statista democristiano riconosce come la teoria dell’economia sociale di mercato possa offrire un contributo originale al rinnovamento della cultura politica liberale europea, fornendo concetti e mostrando una sensibilità non così distanti da quell’umanesimo cristiano che aveva ispirato la nascita della Dottrina sociale della Chiesa e l’opera di tanti pensatori sociali cristiani, fino all’elaborazione politica, economica e sociologica di un esponente della cultura europea come Luigi Sturzo.

L’attenzione di De Gasperi alla nozione di «terza via», così come è stata elaborata dall’economista svizzero tedesco Wilhelm Röpke, è carico di conseguenze rispetto, ad esempio, nei confronti dei possibili sviluppi che la cultura politica del cattolicesimo popolare e la cultura liberale avrebbero potuto testare, e che solo in parte hanno sperimentato, in merito al ruolo di regolatore e di arbitro imparziale, e non di giocatore, dello Stato nell’economia e all’idea stessa di uno «Stato forte» che scongiuri la deriva totalitaria. È interessante leggere come De Gasperi, nel 1950, trovi ormai «ridicolo polemizzare con il liberalismo», come se fossimo ancora ai tempi della Breccia di Porta Pia, essendo venute meno quelle contrapposizioni ideologiche che ponevano in maniera «semplice» e «rude» l’alternativa tra «collettivismo» da una parte e «capitalismo» dall’altro, contrapposizione — a detta di De Gasperi — superata dalla teoria di Röpke che distingue tra un’economia programmatica, conforme al mercato, ed una difforme ad esso.

Un altro tema dal quale, leggendo alcune dichiarazioni di De Gasperi, sembrerebbero riecheggiare i principi dell’economa sociale di mercato e caro a tutta la tradizione ordo-friburghese, è l’affermazione di uno «Stato forte» per una società libera. Come afferma Pier Luigi Ballini, De Gasperi precisò il senso di una locuzione così problematica in un’intervista rilasciata al Messaggero l’8 luglio del 1952, dove alla domanda: «Crede lei allo Stato forte», il leader democristiano risponde: «Lo Stato forte? Sicuro, io credo nello Stato “forte”. Ma bisogna intendersi sulle parole. “Forte” significa reazionario e totalitario? Regime arbitrario o addirittura di classe borghese o proletaria o regime prevalentemente militare? Significa, infine, lo Stato politico? Se si escludono queste interpretazioni, lo “Stato forte” non può essere che quello ove si rispetta e si fa rispettare la legge. La legge, cioè la Costituzione e tutte le altre leggi che sono in vigore e che servono per applicarla». È questa, in buona sostanza, anche l’idea espressa da Röpke, il quale, nella ricerca di una soluzione qualitativamente alternativa tanto alla soluzione libertaria quanto a quella totalitaria, delinea i contorni di «uno Stato che sa tracciare esattamente il limite tra l’agendum e il non agendum, che nel campo spettantegli fa valere con ogni energia la propria autorità, tenendosi invece lontano da ogni immissione al di fuori di quel campo; un arbitro robusto, il cui compito non è né di prender parte al gioco né di prescrivere ai giocatori tutte le mosse, ma invece di vegliare con assoluta imparzialità e incorruttibilità per la più stretta osservanza delle regole del gioco e della correttezza sportiva». Un ruolo per lo Stato che sia «forte ma non affaccendato», per usare un’efficace espressione di Dario Antiseri. Un’idea peraltro condivisa da altri illustri esponenti del pensiero liberale del Novecento: «È alla luce di riflessioni di grandi pensatori come L. von Mises, F.A. von Hayek, K.R. Popper, L. Sturzo e L. Einaudi che appare chiara l’inconsistenza della nefasta falsità stando alla quale il liberalismo non significherebbe altro che «assenza dello Stato», e cioè uno «sregolato laissez faire – laissez passer» o, in altre parole, una giungla anarchica dove scorrazzano impuniti pezzenti ben vestiti ingrassati dal sangue di schiere di sfruttati».

Ritornando all’intervento di De Gasperi dal quale siamo partiti, possiamo concludere che la sua visione europeista fa i conti con il realismo tipico dell’uomo politico, consapevole delle ragioni spirituali dell’unione, ma non per questo soddisfatto e appagato, dal momento che, affinché si dia un’unione politica, è necessario avviare un processo di istituzionalizzazione tutt’altro che scontato. Tale processo prevede alcuni punti fondamentali. In primo luogo, al pari di Sturzo, De Gasperi proponeva la progressiva integrazione della Gran Bretagna e della Russia. In secondo luogo, i popoli europei si sarebbero dovuti definitivamente liberare da secoli di rancori e di pregiudizi che alimentano infondati complessi di superiorità e di inferiorità. In terzo luogo, la progressiva riduzione delle barriere che limitano il movimento degli uomini, delle idee e delle cose; un essenziale prerequisito per la cooperazione tra nozioni, per la giustizia sociale e per la pace. In quarto luogo, procedere gradualmente e «ricercare l’unione soltanto nella misura in cui è indispensabile», preservando, dunque, l’indipendenza in tutti quei campi della vita spirituale, culturale e politica che possano conservare le «fonti naturali della vita comune». Infine, promuovere l’integrazione a partire dal principio: «unità nella varietà delle forze naturali e storiche». Probabilmente in questi anni abbiamo dimenticato l’eredità degasperiana e abbiamo parlato troppo di burocrazia europea e troppo poco di economia reale europea, ancor meno di politica europea e di cultura europea. I Padri fondatori dell’Ue, e con loro Giovanni Paolo II e Helmut Kohl, avevano una visione dell’Europa come famiglia di nazioni che unificava nazioni affratellate da una comune radice cristiana. Era una Europa «nazione di nazioni», in cui la propria originaria identità nazionale si ampliava in una più comprensiva identità europea. Per tale ragione era essenziale che questa Europa avesse delle radici: ebraico-cristiane e greco-latine. Avere delle radici significa anche avere dei confini, aprirsi gradualmente a chi ci è più vicino. I popoli possono essere generosi verso i profughi, ma vogliono possedere le chiavi di casa propria e costruire la fratellanza universale a partire dalla unità con quanti sono culturalmente più vicini. L’apertura illimitata e indiscriminata genera alla fine un timore e un rifiuto altrettanto illimitato e indiscriminato.

Forse dovremmo ripartire dal progetto degasperiano, non volendoci arrendere al populismo autarchico, al totalitarismo aggressivo e al protezionismo liberticida, amando la libertà propria e altrui più di ogni altra cosa e amando la patria altrui almeno quanto la propria. Consapevoli che nessun ordinamento burocratico può evitare e negligere la realtà che esiste sempre qualcosa, come recita il testamento spirituale di Röpke, “oltre l’offerta e la domanda”; questo qualcosa è la dignità della persona (Su questo tema rinvio al “Rapporto Globale sulla Dignità Umana”, curato dalla Fondazione Novae Terrae). Un ordine etico, quello della dignità umana, che chiede ancor oggi di essere compreso con la massima urgenza e profondità, per non correre il rischio di essere sacrificato sull’altare tecnocratico ovvero dell’anarchismo degli interessi individuali, rispettivamente, figli di una logica neocorporativa o lobbistica e di un ottimistico disinteresse per le ragioni dell’ordine sociale e della civitas humana.