Il monumento che manca è quello alla normalità della vita vissuta

Un monumento serve a immortalare una prodezza, un gesto, un personaggio. Chi passa, osserva, inquadra l’epoca, scruta la lapide, cerca lo sguardo fiero di chi ha meritato tanta gloria, ricostruisce gli eventi e se non ci riesce da solo si fa aiutare da qualche bene informato di passaggio: tutto si spiega in una posa, sintesi di una vita da consegnare ai posteri. Pochi busti, molti cavalli con relativi fantini: si vede che il cavaliere è un genere che non passa mai di moda. Una volta se ne vedevano di più nei cortili, nelle piazze, ai crocevia, ora bisogna proprio andarseli a cercare.

Una spiegazione c’è: se servono ad esaltare le virtù umane il sillogismo è presto fatto, si vede che stiamo vivendo tempi di recessione morale. Meno virtù, meno monumenti. Si tratta infatti di un repertorio legato al passato, quando si avvertiva il senso e il peso di un gesto, di una prodezza, di una parola. Chi erigerebbe oggi un simile tripudio di marmo a chi avesse anche solo il coraggio di dire “obbedisco”? Quei pochi che restano, in genere, sono proporzionati al contesto: piazza grande, personaggio grande, monumento grande e il contrario per tutto il resto.

Adesso l’umanità non ha più tempo per fermare la posa, serve spazio per il traffico e le rotonde evitano anche le soste e i semafori. A parte qualche lapide smunta e sbiadita ai ‘militi ignoti’, trovo che il monumento celebri soprattutto il genius loci, con le dovute eccezioni come da tradizione nazionale, essendo stato quello italiano notoriamente un popolo di santi, poeti, navigatori ed eroi. Essersi fermati qui è anche un segno di pudore: potremmo erigere monumenti a opinionisti, politicanti e influencer? Trattandosi di riconoscimenti postumi forse, un domani, qualcuno ci ripenserà.

Ma i simboli di oggi hanno significati a volte indecifrabili: vedi tre cerchi al centro di un’aiuola e pensi “che cosa vorrà dire?”, poi qualcuno ti spiega che è un elogio perenne all’intercultura e all’amicizia tra i popoli, un valore oggi in disuso e in riarmo. Mi pare che i simboli e le allegorie dei nuovi monumenti replichino i significati imperscrutabili del nostro tempo: ognuno ci può vedere quello che crede, salvo che non venga pietosamente dettagliato a margine. Trovo inoltre che i monumenti servano a immortalare un gesto, un attimo, un’azione, un avvenimento, per cui legano il tempo breve di una sola cosa alla memoria dell’eternità.

Mi pare che manchino invece monumenti alla vita della gente normale, l’elegia dell’uomo qualunque, ma non per questo del qualunquismo. Eppure dovremmo ricordarci reciprocamente più spesso che oltre il gesto, il clamore, dell’evento, l’episodio, la battaglia è la santa e paziente quotidianità, spesso sommersa e ignota ai più, che spinge avanti i destini del mondo. So di gente che ha lavorato una vita compiendo sempre il proprio dovere senza ricevere neppure il ’grazie’ del commiato, padri e madri che hanno cresciuto con grande sacrificio i propri figli per esserne -da vecchi- abbandonati, uomini che per il lavoro hanno chinato il capo di fronte a soprusi ed  angherie dei prepotenti, donne umiliate nella violenza e rese silenti dalla vergogna, giovani che hanno studiato onestamente e con impegno sperando che il rispetto verso la scuola e il sapere li avrebbe prima o poi ricompensati, malati sopportare con rassegnazione il destino della sofferenza e del dolore, bambini abbandonati e senza nome, un’umanità variegata e composita che ha saputo attendere tutta la vita un’improbabile occasione di riscatto.

Persone che hanno ammantato di normalità la loro sofferenza per renderla pudicamente impercettibile, che hanno combattuto l’ingiustizia e la solitudine continuando ad amare la vita e a rispettare il prossimo. Gente di cui non si parlerà mai, confusa nel grigiore di una massa privata di eclatanti identità. Nessuno ha mai eretto monumenti alla normalità, come se fosse una cosa mediocre e senza valore, dimenticando che la fatica di vivere i gesti della quotidianità è la vera epopea dell’esistenza, senza cavalli, mostrine, stellette e feluche.

Ecco a me piacerebbe – non so a voi – che almeno in qualche parte del mondo, in un posto qualunque, nella banalità di una piazza senza storia e senza epoca qualcuno erigesse un monumento alla memoria di quanti hanno vissuto onesti e dimenticati. Non per celebrare l’anonimato come valore ma per far capire a chi passasse di lì e osservando chiedesse – “chi sarà mai?”- che a volte il vero eroismo non si celebra nel singolo gesto ma nella lunga, silente rassegnazione di chi è stato capace di vivere fino in fondo senza mai ribellarsi al destino di una consapevole soccombenza.