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Contro il plebeismo social e l’onda del sovranismo: un nuovo appello ai liberi e forti

Articolo già apparso su huffingtonpost.it 

Quel che è certo, oggi, riguarda l’aspetto tormentato della vicenda democratica italiana. La sfida che abbiamo di fronte richiede un analisi attenta e approfondita.

Siamo di fronte a un cambiamento vero, più profondo di quanto immaginiamo, che non va letto con superficialità. Gli italiani hanno compiuto scelte che portano alla ribalta posizioni e attegggiamenti in contrasto aperto con la coscienza di una nazione civile. Con le ultime elezioni è tornato in auge l’appello ai valori, o meglio ai valori gridati, che nella storia del nostro paese ha sempre rappresentato, all’apparire del declino della politica, un ancoraggio solido.

Cosa è accaduto? Una parte consistente dell’elettorato, anche e soprattutto di sinistra, ha virato in direzione di una proposta populista e pauperista, dove la vecchia istanza umanitario-socialista sprofonda in una sorta di “plebeismo social”, molto facile da maneggiare e troppo difficile da rimuovere. Tutto ciò, nutrito di angoscia per la crisi e le difficoltà quotidiane, si è tradotto nella ricerca del capro espiatorio: identificare cioè il colpevole del degrado e delle sofferenze, quali che siano le responsabilità ad esso attribuibili. Come è noto, la figura del capro espiatorio attira su di sé la punizione, non importa se giusta o sbagliata, poiché deve rappresentare un simbolo di catarsi per la rabbia e lo sconcerto che nel vissuto della “gente” sembrano anzitutto determinati dai vistosi insuccessi della stagione politica più recente. E tale ordalia, che serve nel pensiero corrente a ripristinare l’ordine delle cose, dunque a punire i colpevoli, giustifica e più ancora esige l’avvento dell’uomo forte, quindi dell’uomo solo al comando.

In realtà l’uomo della provvidenza non cancella il malessere, piuttosto alza la tensione canalizzando l’astio sociale verso ciò che appare la necessaria sanzione. Ma una simile concatenazione di presupposti e conseguenze, genera e alimenta una liturgia politica ambigua e pericolosa, tutta concentrata sul desiderio di esaltazione del capo, al quale ci si affida, al di là dei meriti, nella speranza di venire a capo delle difficoltá. Da qui la dislocazione di un ampio segmento di elettorato radicale nel campo attualmente occupato dal M5S, senza che il connubio di populismo e nazionalismo (“Prima l’Italia e gli italiani”), riassunto nel patto di governo tra Salvini e Di Maio, venga a turbare nell’immediato l’autogiustificazione in ordine alla scelta compiuta nelle urne. Una scelta, diciamolo con chiarezza, nutrita di aspirazioni di sinistra, ma che finisce per spostare fortemente a destra l’asse politico del Paese.

Ma cosa rappresenta questa nuova destra nazionalista, alla Le Pen o alla Orbàn, nel contesto di un’Europa infragilita, quasi deformata? È una destra che vuole elevare una diga insormontabile nei confronti dello straniero e del diverso, di tutte le diversità. È forte con i deboli, i primi ad essere trasformati nell’immaginario della demagogia e della propaganda in capri espiatori per l’ordine infranto, e quindi per il declino di un’Italia penosamente ridotta a subire l’urto dell’immigrazione clandestina a causa dell’insensibilità o peggio del cinismo degli euroburocrati di Bruxelles.

La destra leghista, comunque, non dimentica i poteri forti, dato che conosce bene la loro forza di condizionamento. Sicché, dopo aver fatto la voce grossa, lancia messaggi che celano a stento la volontà di aprirsi a un’alleanza capace di stabilizzare una maggioranza per i prossimi decenni. È quanto traspare dagli annunci e dai gesti che la pubblica opinione ha imparato a decifrare: castigare chi non si piega, piazzare nei posti di comando i fedelissimi, anche se inadeguati, pressare gli indecisi. Naturalmente si propina al popolo una narrazione e una scenografia distanti anni luce dalla realtà. La vera realtà ci dice che questo blocco di potere sostanzialmente a guida leghista sta cercando di costruire il terzo pilastro del suo consenso. Gli manca, infatti, l’appoggio della Chiesa.

Certamente il magistero di Papa Francesco, attraversato dalle ombre di un dissenso che non si fa scrupolo di lanciare accuse e diffondere malignità, rivelando l’esistenza dello “zoccolo duro” del clericalismo preconciliare, non è un magistero che si adatti all’aspro discorso sui respingimenti dei profughi o la ramazzata degli zingari. C’è però una Chiesa che vive una stagione di ripiegamento, un po’ per nostalgia del tempo di Ruini, un po’ per mancanza di fiducia nel laicato. In passato, perciò, Berlusconi si fece paladino dei cosiddetti valori non negoziabili nel campo della bioetica, pure con saltuarie irruzioni in quello della morale e dei costumi.

Illudersi oggi che la fermezza di Papa Francesco e del Presidente della CEI, Card. Bassetti, come di tanti altri Vescovi e prelati, sia sufficiente a bloccare le pulsioni negative della “base” cattolica, è un errore d’ingenuità o superficialità. La mancanza di un partito di tipo degasperiano non aiuta la Chiesa, né tanto meno l’Italia. Chi svolge quell’attività di mediazione o quel lavoro di filtro rispetto all’incomposta dialettica tra fede e politica, tanto all’interno quanto all’esterno della vita ecclesiale, che ha permesso ai cattolici di esercitare in cinquant’anni di vita repubblicana un decisivo ruolo di guida politica? Ecco, intanto che maturi l’interrogativo sul presente e sul futuro del cattolicesimo italiano, insieme alla valutazione più serena del giudizio sulla irrepetibilità di determinate esperienze storiche, si perde e si degrada un pezzo della nostra democrazia.

Ignorare il panorama della “questione cattolica”, cancellando la memoria storica, ci porta fuori strada. A forza di convivere con le semplificazioni, ognuno osservando un canone di pigrizia per rimuovere la fatica del confronto e tutti coltivando il miraggio di una politica sana e buona, proprio in virtù del “punto zero” delle identità e delle appartenenze ideali, costituisce il peccato originale del Partito democratico. Molti ne sono consapevoli e cercano un rimedio, specie se trovato nel rito dei gazebo. Bisogna stare attenti, a questo punto, allo strabismo di una proposta che occhieggia alla resurrezione di una sinistra decorata. Per andare dove, ma per fare cosa? Se la línea consiste nel restauro della “tradizione rossa”, la coperta di questa politica unilaterale è troppo corta. Vale solo se accetta di comporsi come parte di un disegno più ampio, se perde il carattere onnivoro e polivalente di un nuovo “fronte popolare”, con forze sussidiarie a far da semplice corona, in modo variopinto, al “nocciolo duro” di questa sinistra debitamente rimotivata e riorganizzata.

C’è la necessità di rimettere in gioco tutto. Non ci sono più rendite di posizione, né carriere personali al coperto di liturgie o simboli del passato. Occorre riconoscere errori e fallimenti, prendere atto di un progetto che per nostri limiti non è riuscito a dispiegarsi e a radicarsi durevolmente, generando identità e senso di appartenenza. Occorre perciò ripartire dal basso, dai territori e dalle comunità, dalla pluralità e diversità delle storie e delle culture, per dar vita ad una larga rete di sostegno e di coesione ad una alleanza, politica e sociale, capace di promuovere un’alternativa seria allo schieramento giallo-verde.

Dunque un lavoro immane, che necessita di molti contributi, al di là dell’ossessione di stabilire chi è il capo – magari per sapere cosa faccio io – e della pretesa, in questo frangente, di uniformare costrittivamente le diverse modalità del fare opposizione. Ci viene in soccorso un esempio che viene da lontano. Cento anni fa, in un analogo contesto di crisi e sofferenza per l’Italia, Luigi Sturzo lanciò l’appello ai “liberi ed ai forti” con l’obiettivo unire le forze per la salvezza dell’Italia, proponendo di “attingere dall’anima popolare gli elementi di conservazione e di progresso”. Certo, l’appello del 1919 è consegnato alla storia, ma lo spirito che lo animò rappresenta tuttora un monito per noi, un punto luminoso per il nostro presente.

Accettiamo dunque la sfida, guardiamo oltre con lungimiranza, rinunciamo a qualche scampolo di tardivo senso dell’egemonia. Le elezioni europee vanno affrontate con intelligenza e passione. Sta di fatto che il Pd non basta, serve qualcosa di più. Anzi, serve molto di più. È una valutazione che accomuna molti di noi. Per questo ad ottobre, partendo dallo spirito che segnò l’appello di Sturzo, ci metteremo in cammino, non da soli, per trovare i motivi e le circostanze di uno stare insieme, con il pieno rispetto dell’autonomia degli uni e degli altri, scommettendo sulla possibilità di interpretare oggi, in maniera originale, l’essere “liberi e forti” nel tempo che ci è dato vivere.

Ora serve un nuovo Ulivo?

Si continua a discutere sulla difficoltà dell’ex centro sinistra nel ricostruire una alternativa politica, culturale e programmatica alle forze che legittimamente hanno vinto il 4 marzo e che altrettanto legittimamente governano il nostro paese. Una difficoltà che affonda le sue radici in una serie interminabile di motivazioni politiche, culturali, comportamentali e di stile. Ma la principale motivazione della crisi strutturale e quasi ontologica dell’ex centro sinistra resta quella di di avere rotto i ponti con il retroterra naturale di una normale forza politica di sinistra o di centro sinistra. Ovvero i ceti popolari, i bisogni e le istanze che provengono da quei mondi vitali e sociali e, soprattutto, aver rincorso – soprattutto nella lunga stagione renziana – politiche e metodi che appartengono storicamente ad altre culture e ad altre visioni di società. E quando il tuo retroterra naturale, culturale e sociale percepisce il mutamento di linea e il cambiamento di prospettiva è persin scontato che il tutto si traduce, poi, in una drastica riduzione del consenso elettorale e politico.

Ora, preso atto che la “vocazione maggioritaria” del Partito democratico e’ una condizione che appartiene già al passato della storia di quel partito e, al contempo, certificato il tramonto del “partito plurale” dopo la lunga gestione “personale” del Pd – l’ormai celebre “Pdr”, il partito di Renzi – forse è giunto il momento per individuare una strategia innovativa e in profonda discontinuità con il recente passato del centro sinistra italiano. Una discontinuità che deve essere innanzitutto politica ma anche di metodo e di contenuto. Ma, come sempre capita nella politica come nella vita, non si tratta di inventare tutto da capo. È sufficiente rileggere il nostro recente passato per comprendere gli errori commessi e le potenziali correzioni da intraprendere e tradurre nel campo riformista e democratico del nostro paese.

E, al riguardo, l’esperienza dell’Ulivo di prodiana memoria non può essere considerata una semplice parentesi da archiviare e storicizzare definitivamente. E questo per una semplice ragione: quella esperienza ha rappresentato una fase di grande innovazione della politica italiana pur senza mettere radicalmente in discussione le ragioni fondanti del pensiero riformista e democratico da cui attingeva la sua linfa vitale. Almeno per come si è manifestato dal secondo dopoguerra in poi. Certo, e come ovvio, rinnovando e modernizzando quella esperienza ma senza rinnegarla alla radice.

Ma, se vogliamo recuperare ciò che di buono c’è stato nel passato, occorre avere l’intelligenza e la capacità di saperlo sintonizzare con le istanze contemporanee. Almeno su 3 fronti.

Innanzitutto va ricostruita una “coalizione plurale”. Se è vero, com’è vero, che la “politica in Italia e’ sempre stata politica delle alleanze” come diceva Mino Martinazzoli, e’ altrettanto vero che occorre piantarla definitivamente con l’autosufficienza politica ed elettorale del partito di renziana memoria. La cosiddetta “vocazione maggioritaria” e la riduzione degli alleati a semplici comparse. Ossia, ci vuole una coalizione che rispetti sino in fondo il pluralismo.

E, in seconda istanza, in una coalizione plurale devono trovare spazio e cittadinanza le singole identità politico e culturali. Il tramonto del partito plurale, nello specifico del Pd, non può che far rinascere – soprattutto in un sistema proporzionale – quelle culture politiche che sono state decisive non solo nel passato ma che anche in una stagione post ideologica come quella contemporanea possono avere un ruolo determinante per ridare qualità alla democrazia e spessore ad un programma di governo. A cominciare anche e soprattutto dalla tradizione del cattolicesimo democratico, popolare e sociale, considerando l’irrilevanza in cui è precipitato in questi ultimi anni nella politica italiana.

In terzo luogo servono leader unitivi – o un leader – e aggreganti. Basta con i “capi” e la relativa corte squallida di gregari, di clienti e di portaborse che hanno ridotto i partiti a strumenti inguardabili e la politica ad un gioco di potere spietato e disumano. Leader che, come ha insegnato l’Ulivo nella sua miglior stagione, sapevano costruire una sintesi efficace e coerente delle varie culture politiche che si riconoscevano in quella alleanza. E questo anche per la semplice ragione

Finita la luna di miele…

Dopo aver concluso la prima fase politica, quella delle promesse programmatiche ai cittadini, il Governo giallo verde è arrivato al dunque. Ora, deve dare concretezza al reddito di cittadinanza e alla flat tax che sono i due principali punti del contratto sottoscritto. A ciò, si sommano le delicate scelte politiche per la realizzazione o meno delle grandi opere infrastrutturali, del metanodotto pugliese e del nodo Ilva di Taranto. Problematiche che, allo stato attuale, non trovano accordo tra le due forze governative che sono molto condizionate dai rispettivi elettorati.

Si aggiunge poi il problema del Def che il Ministro dell’Economia Tria sta faticosamente tessendo causa le difficoltà economiche del Paese, sia per l’avversità dei due vice Presidenti del Consiglio dei Ministri alla impostazione finanziaria sia per la lente d’ingrandimento della Commissione europea sul deficit e sul debito italiano. E, tutto questo, nel bel mezzo di una evidente turbolenza dei mercati e pericoloso aumento dello spread che determina un ulteriore esborso di denari (miliardi di euro) alle già provate casse dello Stato.

Quindi il Governo si trova di fronte a un punto molto delicato che potrebbe provocare una crisi politica dagli esiti imprevedibili per le notevoli difficoltà che incontreranno i giallo verdi per trovare una intesa quasi impossibile. Passata un’altra estate senza uscire dall’euro (meno male) ora bisogna fare i conti con le regole esistenti, e così la coalizione Lega-M5s se la prende con il tetto Ue del deficit al 3 per cento del Pil. In effetti meglio sarebbero regole flessibili che in Europa ci sono già e consentono di finanziare in deficit spese straordinarie ma non flat tax o reddito di cittadinanza. Non sarà perciò facile trovare spazio nelle disponibilità del Def per finanziare scelte improduttive e i due partiti non potranno che configgere così duramente causando la crisi di governo. Si apriranno senari politici inesplorati che è facile immaginare non faranno altro che portare ulteriori difficoltà non solo di stabilità di governo ma anche economici al Paese. Con ciò comportando una ulteriore fuga di capitali dall’Italia oltre ai 76 miliardi già usciti.

Speriamo che la linea politica del Ministro Tria prevalga sulle insane idee dei giallo verdi che, se attuate, comporterebbero altri guai per la nostra economia e per il bilancio dello Stato.

Energia e trasporti i grandi responsabili della metà dei gas-serra

Nel secondo trimestre del 2018 la stima tendenziale delle emissioni dei gas serra effettuata dall’Ispra, prevede un leggero aumento rispetto all’anno precedente, pari allo 0,2% a fronte di una maggiore crescita del Pil (1,1%). L’aumento segnalato è principalmente dovuto ai settori della mobilità (1,3%), per un maggior consumo di gasolio per il trasporto su strada (2,8%) e del riscaldamento (3,1%). La produzione di energia registra, invece, una riduzione (-2,1%) dovuta prevalentemente alla sostituzione del carbone con il gas naturale. Viene quindi confermato il disaccoppiamento tra l’andamento delle emissioni e la tendenza dell’indice economico, seppure di modeste dimensioni.

Se invece guardiamo le rilevazioni dello scorso anno vediamo che  le emissioni totali di gas serra sono diminuite del 17,5% rispetto al 1990, passando da 518 a 428 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, e dell’1,2% rispetto all’anno precedente. Il principale contributo alla diminuzione delle emissioni di gas serra negli ultimi anni è da attribuire alla crescita della produzione di energia da fonti rinnovabili (idroelettrico ed eolico) e all’incremento dell’efficienza energetica nei settori industriali. Rispetto al 1990, le emissioni di gas serra del settore trasporti sono aumentate del 2,4%, a causa dell’incremento della mobilità di merci e passeggeri; per il trasporto su strada, ad esempio, le percorrenze complessive (veicoli-chilometri) per le merci sono aumentate del 16%, e per il trasporto passeggeri del 19%.

Approfondendo ancora il tema grazie alle rilevazioni dell’Ispra osserviamo infine che, sempre rispetto al 1990, nel 2016 le emissioni delle industrie energetiche sono calate del 23,9%, a fronte di un aumento della produzione di energia termoelettricada 178,6 Terawattora (TWh) a 198,7 TWh, e dei consumi di energia elettrica da 218,7 TWh a 295,5 TWh. Dall’analisi dell’andamento delle emissioni di CO2 per unità energetica totale, emerge che l’andamento delle emissioni di CO2 negli anni ’90 ha seguito sostanzialmente quello dei consumi energetici. Nell’ultimo periodo, al contrario, è stata registrata una diminuzione delle emissioni e la sostituzione di combustibili a più alto contenuto di carbonio con il gas naturale, sia nella produzione di energia elettrica che nell’industria, oltre a un incremento dell’utilizzo di fonti rinnovabili.

USA: furore e calunnie

Negli USA i Democratici non hanno accettato l’inattesa vittoria di Trump nelle elezioni del 2016. Hanno reagito con la guerra al presidente: nei media, nella società e in Congresso. La guerra ha preso molte forme: le marce e le urla sulle piazze e nei campus universitari; il boicottaggio di riforme e nomine in Congresso; le calunnie e le aggressioni mediatiche; la nomina di un procuratore speciale senza che vi fosse un crimine da indagare, e l’affidare la relativa indagine a procuratori vicini al partito Democratico; gli interventi di giudici partigiani per bloccare le delibere di Trump; le aggressioni personali in luoghi pubblici a collaboratori di Trump o a suoi sostenitori; le quotidiane falsità costruite dai media, anche quando recano danno alla nazione (le aberrazioni che hanno fatto seguito all’incontro in luglio tra Trump e Putin a Helsinki ne sono un esempio). Tutto ciò con l’obiettivo di impedire al governo Trump di portare avanti i programmi e, se possibile, di destituire Trump.

Da parte dei Repubblicani, il sostegno a Trump non è mai stato completo. Molti politici del GOP (i Bush e il loro clan, McCain, Corker ed altri) non hanno perdonato a Trump di aver vinto le primarie del GOP. Con scelta sconcertante, giornalisti già vicini al GOP (Bill Kristol, George Will, Jennifer Rubin, e in parte persino il mite Chris Wallace di Fox News) si sono schierati contro Trump e non si frenano nel condurre attacchi personali contro di lui. Le primarie presidenziali in America non sono una corsa verso la santità, e le enfasi di linguaggio di Trump, nel contesto di un’aspra contesa, erano poco evitabili. I politici, i professori, i giornalisti e i finanziatori Repubblicani che aderiscono alla guerra a Trump dovrebbero chiedersi che cosa sarebbe l’America se Trump avesse perso le elezioni. Sarebbe un paese in cui i confini aperti, la globalizzazione e i commerci liberi ma non equilibrati sono considerati inevitabili. Un paese in cui per la Corte Suprema sarebbero stati nominati degli estremisti liberal (dall’ex ministro della Giustizia di Obama, Loretta Lynch, alla senatrice Warren). Un paese in cui gli elettori di Trump (operai, artigiani, bianchi poveri) sarebbero considerati dei “miserabili” (parola di Hillary), che “si attaccano” alle pistole e alla Bibbia (parola di Obama). Un paese in cui, per ottenere un mutuo o per entrare al college, i bianchi sono meno favoriti rispetto ai neri o ad altre comunità. In cui, verso l’estero, i soprusi commerciali e i furti di tecnologia che hanno arricchito la Cina verrebbero considerati accettabili in nome di una futura democrazia cinese, mai divenuta reale; in cui le turpi concessioni all’Iran dell’accordo obamiamo sul nucleare sarebbero definite come alternativa alla guerra; in cui l’ostilità verso Israele e le sovvenzioni indirette a gruppi che vogliono la distruzione di Israele, come Hamas, sarebbero la norma. E molto d’altro.

Dalle elezioni del 2016 in poi, in America le imprese, piccole e grandi, hanno aperto 3,6 milioni di nuovi posti di lavoro. Imprese importanti stanno riportando le fabbriche dall’estero in patria. Milioni di cittadini hanno cessato di richiedere i “buoni pasto” federali, perché sono usciti dall’indigenza. La spinta principale al rilancio economico è venuta dalla riforma fiscale, che ha avuto un successo spettacolare. Poi vi sono state le centinaia di regolamenti burocratici cancellati da Trump. È stato cancellato, anche, il vincolo più ingombrante della Obamacare, cioè l’obbligo a contrarre assicurazioni sanitarie standard, dai costi altissimi e crescenti. Che si potesse arrivare alla piena occupazione (oggi in America non lavora solo chi non vuole lavorare), o a un aumento del PIL sopra il 3% annuo, o all’indipendenza energetica, era impensabile nell’ottica assistenzialista e globalista degli anni obamiani, quanto lo era impugnare le pratiche commerciali predatorie della Cina, muovere l’ambasciata USA a Gerusalemme, uscire dall’accordo con l’Iran, o provare a controllare i confini di terra.

I politici Repubblicani che non sostengono Trump e il suo governo dovrebbero  chiedersi chi, se non Trump, poteva dare una voce all’America di provincia e rurale, e vincere in Wisconsin, o in Pennsylvania, o in Michigan, dopo che otto anni di politiche obamiane avevano diviso la nazione tra città ricche e viziate, per lo più sulle due coste, e regioni industriali, o agricole, o minerarie, impoverite e trascurate. La rivolta di tali regioni ha portato Trump alla Casa Bianca. I neri che votavano al 94% per Obama, o gli ispanici, che hanno votato all’82% per Hillary, dovrebbero prendere atto che, con Trump, la disoccupazione tra i neri e tra gli ispanici è a un minimo storico. Se riuscissero a mitigare la grave russofobia che li condiziona, gli “esperti” di politica estera dovrebbero chiedersi chi, se non Trump, poteva con qualche successo richiamare alla realtà di oneri condivisi la NATO e l’Europa, o poteva mettere fine a un quarto di secolo di accordi sbilanciati con il Messico e il Canada (NAFTA), o poteva muoversi in concreto per arginare l’arricchimento aggressivo e le politiche espansioniste della Cina. Non potevano farlo il globalista Jeb Bush, né il gentleman Mitt Romney.

Se agisce con cautela pragmatica, se tiene conto delle alleanze e se conserva chiarezza riguardo alle minacce geo-strategiche (per lo più la Cina), il nazionalismo economico di Trump può aprire una nuova era americana. La sua visione di populismo conservatore andrà oltre la sua presidenza. Il modello Repubblicano dei Bush, costruito sui confini aperti, su accordi commerciali perdenti e interventi militari senza fine, è decaduto. A dichiararlo tale sono gli elettori di Trump, che hanno pagato, anche con la vita, per le scelte “umanitarie” di esportazione della democrazia, o che subiscono l’urto, economico e sociale, dell’accoglienza di immigrati in grandi numeri. L’America profonda è stanca dei fallimenti del globalismo, come è stanca di combattere le guerre civili di altri popoli. Il populismo conservatore, come i programmi di Trump, hanno un fondamento di solido senso comune. Il trumpismo è una catarsi americana. Ma non per questo è maggioritario in termini elettorali, in una società condizionata da un’immigrazione senza freni, da vizi radicati e da centri di potere, anche mediatico, ostili al cambiamento.

L’America è un paese diviso. La rivolta dell’America profonda è avversata con ogni mezzo in circa metà della società americana. Uno schieramento che va dall’estrema sinistra politica a noti finanzieri, e che si serve come portavoce dei media più diffusi, è disposto a tutto per rimuovere Trump e per fermare i programmi del suo governo. Nessuno strumento è escluso: dalle calunnie ai suggerimenti di assassinare agenti di confine, agenti di polizia e dell’agenzia ICE; dai linciaggi mediatici dei collaboratori di Trump all’attivismo di giudici partigiani e indottrinati; e, nell’estate 2018, alla copertura scandalosa fornita dai media ostili a Trump a personaggi ai vertici della Giustizia e dell’intelligence di Obama (Brennan, Clapper, Ohr, Comey ed altri) che hanno commesso illeciti per ostacolare Trump: copertura che ha lo scopo di impedire che le loro malefatte vengano pubblicizzate e perseguite.

Il nuovo tribalismo della sinistra Democratica divide la società in blocchi etnici, e con le politiche immigratorie e il welfare si assicura l’adesione dei nuovi elettori. Un partito Democratico che aveva gonfiato il Watergate fino alla soglia dell’impeachment di Nixon, oggi boicotta il tentativo della Commissione intelligence della Camera di portare alla luce le gravi, forse criminali, azioni che hanno reso possibile la truffa dell’indagine del procuratore speciale Mueller. Il partito Democratico di John Kennedy o dei Blue Democrats, vicini al mondo delle imprese, non esiste più. Oggi quel partito è un’associazione di finto progressismo, di difesa dello status quo, di connivenza con lo “stato profondo” washingtoniano, di politiche legate all’identità degli elettori, per cui chi è nero, o chi è ispanico, o chi è un dipendente statale o un residente dei suburbi metropolitani, deve votare Democratico per conservare i privilegi.

In America, come peraltro in Europa, i liberal, cioè la sinistra, sono gli autoproclamati guardiani delle libertà civili. Eppure essi non denunciano le invettive e le minacce dirette a chiunque sostenga Trump o lavori per lui. Minacce e aggressioni avvengono in luoghi pubblici, nei campus universitari, sui media. Il livello di odio organizzato nei confronti di Trump va oltre quanto sia mai accaduto nella storia americana (anche Lincoln fu odiato, ma vi era una guerra dichiarata in corso). Sulle reti TV, con l’eccezione di Fox News, attaccare Trump è un esercizio eseguito con furore. Odio e incitazione alla violenza vengono consentiti. Come accadeva nell’URSS e come accade in Cina, le calunnie con lo scopo di costringere al silenzio colpiscono le voci che sostengono Trump. Il mobbing, cioè le molestie organizzate e mafiose, è la regola. I social media aggiungono combustibile. La violenza è dietro l’angolo. Un anno fa, uno squilibrato ferì gravemente il Repubblicano Scalise. Di recente esponenti del governo Trump (Kirstjen Nielsen), o la portavoce Sarah Sanders, o figure pubbliche vicine ai conservatori (Pam Bondi), sono andati incontro ad aggressioni in luoghi pubblici. Un attore di Hollywood ha suggerito di sequestrare i figli di Sarah Sanders, ed è rimasto impunito, benché abbia commesso un crimine. Ivanka Trump è oggetto di insulti spregevoli. Nel quartiere di Washington dove abita Stephen Miller, che lavora con Trump alla Casa Bianca, si sono trovati dei manifesti in cui Miller è “wanted”, come un criminale che deve essere catturato. Chi combatte Trump ha licenza di intimidire, di calunniare. In vista delle elezioni di novembre, un obiettivo immediato è di rendere difficile per un conservatore il parlare in pubblico: per esempio in una riunione municipale, o in un campus universitario.

Le molestie (harassment) e le calunnie (in una orrenda versione, aggiornata e corrotta, della licenza di calunniare denunciata da Nathaniel Hawthorne in La lettera scarlatta) non vengono da una frangia estrema. Esse sono incoraggiate da politici ai vertici del partito Democratico (Booker, Walters). In eventi a cui partecipa la deputata nera Maxine Walters, accade che venga bruciata la bandiera americana. Accade a New York o Los Angeles, non a Teheran. Chi odia l’America è arrabbiato perché Trump ottiene risultati e il paese è in buone condizioni economiche. I Democratici e i loro media reagiscono con l’unico copione che conoscono, ripreso ogni ciclo elettorale, cioè le accuse ai conservatori, e adesso ai sostenitori di Trump, di essere razzisti, suprematisti bianchi, misogeni, xenofobi. Il dogmatismo ideologico della sinistra ha raggiunto livelli spregevoli con la distruzione di lapidi di significato storico e con la rimozione da luoghi pubblici di statue di figure storiche (il generale confederato Robert Lee, George Washington, Thomas Jefferson); e anche con violazioni teppistiche alle loro immagini. Dwight Eisenhower, un presidente che inviò l’esercito in Arkansas per imporre la fine della segregazione dei neri, teneva nel suo studio un ritratto di Robert Lee. Oggi le immagini di Lee sono oggetto di un’abbietta contestazione. Di recente in Maryland (in un Maryland dove interi quartieri di Baltimora sono controllati da bande di neri, spacciatori di droga) è andata rimossa una croce di pietra che rievoca i caduti nelle due guerre mondiali. Da sempre rimuovere la storia è più facile che comprenderla. Nella guerra alle memorie storiche vi è odio verso ciò che il paese è arrivato storicamente a rappresentare. L’ipocrisia e la stolta ripetizione di luoghi comuni antiamericani, supportate da note figure mediatiche e anche professorali (Noam Chomsky è il caso di odio patologico e di menzogna dalla cattedra), o da Hollywood, o da finanzieri equivoci come George Soros e il miliardario “verde” Tom Steyer, sono divenute l’acido in cui dissolvere la cultura nazionale. La guerra alla storia dell’America da parte di chi ha come obiettivo la “diversità” corrompe la fonte dell’identità nazionale. Piccoli stati come il New Hampshire, o distretti rurali (come il 2° distretto del Maine), dove il 90% della popolazione è bianca, vanno incontro ad accuse di non applicare la “diversità”, e ne sono condizionati. Peraltro la diversità è ricercata in tutto, tranne che nel pensiero e nelle opinioni, dove i nemici di Trump e dell’America perseguono il massimalismo e l’intolleranza.

La guerra civile – politica e sociale, anche se non militare – in corso in America non è un’opposizione legittima a un governo liberamente eletto. Non è legittimo, per esempio, chiedere, come fanno noti politici Democratici (la senatrice Warren, l’impresentabile Pelosi), di abolire l’agenzia federale ICE, che combatte le bande di immigrati responsabili di crimini ed è incaricata della loro espulsione. Alle parole di quei politici seguono le minacce personali verso gli agenti dell’ICE, come verso gli agenti delle pattuglie di confine, in nome di un’immigrazione senza freni e distruttiva. L’atmosfera di guerra civile rende molto difficile punire la corruzione, di cui ormai siamo certi, ai vertici della Giustizia, dell’FBI e della CIA nel governo Obama. Corruzione che ha reso possibile la nomina del procuratore speciale Mueller e ne mantiene in piedi l’indagine, benché squalificata. Il vice ministro della Giustizia Rosenstein non ha detto la verità in Congresso, ha autorizzato la sorveglianza di alcuni collaboratori di Trump sulla base di un dossier di accuse false e costruite con intento fraudolento, ha nominato Mueller in accordo con chi voleva destabilizzare il governo Trump, e più di recente ha annunciato futili accuse verso agenti del GRU russo (lo spionaggio ex KGB), tre giorni prima del summit tra Putin e Trump, per recare danno ai possibili risultati dell’incontro. Eppure Rosenstein è ancora al suo posto, come lo sono rimasti per anni i due ministri della Giustizia di Obama (Holder e la Lynch), benché essi fossero al servizio di un’ideologia liberal e garantista, e non della nazione americana. È lecito supporre che Rosenstein ostacoli la consegna dei documenti richiesti dalla Commissione intelligence della Camera con lo scopo di nascondere prove incriminanti per i vertici della Giustizia e dell’FBI obamiani. A rendere difficile per Trump la decisione di licenziare Rosenstein (o lo stesso Mueller) è l’ostilità dei media, pronti a fare di quegli eventuali licenziamenti dei casi di “ostruzione della giustizia”.

 

Come Rosenstein, i Democratici vogliono guadagnare tempo, perché sperano di vincere le elezioni di novembre. Se essi arrivano a controllare la Camera, le prove di malefatte verranno eliminate – come sarebbe accaduto se Hillary avesse vinto le elezioni. Il sistema uscito dalla presidenza Obama era bacato: i vertici dell’FBI (Comey, McCabe) hanno mentito agli investigatori federali; il direttore dell’FBI, Comey, ha fatto arrivare alla stampa rapporti devianti, con lo scopo di promuovere la nomina di un procuratore speciale; i vertici dell’intelligence (Brennan, Clapper) hanno coperto le azioni illegali che hanno consentito la nomina di un procuratore speciale;  i vertici della giustizia (Lynch, Rosenstein) nell’ultima fase del governo Obama hanno autorizzato la presentazione ai giudici del tribunale FISA, forse a loro volta partigiani, di un dossier falso con lo scopo di ottenere la sorveglianza di un presidente regolarmente eletto; il procuratore speciale Mueller ha utilizzato 13 avvocati (adesso divenuti 17) vicini ai Democratici e in qualche caso loro finanziatori; ed altro ancora. Dopo un anno e mezzo di indagini, Mueller, il grande inquisitore, si è ridotto a condannare per attività hacker 12 agenti dello spionaggio russo, che non compariranno mai davanti a un giudice americano perché non verranno mai estradati; o si è ridotto a processare un ex collaboratore di Trump, Paul Manafort, per reati fiscali del 2005 che non hanno nulla a che fare con l’indagine “russa”, e che non sono di competenza di un procuratore speciale. Nei confronti di Manafort e di altri ex collaboratori di Trump, gli avvocati di Mueller, con grave sopruso, hanno esercitato pressioni per estorcere dichiarazioni che compromettano il presidente. Per pagare le spese legali, Mike Flynn ha dovuto vendere la casa di proprietà; Manafort è stato incarcerato (perché non ha niente da dare a Mueller, niente che serva a compromettere Trump); l’avvocato di Trump, Cohen, ha reso pubblici nastri di conversazioni con Trump, quando questi era solo un businessman, registrate all’insaputa del suo cliente (mettendo fine, con tale scorrettezza, alla propria carriera legale). Invece, la difettosa procura di Mueller non ha levato accuse verso le illegalità emerse nel corso delle indagini, cioè quelle commesse, nell’ultima fase della presidenza Obama, dai vertici della Giustizia, della NSA, dell’FBI, della CIA: tutte con lo scopo di ostacolare, e poi delegittimare, il governo Trump.

 

Papa Francesco: l’ultimo profeta globale

Per quanti si ostinano a non rinunciare ai valori di una società aperta e solidale, i motivi di preoccupazione e di angoscia non derivano solamente dalla involuzione della politica, dalla crisi delle democrazie e del diffondersi tra le persone di un crescente clima di intolleranza e di radicale individualismo.
Tutto si lega, al di là e prima della politica, in questa fase pericolosa e inquietante della nostra storia, con la sua violenta produzione di macerie e la sua carenza assoluta di futuro.
È drammatico il deficit che mediamente dimostriamo nella lettura di ciò che sta accadendo, prigionieri come siamo delle nostre questioni di breve momento.
Un elemento dirompente si è aggiunto nelle ultime settimane: il salto di qualità dell’attacco a Papa Francesco.
Personalmente lo colgo, in quanto cattolico, come opera ostile alla Divina Provvidenza, che ci ha donato, proprio nel pieno delle temperie di un tempo impazzito, un Papa come questo.
Ma non devono sfuggire il significato e la portata di una strategia che va oltre le questioni interne alla Chiesa e il futuro stesso dei cattolici.
Francesco è oggi l’ultimo profeta globale rimasto. Non se ne vedono altri.
L’ultimo profeta che ci indica valori universali, che ci richiama ad un “nuovo umanesimo” capace di salvare la dignità delle persone e delle comunità tanto rispetto alla forza pervasiva dei mercati e delle tecnologie, quanto rispetto al riemergere delle chiusure egoistiche e delle mitologie dei “muri” di ogni genere.
Vogliono toglierci proprio questo: il simbolo di una speranza di nuova umanità.
Porporati infedeli, pezzi di Chiesa riottosi al cambiamento e sette cattoliche ultra reazionarie utilizzano ormai spudoratamente ogni cosa – compreso lo scandalo pedofilia – per costringere alla resa un Bergoglio sempre più solo nei vertici della gerarchia.
Il dossier dell’ex Nunzio Apostolico Viganò, le posizioni di molte diocesi americane e l’ancor più inquietante intervista rilasciata dal potente Cardinale Burke sono solo la punta dell’iceberg.
A ciò si aggiungono le ormai ricorrenti iniziative ostili di molti ambienti non ecclesiali, che stanno da tempo scatenando una campagna di denigrazione e di delegittimazione verso il Papa: si vedano, da ultimo, i servizi velenosi di un giornale assai significativo per gli ambienti che ne sono ispiratori come Le Monde.
Non è solo, dunque, il rifiuto di una parte della Chiesa di accettare la sfida pastorale di Papa Francesco sulle delicate e complicate questioni poste dal mondo di oggi.
Non è solo il tentativo di ripristinare l’idea lugubre di una Chiesa che non si apre, con carità, alle novità del suo tempo e che invece vuole rifugiarsi nel fortino assediato del proprio potere.
No. C’è molto di più dietro a questi attacchi al Papa.
C’è la voglia di togliere di mezzo l’unico Profeta di una idea del Mondo che non rinuncia ai valori della umanità e della solidarietà.
Come cattolici dobbiamo dunque pregare per Francesco e testimoniare vicinanza e sostegno. A tutti i livelli e con tutti gli strumenti disponibili.
Come cittadini dobbiamo operare affinché la sua profezia per un “nuovo umanesimo” non cada nel vuoto dell’indifferenza e della viltà, ma si traduca in nuova coscienza e nuovo impegno in tutti gli ambiti della vita sociale, politica compresa.

La rivoluzione del wi-fi : Guglielmo Marconi, il genio del regime

Marconi lesse e studiò Volta, Morse, Hertz, Hughes, Tesla e molti altri. Erano i fisici che alcuni anni prima di lui avevano ideato e prodotto le comunicazioni telegrafiche ed elettriche, le quali condussero via via a sperimentare ulteriori tecniche di trasmissione senza l’uso dei fili.

Classe 1874, bolognese, uscito dall’istituto tecnico poco più che adolescente, diede luogo ai suoi primi test utilizzando delle semplici pile e sfruttando le onde elettromagnetiche emanate dalle stesse per stabilire un collegamento guidato a distanza. Si servì di un conduttore posto a terra e uno isolato più distante possibile dal suolo (il prototipo dell’antenna), sino ad ottenere una delle primissime forme di segnale wireless. La straordinaria scoperta lo indusse a proseguire il suo lavoro utilizzando dei trasmettitori molto lontani fra loro. Abbandonati gli studi, a vent’anni si ritirò a Montecchio per dedicarsi esclusivamente ai suoi esperimenti, che produssero risultati sempre più soddisfacenti: Marconi sviluppò collegamenti a distanza di diversi Km, mentre alcuni suoi colleghi, con le stesse tecniche, non riuscirono a trasmettere oltre poche decine di metri. In Italia, la decisione di richiedere il brevetto della sua scoperta non ottenne risposta positiva; decise allora di sottoporre il nuovo sistema alle autorità britanniche, le quali – unitamente all’opinione pubblica anglosassone – rimasero invece molto impressionate.

Trasferitosi a Londra, il 2 giugno 1896 ottiene finalmente il brevetto della trasmissione senza fili grazie all’impegno di sir William Henry Preece, ingegnere e al tempo direttore del Post Office, una delle più importanti agenzie postali britanniche. Le prove generali, alla presenza delle più alte cariche di Stato inglesi e della regina Vittoria, hanno luogo a metà 1898 in diverse località britanniche, soprattutto a ridosso della Manica, dove, inviati da un capo all’altro dello stretto, i segnali radio superano ormai i 50 Km di distanza (pochi mesi dopo avrebbero raggiunto i 3.000 Km). E’ il successo.

La popolarità internazionale del fisico emiliano è ai massimi livelli, e le sue ricerche lo portano ad ottenere, nel 1909, il Premio Nobel, che condivide con lo scienziato tedesco Carl Ferdinand Braun. Cinque anni dopo viene nominato senatore a vita del Regno d’Italia. Nel frattempo l’Europa entra in guerra, e Marconi, tornato in patria e arruolatosi come volontario, assolve il compito di ufficiale telegrafista. A seguito della tragedia del conflitto ’14-’18, il quale impone all’Italia – oltre alla faticosissima ricostruzione (non solo materiale) – anche una grave crisi economico-sociale, il fisico bolognese è corteggiato incessantemente dal nascente movimento fascista guidato da Benito Mussolini, che vuole sfruttarne la fama non solo per fini politici, ma soprattutto diplomatici. Di fatto, una volta al potere, il governo fascista offre a Marconi le più alte cariche degli organi statali, tra cui la presidenza del Cnr, che assume dal 1° gennaio 1928. Lo scienziato bolognese aderisce convintamente al Pnf (cosa che rivendica senza pentimenti), il quale si servì dell’enorme potenzialità delle sue scoperte per diffondere, mediante radio, la propaganda di regime presso milioni di cittadini. I titoli onorifici, così come le lauree honoris causa, cadono a pioggia, anche da parte del Vaticano, che lo invita a presiedere lo staff incaricato di dare luogo alla prima trasmissione radiofonica della Santa Sede: il 12 febbraio 1931 viene inaugurata Radio Vaticana, il cui messaggio iniziale (“Qui arcano Dei”), alla presenza del Marconi, è pronunciato da Papa Pio XI.

Il fatto di non aver abiurato la sua simpatia verso il regime fa di Marconi un motivo di orgoglio per il governo fascista, che – come sottolineato da Mussolini in uno dei suoi discorsi – «rappresenta un simbolo di patriottismo e genialità italiche». Il fisico non fa però in tempo a seguire l’evoluzione della crisi internazionale che avrebbe portato drammaticamente al secondo conflitto mondiale, tanto meno il repentino crollo del regime italiano e del suo alleato tedesco : il 19 luglio 1937 viene infatti stroncato da un infarto presso una casa di famiglia in Via Condotti, a Roma. L’avvenimento suscita emozione in tutto il mondo; le radio vengono silenziate in segno di lutto e il duce ordina per lui i funerali di Stato, ai quali partecipano centinaia di migliaia di persone.

Nel tempo, la mitologia di uno dei più grandi fisici italiani è rimasta intatta, e soprattutto – benché i fatti parlino chiaro – sembra essere stata resa esente da qualsiasi etichetta politico-ideologica. In Italia, l’eredità del sistema wireless e il suo utilizzo sul mercato sono stati oggetto di divergenze politiche : al decreto Pisanu del 2006, che ne limitò l’impiego da parte dei soggetti pubblici, sono seguiti i provvedimenti dei ministeri Maroni prima (2010) e Monti poi (2011), autori della liberalizzazione del wi-fi nel campo delle telecomunicazioni.

Verso il default

Il governo giallo verde muove i suoi primi passi e già mostra non poche difficoltà nell’attuazione del contratto concordato. Emergono anche distingui all’interno della coalizione, preludio di una possibile spaccatura con conseguente crisi.

La ricerca spasmodica di visibilità da parte di Di Maio da un lato e di Salvini dall’altro, li porta a essere più attenti al consenso elettorale che agli effetti concreti dell’azione di governo. Infatti, finora, si è assistito esclusivamente a roboanti annunci da parte dell’uno o dell’altro, ai quali, però, non è successo proprio un bel niente. Senza considerare le minacce rivolte alla comunità europea che certamente non aiuteranno a risolvere i problemi del nostro Paese quando sarà il momento.

L’impressione è che ci troviamo di fronte a un governo fragile quanto una barchetta nel bel mezzo di una tempesta furiosa, che la sta affondando. Le preoccupazioni in tal senso sono giustificate dal comportamento dei mercati che, com’è noto, non guardano in faccia il colore politico del governo di turno, ma si basa sulle sue azioni. E, nel nostro caso, non sono certamente rassicuranti i proclami degli attuali governanti quando annunziano il varo di provvedimenti come il reddito di cittadinanza, l’abbassamento della tassazione o la minaccia di non pagare il contributo alla UE. Proclami che spaventano i mercati che vedono in questi annunci l’aumento del deficit di bilancio e del debito pubblico, rendendo il Paese più fragile e sempre meno capace di riprendersi. Quella che abbiamo di fronte è una situazione molto preoccupante che potrebbe portarci verso il baratro, incapaci di risalire la china. Con la conseguenza che gli investitori si allontanano sempre più dal sistema Italia, incapace di assicurare affidabilità per mancanza di riforma strutturali ma capace solo di continuare a scialacquare pur in mancanza di risorse finanziarie. Ecco quindi il perché di una sempre maggiore preoccupazione per il destino del nostro Paese, sempre meno credibile agli occhi della comunità europea e dei mercati esteri che hanno in mano più di un terzo del debito pubblico.

Ci vuole un atto di coraggio e  nel contempo di umiltà del governo affinché il Paese possa per davvero cambiare la tendenza di indebitarsi ancora di più, capace di guardare alla prospettiva utilizzando, innanzitutto, il buon senso del padre di famiglia facendo il passo compatibile con la misura della propria gamba. Diversamente, saremo destinati a raggiungere presto il default come già accaduto ad altri paesi europei.

Speriamo che nel governo prevalga l’interesse per il futuro del Paese operando con attenzione e lungimiranza.

La Cina vorrebbe eliminare il controllo sulle nascite

La Cina si prepara a eliminare completamente le restrizioni sull’avere tanti figli?

Sempre più segni indicano di sì. L’ultimo, questo lunedì. Nella bozza del nuovo codice civile, sono scomparsi i riferimenti a “pianificazione familiare”, espressione nel linguaggio burocratico che si riferisce al controllo delle nascite.

La bozza ora verrà esaminata preliminarmente questa settimana durante la riunione del comitato esecutivo dell’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese.

Il nuovo codice civile entrerà in vigore nel 2020. Se le modifiche annunciate saranno mantenute permanentemente sarà completamente rimosso il vituperato controllo delle nascite, che imponeva delle pesanti multe, il ricorso alle sterilizzazioni e aborti forzati per i trasgessori. 

Un sistema criticato dagli esperti che ha favorito un invecchiamento della popolazione veloce e un significativo squilibrio a favore degli uomini nel rapporto di genere.

La Cina aveva imposto la sua politica del figlio unico alle famiglie a partire dal 1979 per cercare di limitare la crescita di una popolazione che ora supera 1,37 miliardi di persone. Sebbene ci fossero sempre delle eccezioni, specialmente nelle campagne e per le minoranze, ha mantenuto i regolamenti fino al 2016. In quell’anno ha finalmente permesso a tutte le coppie sposate cinesi di avere due figli.

Ma la nuova procedura non ha avuto l’effetto voluto dalle autorità. L’esplosione delle nascite prevista non è arrivata. Nel 2016, subito dopo la concessione del secondo figlio, sono nati 17,9 milioni di bambini, secondo l’Ufficio nazionale di statistica. Solo 1,3 milioni in più rispetto al 2015 e metà di quanto previsto dal governo. E, dopo l’iniziale euforia, nel 2017 la cifra si è ancora abbassata, 17,2 milioni di nuovi bambini. Molto lontano dai 20 milioni calcolati dai funzionari.

Ora rimane da capire se questa nuova disponibilità venga colta dalle nuove famiglie. Dopo che per decenni gli è  stato inculcato  che il modello familiare ideale era quello di un padre, una madre e una singola creatura.

#retebianca per il bene comune

Dal 1994 l’Italia soffre di un gravissimo male: il “leaderismo”.

Abbiamo avuto, in ordine di “apparizione” il berlusconismo, il renzismo ed oggi il grillismo-salvinismo.
Un virus letale per le nostre menti, le nostre coscienze ma soprattutto per i nostri risparmi.
Un vaccino, un rimedio, una cura la si può trovare, a mio avviso, nelle culture e nelle ideologie che hanno caratterizzato il ‘900. Un ritorno al passato? No, semplicemente un futuro fatto di idee nuove ma “solide”, poiché abbiamo visto tutti i risultati del “concretismo liquido”.
Dopo la caduta del muro di Berlino, a noi “giovani popolari” ci veniva raccontato che il mondo sarebbe cambiato, che le ideologie del ‘900 andavano superate, che i nostri valori erano ormai universali e che quindi non era più necessario rappresentarli con la vecchia forma partito. I partiti plurali erano il futuro.
Il risultato del bipolarismo e del tentato bipartitismo è sotto gli occhi di tutti, inutile commentarlo.
Adesso ci troviamo alle prese con le giravolte del bi-populismo che, non sapendo come realizzare il famoso e mitologico contratto di governo, ci spara quotidianamente proiettili fantasiosi dalle migliori armi di distrazione di massa.
Intanto lo spread galoppa, ma tanto è un complotto; la magistratura interviene, ma tanto sono toghe rosse; la fiducia di imprese e famiglie crolla, ma tanto le pizzerie sono piene… Vi ricorda qualcosa o qualcuno? Un film già visto.
Dobbiamo far ripartire il nostro Paese!
La sfida è creare una “rete” fra persone di buon senso che ragionino con la testa e non con la pancia.
Una rete “bianca” formata da esseri umani e non da troll, una comunità di amici che si interroghi sul futuro dei propri figli senza pensare necessariamente all’immediato tornaconto elettorale.
Una comunità che aggreghi donne e uomini partendo dai territori e dai social network, strumento indispensabile per la maggiore diffusione delle idee.
Una rete di ispirazione cristiana in grado di elaborare una piattaforma programmatica senza preconcetti ne pregiudizi nei confronti delle idee altrui. Sarà necessario ideare e realizzare una piattaforma online in grado di dar voce a tutti e non solo al ceto politico.
Abbiamo davanti un viaggio nel deserto, ma se fatto “insieme” sarà bellissimo.
#retebianca è l’hastag per incontrarsi e discutere.