La battaglia di don Minzoni nell’orizzonte della democrazia cristiana e del popolarismo

Il martirio di don Giovanni Minzoni, il 5 agosto del 1923, mise a nudo l’odio dei fascisti contro i popolari. Era un prete coraggioso, per questo pagò con la vita. Dentro questa storia c’è l’esempio che interroga le nostre coscienze.

Il ricordo di don Minzoni obbliga a riflettere sulle nostre radici politiche, ma più ancora culturali e religiose. Abbiamo bisogno di scavare fino in fondo. Non veniamo da una storia qualunque e non siamo autorizzati, pertanto, a misconoscerne il valore e le implicazioni. L’agguato mortale al parroco di Argenta, il 5 agosto del 1923, mise a nudo l’odio dei fascisti contro i popolari. Pochi mesi prima, al congresso di Torino, Sturzo aveva compiuto l’ultimo strappo che gli costerà l’esilio per vent’anni: il partito usciva dall’incertezza e rompeva con il governo Mussolini. Da quel momento i popolari  entravano nell’occhio del ciclone e iniziavano a pagare il prezzo, sempre più duro, della loro intransigenza.

Don Minzoni, per giunta, conobbe fin da giovane la morsa dell’anticlericalismo come “griglia” della rossa Romagna. In occasione del cinquantenario della sua morte, Mario Scelba ne seppe dare conto con limpida descrizione davanti al Consiglio nazionale che il segretario della Dc, Amintore Fanfani, aveva convocato solennemente a Ravenna. “Don Minzoni – disse Scelba – seguì la vocazione di sacerdote, sapendo di dover operare in una regione ove, per ragioni storiche, il prete – a quel tempo – era letteralmente odiato, e ove la politica, infeudata, anche per l’assenza dei cattolici, ai partiti cosiddetti «laici», non si fermava dinanzi all’altare, ma anzi era protesa attivamente a distruggere gli altari; in una regione in cui, per le misere condizioni del proletariato agricolo e l’indole dei cittadini, le lotte sociali si svolgevano con una asprezza tale da richiamare su di esse l’attenzione preoccupata della Nazione e quella degli stranieri”.

E proprio in Romagna, di fronte al radicalismo dei mangiapreti, venne alla luce fortemente la testimonianza dei giovani democratici cristiani. Avevano Romolo Murri come alfiere di una originale seminagione di pensiero e di azione, per dare gambe al messaggio di giustizia sociale divulgato dalla Rerum novarum. Dobbiamo capire quegli anni di tensione e di fervore, quando le nuove leve dell’intransigentismo cattolico presero a misurarsi con l’urgenza di una mobilitazione sulle stesso terreno dei socialisti, senza complessi di inferiorità, anche in contrasto con essi. Il linguaggio non era modulato sulle note della moderazione. Alla luce del murrismo, don Minzoni indicherà l’orizzonte di quella che per lui era la “santa democrazia cristiana”. Indubbiamente, un’espressione ardita.

Che dire oggi? Certo, con i suoi simboli e le sue passioni quel tempo appare confuso e annebbiato, perso nei rigagnoli di un Novecento secolarizzato e dunque lontano, a maggior ragione, dalla sensibilità odierna. Ciò non toglie che fare memoria significa comprendere e interpretare, cercando per questa via di rintracciare il filo di una tradizione che innanzi tutto merita rispetto e nondimeno merita, anche in una visione politica progressiva, di essere riletta e approfondita. Il martirio di don Minzoni interroga le nostre coscienze perché s’inscrive nella rappresentazione viva e concreta del cattolicesimo sociale e democratico. Era un prete coraggioso ed era anche un popolare, non solo idealmente. visto che aveva in tasca la tessera del partito. E lo uccisero, i fascisti, perché stava in mezzo al popolo, accanto alla sua gente, vicino ai più poveri. Lo uccisero perché dava fastidio ai facinorosi del regime nascente.

 

Il testo della relazione di Mario Scelba

https://ildomaniditalia.eu/wp-content/uploads/2021/08/Don-Giovanni-Minzoni-Martire-per-la-libertà_compressed.pdf

 

Si svolgerà oggi pomeriggio a Roma, per iniziativa del senatore Lorenzo Basso e con il sostegno di varie sigle dello scoutismo, il convegno dedicato a don Minzoni.