Home Blog Pagina 1088

Ora Rete Bianca

La recente riflessione dell’amico Alessandro Risso, Presidente dell’Associazione Popolari del Piemonte, su queste colonne sulla “vera contrapposizione tra cattolici” merita di essere ripresa e, seppur brevemente, approfondita. Ora, al di là di chi ha una concezione rancorosa nei confronti di singole persone che cercano, con molti limiti ed errori, di rilanciare una presenza laica ma cristianamente ispirata nella nostra società – salvo poi evocare una strana e singolare “amicizia cattolica” da praticare non si sa verso chi – il vero nodo della questione risiede in questa domanda: e cioè, dopo il profondo cambiamento della politica italiana culminato con il voto del 4 marzo, e’ ancora possibile ridare cittadinanza alla tradizione, ovviamente rinnovata e rivista, del cattolicesimo politico italiano? O, meglio ancora, a fronte del fallimento dei cosiddetti “partiti plurali” e del conseguente irrompere di nuove ed insidiose culture politiche – mi riferisco, nello specifico, al sovranismo e alla nuova destra della Lega salviniana da un lato e al populismo anti sistema del grillismo dall’altro – può essere rideclinata anche la cultura cattolico democratica, sociale e popolare nel nostro paese?

A queste semplici domande una risposta va pur data. Certo, tutti consociamo la frammentazione, la divisione e il disorientamento che caratterizzano attualmente l’area cattolica italiana. E tutti sappiamo che appena viene lanciata una proposta concreta di presenza politica ed organizzativa, c’è un piccolo plotone, o singoli insoddisfatti, che si scatenano sui social o su altri organi di informazione per delegittimare con una rapidità felina chi si fa promotore e artefice di quella proposta. È una prassi vecchia e ben collaudata, ormai nota. Ma tutti sappiamo, con altrettanta chiarezza, che nessuno parla di unità politica dei cattolici, di partito dei cattolici, di rappresentanza unitaria dei cattolici, di ricomporre e riaggregare i cattolici in un unico strumento politico ed organizzativo. E, aggiungo però, che accanto a queste considerazioni scontate, non si può non evidenziare – al di là di chi è impegnato a distruggere alla radice qualsiasi tentativo politico ed organizzativo – che proprio nell’area cattolica, seppur nelle sue multiformi espressioni, c’è oggi una forte domanda di partecipazione politica e di una nuova rappresentanza politica. Sono nati negli ultimi mesi gruppi, associazioni, movimenti e realtà di base che chiedono ad alta voce di organizzarsi. C’è qualcuno che possa ergersi a rappresentante esclusivo e diretto di questa rappresentanza? Ovviamente no. Il pluralismo politico dei cattolici e’ un dato, per fortuna, largamente acquisito e radicato nella stessa area cattolica italiana. Tutti sappiamo che i cattolici italiani si riconoscono quasi proporzionalmente in tutti i partiti. Ma ciò non cancella che questa domanda di nuova ed inedita rappresentanza politica oggi c’è. Ed è forte. A questa domanda va data, appunto, una risposta.

Rete Bianca, per quanto ci riguarda, e’ nata a livello nazionale per cercare di dare una prima risposta a questa domanda. Dopodiché, e’ altrettanto ovvio che anche per Rete Bianca, come per qualsiasi altra realtà politica e culturale, sono tre le priorità’ da declinare con responsabilità e intelligenza: pensiero, azione e organizzazione. Ossia, senza una elaborazione culturale precisa e argomentata non ci può essere un’azione politica e, in ultimo, senza le prime due non ci può essere neanche una organizzazione conseguente e successiva.

Un’ultima notazione altrettanto breve. Ha ragione Alessandro Risso quando ci invita – tutti, come ovvio, e non solo gli amici di Rete Bianca – ad essere severi e precisi sui programmi, sulla collocazione e sulla scelte concrete. E ciò vale per qualsiasi organismo politico. Sotto questo profilo, noi dobbiamo però evitare due rischi che possono essere e forse sono letali per qualsiasi formazione politica che cerca di richiamarsi al patrimonio del cattolicesimo politico italiano. E cioè, dire immediatamente chi è il “capo” di questo movimento e, soprattutto, pronunciarsi sul “con chi stai”. Due elementi, questi, che sono il frutto concreto della personalizzazione, della spettacolarizzazione e della semplificazione della politica italiana che domina il dibattito pubblico nel nostro paese. Elementi che, purtroppo, attraversano anche la nostra comune area di riferimento culturale. Respingere al mittente queste domande non significa non pronunciarsi sul mitico “programma”, ma, semplicemente, evitare di rincorrere le parole d’ordine che regolano la politica contemporanea. Ed è anche per questo che abbiamo organizzato una serie di conferenze

Perché un partito di ispirazione cristiana

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la riflessione del nostro amico Giancarlo Infante, nata dopo le conclusioni che Lucio D’Ubaldo ha effettuato al temine dell’incontro organizzato dalla Rete Bianca, “fede e politica” che ha visto la relazione del professor Andrea Monda.

Caro Lucio,

le tue conclusioni al temine dell’incontro organizzato dalla Rete Bianca, che ha visto al centro il pregevole intervento del professor Andrea Monda su Fede e politica, meritano un approfondimento perché la questione da te posta, cioè se sia possibile dare vita ad un nuovo soggetto politico d’ispirazione cristiana, è sempre più cruciale.
A maggior ragione mentre emerge l’esigenza di offrire la voce della realtà cattolico democratica, espulsa letteralmente dal Parlamento, ma vorrei dire dal dibattito politico più generale, all’indomani delle elezioni del 4 marzo.
Il professor Monda ha giustamente posto al centro delle sue riflessioni la questione della libertà. Cosa che ci porta al cuore del quesito da te sollevato.
Essa resta la pietra angolare, soprattutto oggi, di una società apparentemente più libera, ma nella sostanza non pienamente tale.

Non è stata ancora completata, infatti, un’elaborazione adeguata dell’affermazione di Aldo Moro: “Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere“.
Il nostro Paese è ancora fermo là. Non è stata definita la “ qualità” della libertà che sostanzia la nostra esistenza.
Eppure, è stata superata la lunga stagione della democrazia “ bloccata”. Si è raggiunto uno stato di “ democrazia compiuta” dopo il superamento di quelle contrapposizioni ideologiche che tanto hanno condizionato il Paese dal 1948 al 1994.

Non siamo, certamente, di fronte a quel tipo di evoluzione del processo democratico ricercato da Moro nello specifico contesto italiano degli anni ‘70.
Questa compiutezza, in effetti, non ha coinciso, e non coincide ancora, con la soluzione di taluni problemi storici specificamente italiani quali la questione meridionale, la formazione e la capacità dei gruppi dirigenti, la struttura statale e burocratica e, con essa, la definizione di una moderna cittadinanza, la giustizia e l’equità sociale.
E’ chiaro che in questo preciso momento non si tratta di difendere la libertà concepita nella sua accezione letterale di stampo ottocentesco o del ‘900. Il problema non è quello generico della libertà, ma nel come si sostanzi nel privato e nel pubblico.
La questione della libertà, infatti, come già ricordava Moro quarant’anni orsono, si è così dilatata da diventare sempre più questione “delle libertà”.

Oggi, le dimensioni dell’essere umano e delle sue organizzazioni sociali, culturali ed economiche, abbracciano così tanti piani, da quello etico, a quello scientifico, a quello giuridico, a quello del digitale, a quello dell’intelligenza artificiale, oltre che a quelli produttivo ed economico, da necessitare direttamente l’uso della forma plurale di una parola verso cui progressivamente si avvicina l’umanità intera, non più solo gruppi di elite.
Un gigantesco processo di trasformazione avviene all’interno di una società destrutturata in cui si va sempre più affievolendo il senso della comunità, con la tendenza ad un individualismo in grado di soppiantare ogni forma di consapevole responsabilità sociale, con una famiglia concepita come mera entità economica e non come primo luogo di conoscenza dell’amore, privato e collettivo, formazione e sostegno di solide relazioni interpersonali e della naturale maturazione della responsabilità pubblica e del senso civico. Della scuola e del nostro processo formativo non parlo.
E’ in questo contesto che, oggi, l’interrogativo sulla necessità e la possibilità di dar vita ad un partito ispirato cristianamente deve essere posto.

E’ su questo scenario che si colloca pure il problema della “ Vera contrapposizione tra i cattolici” di cui ha parlato Alessandro Risso nel suo commento a Giancarlo Chiapello, pubblicato su Il Domani d’Italia di ieri.
Noi stiamo per ricordare la genialità di don Luigi Sturzo che segnò la più grande novità politica dei primi decenni del ‘900 con la nascita del Partito popolare. Una genialità sospinta e sostenuta da oggettive necessità, proprie della realtà cattolica italiana.
Era ancora aperta la “ Questione romana”. Era avvertita come nemica e insufficiente la risposta liberale ai problemi posti da quell’Unità nazionale che stava assumendo sempre più un carattere non egualitario, di vertice, immotivatamente altero e, persino, di stampo colonialista.

Intanto, tumultuosa sopraggiungeva l’alternativa socialista, non in grado di raccogliere e racchiudere le istanze del mondo rurale cattolico e di quelle larghe aree di una borghesia permeata dalle idee manzoniane.
Esistevano, insomma, delle motivazioni endogene proprie e specifiche del mondo cattolico nel suo complesso, in cui si collocavano quelle più specifiche dei cattolici democratici.
Esse spiegano anche l’immediato e inatteso successo di un partito in grado, finalmente, di conciliare il popolo cristiano italiano con il mondo moderno, nonostante fosse costretto a confrontarsi con quelle ostili espressioni politiche che, pure, quel mondo moderno esprimeva, sia sul versante liberale, sia su quello socialista.

In quest’oggettiva inconciliabilità tra le tre principali visioni ideali ed ideologiche della giovane e riunificata nazione italiana s’inserì il fascismo violento ed eversivo, favorito da una casa reale inadeguata e inaffidabile, dal latifondismo parassitario e da un capitalismo sostanzialmente arretrato e avulso da alcuna responsabilità sociale.
Oggi, il problema della riproposizione di un soggetto politico ispirato cristianamente non è quello di intervenire in conformità a necessità interne alle dinamiche di noi cattolici democratici, del più generale mondo cattolico e della Chiesa.
Non vi è alcuna questione di carattere giuridico istituzionale aperta. La Chiesa ha risolto le sue vicende temporali. Esiste una Costituzione che ha dimostrato la capacità di costituire un baluardo condiviso da parte della maggioranza del popolo italiano, nonostante non manchino atteggiamenti antidemocratici e d’intolleranza che, però, riguardano frange ristrette di neo fascisti e razzisti.

I cattolici democratici, in linea generale, non hanno alcun problema a collocarsi diversamente nel quadro politico parlamentare, come accade in Francia, ma non in Germania e in altre parti d’Europa. Possono persino essere presenti e sostenere altri partiti ed organizzazioni, come di fatto è già oggi.
A mio avviso, però, sono le condizioni più generali del Paese a richiedere una presenza organica. Non si tratta di una esigenza di parte; della nostra parte.
Nel dire ciò, dobbiamo aggiungere che la “ diaspora” da noi vissuta negli ultimi 25 anni ha contribuito all’aggravarsi della crisi, non ha aiutato a risolverla.
Esiste ancora oggi, in modo forse persino più forte di ieri, la necessità di portare a compimento quei processi storici che stavano alla base delle aspirazioni del Paese al momento della nascita della Repubblica democratica ed antifascista, cui si aggiungono tematiche nuove, interagenti con le preesistenti.

Il futuro dell’Europa si colora di fosche tinte e non solo per le prospettive istituzionali dell’Unione. Per quanto ci riguarda, rischiamo di veder aggravata la spaccatura tra Nord e Sud. I risultati elettorali del 4 marzo scorso ne sono solo il riverbero in termini di seggi parlamentari.
Non sappiamo se un processo di critica all’assetto europeo, portato alle estreme conseguenze, non possa finire per mettere in discussione persino la nostra unità nazionale.
Alla crepa geografica si aggiungono le tante mancanze di equità che restano tra le generazioni, tra le categorie e i gruppi sociali e concorrenti ad aggiungere alle vecchie nuove forme di povertà. Investiti ne sono i ceti medi con i giovani e gli anziani, quasi a confermare che abbiamo creato una società immemore e ingrata verso il passato e, allo stesso tempo, indifferente rispetto al proprio futuro.
La Persona e la famiglia non potevano certamente restare indenni dal sommovimento generale provocato dalla trasformazione in atto nelle società capitalistiche. Così, abbiamo assistito e assistiamo a contemporanei processi di mutazione delle relazioni sociali, delle abitudini e del nostro stile di vita, funzionali anche a favorire e sostenere nuovi modelli di consumo e di sviluppo.

La crisi economica e sociale, dunque, si aggiunge e si salda con quella che riguarda la parte spirituale dell’essere umano, le sue relazionalità, persino l’identità sessuale, poiché sono indicati canoni di vita in grado di trasformare i rapporti tra donna e uomo e giungere a prefigurare un essere umano potenzialmente diverso e differente rispetto a quello che conosciamo.
A tutto ciò, non solo da parte di quanti sono ispirati cristianamente, si cerca una risposta, per quanto questa ricerca appaia confusa e insufficiente.
Noi crediamo, ma, lo ripeto, non solo noi d’ispirazione cristiana, che si debba giungere alla riproposizione di una gerarchia di valori che parta dall’essere umano.
Il suo rispetto e valorizzazione devono essere ricollocati al centro di tutti i processi economici, sociali, politici e istituzionali, riconsegnandoci un’armonia di equilibri, capace di assicurare che la libertà diventi veramente tale all’interno di un processo personale e collettivo di crescita e di sviluppo.

I tentativi di risposta alla crisi attuale sono di tanti tipi e li vediamo emergere anche tra le nuove forze politiche o alcune di quelle più vecchie che si ricollocano diversamente nello scenario parlamentare.
Si tratta di soluzioni parziali, confuse e contraddittorie, in una parola inadeguate. Al momento, sembrano prospettare uno sbocco di destra o di natura populista perché manca ogni altra alternativa credibile.
La rinnovata presenza di un partito, di un movimento d’ispirazione cristiana mi appare, allora, come l’unica risposta valida a un Paese più che mai alla ricerca di coesione ed equità sociale con il contemporaneo rispondere ai problemi dell’essere umano e delle sue aggregazioni naturali e spontanee, a partire dalla famiglia.
In questo senso è più che mai valido l’invito al superamento della divisione dei “ cattolici della morale” da quelli “del sociale”.

Se faccio uno sforzo per andare oltre quella inevitabile spontanea etichettatura che tende a legare i primi alla destra ed i secondi alla sinistra, e guardo a me stesso, non vedo quella che Alessandro Risso, nel suo interessante e stimolante intervento, definisce “ forzatura”.
Tanti come me non si sentono certamente di destra. Ma non per questo, se fosse possibile, non cancellerebbero la legge Cirinnà. L’ho già scritto e lo ripeto: era nel codice civile che andavano individuate le risposte più adeguate a quei nuovi diritti particolari destinati, però, a trovare un soddisfacimento condiviso se inseriti in quelli più generali perché, questi ultimi, sono direttamente legati al sentire di un intero popolo ed al diritto naturale, il quale non è una nostra invenzione e che, pure, resta forte e tenace.
Essere per il matrimonio tra uomo e donna, impedire il concepimento attraverso l’utero in affitto, schierarsi contro l’adozione da parte di coppie formate da individui dello stesso sesso, mettere al centro i minori che hanno diritto ad avere una mamma vera ed un papà vero, favorire una scelta diversa all’aborto, contrastare pratiche biologiche il cui sfondo è una manipolazione dell’essere umano, non vuol dire essere schierati politicamente.
Questa lettura di tutte le cose attraverso gli occhiali della politica, anche di ciò che immediatamente politico non è, perché va invece all’essenza della natura umana, ma che comunque deve vedere l’intervento della politica, questa sì, potrebbe rischiare di diventare la vera “ forzatura”.
La nostra società per salvarsi ha bisogno di ritrovare quello che, a mio avviso, solo il combinato disposto Costituzione e Dottrina sociale della Chiesa può proporre per affrontare, assieme, i problemi economici e sociali e quelli antropologici che ci stanno investendo.
L’uomo non è ad una sola dimensione.

La sua ricchezza e poliedricità sono colte e sostenute in maniera mirabile dalla nostra Costituzione e dalla Dottrina sociale. Due insieme di grandiosi visioni, prima che norme e sollecitazioni, che a ben guardare indicano già il superamento di tutto ciò che sembrerebbe dividere e differenziare i cosiddetti “ cattolici della morale” dai “ cattolici del sociale”.
La nostra Carta fondante trova una propria ragion d’essere ed una forza originale perché rovescia un’antica gerarchia dei valori, cosa cui ho già fatto riferimento, e tutto fa partire dalla Persona.
La Dottrina sociale è caratterizzata da un affacciarsi sempre più meticoloso sui problemi dell’uomo moderno costringendoci, semmai, ad una difficile riflessione su come sia possibile, nel concreto, occuparcene nel rispetto della sua integralità e compiutezza.
Il Paese ha la necessità di ritrovarsi attorno ad un progetto di rinascita che deve ruotare attorno al recupero della solidarietà, della giustizia sociale, della valorizzazione delle nostre donne e dei nostri uomini, colti nelle difficoltà quotidiane che, però, non sono solo di ordine materiale.

Purtroppo, non vedo altri filoni di pensiero, forze politiche, organizzazioni in grado di lavorare per quel grande sforzo di rinascita oggi necessario all’Italia. Se ci fossero, non avremmo bisogno alcuno di ritenere che il mondo cattolico debba essere chiamato a scendere in campo nel tentativo di offrire una nuova prospettiva.
Ripeto, non si tratta di una sua esigenza intima di presenza e non significa una scelta integralista o di contrarietà preconcetta verso tutto ciò che ci propone la modernità. Quel tipo particolare di esigenza di esprimere una presenza, che i cristiani non possono non avvertire, ha comunque altri campi in cui dispiegare tutta intera la forza e la sostanza dell’afflato di fede e religioso. Ma parliamo d’altro che va oltre e trascende la sfera della politica.
La realtà cattolica ha, invece, il dovere civico di rendere manifeste nel momento storico in cui vive le proprie energie, le proprie capacità propositive per mettersi al servizio del Paese e il problema non è quello di ridurre tutto alla denominazione o ad un simbolo.
Deve, però, essere riconosciuta la necessità di superare le frammentazioni, gli indugi verso una certa autoreferenzialità.
Anche la paura di un confronto aperto, motivata dal convincimento che viviamo in un mondo oramai “ ostile” in cui la desacralizzazione ha finito per permeare completamente l’intera società.

Non è così. Una lettura erronea rischia di farci perdere quel grido di aiuto, la ricerca di una speranza che si leva un po’ dappertutto e che, forse, noi non siamo capaci di intercettare e di comprendere. Ogni giorno abbiamo l’incontro con gente che, come tanti di noi, si interroga, cerca di andare oltre le cose materiali che, però, sembrano soverchiarci.
In ogni caso, non devono essere confusi il piano politico con quello che attiene e richiama questioni teologiche ed ecclesiastiche.
La realtà è che ci troviamo di fronte ad un essere umano in crisi perché non trova un qualcosa di più confacente ai propri limiti e alla difficoltà di indovinare un percorso credibile, razionale e sostenibile, alla sua portata concreta.
Dobbiamo quindi andare oltre le divisioni perché messi tutti intorno al tavolo, se solo avessimo la forza ed il coraggio di entrare in quella stanza in cui fosse disponibile un tavolo comune, potremmo avere la sorpresa di scoprire che le nostre opinioni finiscono per convergere su gran parte delle soluzioni da offrire al Paese. Scopriremmo che tanto potremmo portare a favore del “ bene comune”, pur continuando ad avere sensibilità diverse, usare accenti differenti e senza impegnare le nostre organizzazioni di riferimento ad annullare le loro singole vocazioni e specificità. Vogliamo essere proprio noi a non seguire l’insegnamento di Giovanni XXIII a fare, almeno, un tratto di strada con l’altro viandante che va nella stessa direzione?

In questi giorni molti amici guardano alle prossime elezioni europee come l’occasione di una nostra riproposizione capace, persino, di favorire un modo di cominciare a stare Insieme. Può essere così.
Esistono, però, forti richiami ancora verso proposte politiche in grado di fornire solo una risposta parziale. Eppure, c’è chi tra di noi le ritiene più consistenti di quella perseguibile con una presenza organica ed autonoma. La sola in grado, a mio avviso, depurata da ogni spinta integralista e settaria, di richiamare attenzione e credibilità, a destra, come a sinistra.
Esiste ancora la tendenza a schierarsi secondo i vecchi paradigmi spazzati via dal voto del 4 marzo. Esiste il rischio concreto che la semplificazione dei messaggi elettoralistici porti alla creazione di due fronti contrapposti, in grado solamente di riproporre quell’astratto bipolarismo rivelatosi tanto nefasto per il nostro Paese.
E’ chiaro, allora, che la riflessione verso i prossimi appuntamenti elettorali non possa prescindere da un progetto di più lungo respiro e preminente, magari inserendosi in esso nelle forme più adeguate, sulla base di un pensare che deve vedere la partecipazione della gran parte dei cattolici democratici più avvertiti.

Si tratta di continuare a tessere una presenza giocata sulla base delle necessità della gente dell’oggi e con la capacità, dunque, di elaborare quelle proposte politiche più stringenti sul confronto attorno alle cose che richiamano, assieme, le più generali dinamiche sociali ed economiche e quelle più quotidiane ed immediate di tutti noi, uomini e donne in carne ed ossa.
Questo mi pare costituisca il nostro limite attuale perché sembra mancare la capacità di trasferire in un progetto politico istituzionale quella consolidata elaborazione organica già in atto tra tanti nostri studiosi, economisti, sociologi, politologi, che si muovono nella coniugazione della Dottrina sociale con la Costituzione. A tutto ciò non viene ancora offerto uno sbocco concreto. Dovremmo riuscire a trovarlo.

Otto Regioni verso l’autonomia

In riferimento alle richieste di autonomia il titolare per gli Affari regionali, Erika Stefani, ha precisato che fino ad oggi sono arrivate richieste da otto regioni: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche e Umbria (in forma congiunta) e Piemonte. Il Ministro ha poi aggiunto che: “le prime tre Regioni hanno già formalizzato l’avvio di un percorso nell’ultima legislatura, percorso che ha portato alla firma di accordi preliminari (le cosiddette pre-intese) con il governo uscente.”

Avviare un percorso di maggiore autonomia amministrativa e finanziaria trattando con il Governo nazionale per l’attribuzione di maggiori competenze e le conseguenti risorse, ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione. Questa la richiesta delle Regioni interessate.

“La pre-intesa siglata in febbraio – ha detto il governatore del Veneto, Luca Zaia – è una prima firma che dà l’avvio ad un altro grande negoziato che prelude alla firma finale dell’intesa su tutte e 23 le competenze. Intesa su cui si dovrà poi esprimere il Parlamento. Il Veneto sull’autonomia fa da apripista, innanzitutto per il bene dei veneti, ma anche per il bene di tutte le altre Regioni che riterranno di identificare nel nostro negoziato le linee guida per quelle riforme che non mi stanco di ripetere partono dal basso”.

l’Accordo comprende una prima parte, recante le Disposizioni generali, e una seconda parte, composta da quattro allegati (relativi rispettivamente alle materie Politiche del Lavoro, Istruzione, Salute, Tutela dell’ambiente e dell’Ecosistema), e da un addendum sui rapporti internazionali e con l’Unione europea. La prima parte – Disposizioni generali – contiene norme relative ai principi generali ed alla metodologia che dovranno essere seguiti per l’attribuzione al Veneto di autonomia differenziata. Di particolare interesse appaiono le previsioni relative all’istituzione di una Commissione Paritetica Stato-Regione per la determinazione delle modalità di attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali necessarie per l’esercizio delle nuove competenze; ai criteri che dovranno essere seguiti per la determinazione delle risorse: attribuzione alla Regione di compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale; definitivo superamento del criterio della spesa storica; definizione entro un anno dei fabbisogni standard; alla durata dell’Intesa che verrà sottoscritta, con la previsione di un ‘tagliando’ a 10 anni dalla sottoscrizione dell’Intesa, mediante un procedimento di verifica congiunta tra le parti, nonché al procedimento per la modifica dell’Intesa stessa; alla determinazione congiunta di specifiche modalità per l’assegnazione di risorse per gli investimenti. Nella seconda parte sono invece specificate le competenze oggetto di attribuzione su cui è già in stato avanzato un negoziato tra Stato e Regione, fermo restando che nell’Accordo stesso è precisato che resta impregiudicato il prosieguo del negoziato con il prossimo Governo sia sulle materie che sono già state oggetto di trattativa, sia sulle altre materie per cui la Regione Veneto chiede maggiore autonomia.

Per quanto riguarda il Piemonte, il vicepresidente della Regione, Aldo Reschigna, ha ricordato che alcuni mesi fa è stato aperto un confronto con le associazioni sindacali e datoriali, le Università e i rappresentanti degli Enti locali. “Ci sono stati contributi scritti che hanno permesso di modificare la prima stesura con la nuova, che abbiamo presenteremo in Consiglio regionale. Il presidente Chiamparino ha inviato una lettera al ministro per gli Affari regionali, nella quale è stato indicato lo stato dell’arte della nostra procedura”, ha chiarito Reschigna. “Non riteniamo che questo tema sia una moda, ma un’opportunità. Per questo dobbiamo lavorare nel solco dell’articolo 116, che parla di autonomia accresciuta o differenziata”.

A70 anni dalla Costituzione repubblicana : dibattito e conservazione dei suoi riferimenti e dei suoi valori

Attualmente, in Italia, dibattere di dittatura, Resistenza e Costituzione deve necessariamente tener conto della discussione che si è sviluppata negli anni non senza alcune degenerazioni politiche, storiche e sociologiche. Vediamo perché e cerchiamo di capirne le ragioni.

Nel biennio 1947-1948, non molto tempo dopo l’insediamento del regime fascista, prese forma il progetto costituzionale la cui approvazione si protrasse per mesi, e che oggi, a più di settant’anni di distanza, mantiene intatta la sua struttura essenziale. Decorso suddetto lasso di tempo, ci siamo chiesti sempre più spesso se quelle leggi fondamentali del nostro Stato sono state in grado di offrire certezze, garanzie giuridiche, compromissorie e statutarie. Ma l’interrogativo più ricorrente è : quale impatto hanno, attualmente, nella coscienza civica e nella percezione comune degli italiani?

L’argomento è alquanto complesso – o almeno lo è diventato – perché in piena era post-ideologica tutto l’ordine è stato condizionato dalla scalata al potere di forze populiste e anti-sistema rimaste in embrione per diverso tempo; e che, grazie a strumentalizzazioni e furbe demagogie, hanno ottenuto larghi consensi (agevolate nel loro decorso dagli anni del berlusconismo e dall’ibrido politico importato al governo dai democratici). Eredità che hanno, in un modo o nell’altro, continuato ad annichilire la classe media creando maggior disparità di ricchezza e gravi disuguaglianze sociali. E’ in un siffatto sistema che si trovano i primi nodi da sciogliere circa il mantenimento dei principi ispiratori, del nesso culturale e del quadro socio-politico dei nostri fondamenti costituzionali, messi più volte in dubbio nella loro consistenza effettiva dagli eventi e dagli sciovinismi “de noantri” proposti da alcune correnti politiche del terzo millennio.

Lo scontro ideologico, che in verità affonda le sue radici nel Risorgimento, va superato perché il tempo lo sta archiviando nella speranza che, dopo più di un secolo, le fazioni più estremiste riescano a trovare un punto di concilio per il bene dalla comunità. Siccome è la storia che lo impone, è giusto guardare avanti per il bene del paese, ma senza affievolire i punti cardine della memoria. La Resistenza e l’Assemblea Costituente non furono composte esclusivamente da partigiani e rivoluzionari, bensì da una pluralità di movimenti liberal-democratici provenienti dal mondo borghese, dall’universo cattolico e dai ceti salariali; i quali, forti di una cultura unica opposta agli assolutismi e al nazi-fascismo, mossero milioni di uomini e donne che intravidero nella conquista delle libertà dell’individuo e nella Costituzione le loro basi per ripartire.

Consapevolezze ideali di dette basi sono sempre più spesso rapportate alla questione legata ai modi e alla condotta con cui l’anti-fascismo si oppose e reagì ai regimi dittatoriali di allora. Per quanto deplorevole fu – vuoi per ritorsione, vuoi per dare lezioni da tramandare ai posteri – la violenza adottata da alcune frange nei confronti dei poteri già deposti, non è appropriato equiparare la genesi dei totalitarismi dell’Asse (o del più recente stalinismo) alla cultura della Liberazione. Le deportazioni, le aggressioni militari, le leggi razziali e le popolazioni ridotte alla fame da Hitler e Mussolini, così come la feroce rappresaglia slava nell’est europeo, non c’entrano affatto con l’identità repubblicana assertrice della pace.
Premesso che in Italia la cultura della “vendetta” non ebbe (per fortuna) vasta diffusione, la nascita della sovranità popolare non va oltre modo banalizzata.

E’ questo aspetto che deve far riflettere: le socialdemocrazie, i liberalismi, le sinistre democratiche e le stesse correnti conservatrici legate al concetto di una destra moderna furono soggetti attenti ai diritti dell’individuo, laddove la rimozione degli ostacoli economico-sociali fornì – o comunque mostrò la volontà di fornire – libertà e uguaglianza tra i cittadini. Ricordando nuovamente gli oltre 50 milioni di morti provocati dall’ultima guerra (non certo scoppiata per colpa delle costituzioni democratiche) e fatte le dovute distinzioni, va aggiunto che i cambiamenti servirono anche a lasciare aperti gli spiragli per riformare – eventualmente – le funzioni dello Stato. Condizioni che la politica avrebbe dovuto tradurre in concreto secondo canoni di equità, legalità e giustizia. Ma in Italia ciò è avvenuto a fasi alterne, ed è un patrimonio che la cosiddetta terza repubblica, a sua volta, non è al momento in grado di gestire e tanto meno di rivalutare.

E’ dalla diminuzione di alcuni valori che scaturiscono i dubbi sul sistema istituzionale e politico italiano, che, malgrado la futilità degli argomenti proposti dai cosiddetti propugnatori del “cambiamento”, si richiama pur sempre ai principi fondanti del ’48. La Costituzione, quando serve, corre in aiuto nei momenti di difficoltà. Noi la richiamiamo, e lei risponde.
Ciò significa che il patrimonio non è disperso ma è vivo, presente, e va, evidentemente, solo migliorato. Solo qualora ce ne fosse sul serio bisogno.

Bolzano mette in campo il Fascicolo sanitario elettronico

In Alto Adige, a partire dalla fine di ottobre,  sarà messo a disposizione dei cittadini over 18, il Fascicolo sanitario elettronico (Fse), documento che raccoglierà tutti i dati e le informazioni mediche e sociosanitarie individuali generate in forma digitale, venendo a creare una vera e propria anamnesi di ogni singola persona. In un primo momento il fascicolo sanitario elettronico conterrà solamente i dati assistenziali della persona poiché l’Azienda sanitaria deve ancora completare le necessarie procedure tecniche per la messa a disposizione dei referti e delle prescrizioni digitalizzate.

Secondo quanto affermato nel corso della conferenza stampa dall’assessore competente, le prescrizioni digitali potranno confluire nel Fse entro la metà di ottobre, mentre i referti di laboratorio saranno a disposizione dei cittadini entro il mese di novembre. L’interoperabilità con il sistema nazionale garantisce l’inserimento e lo scambio di dati e di documenti con le altre realtà territoriali nazionali.

Una volta che il singolo cittadino avrà espresso il proprio assenso, e dopo la realizzazione dei necessari adeguamenti di carattere tecnico, i medici (ospedalieri o di medicina generale) potranno accedere alle informazioni raccolte nel fascicolo, consultare tutti i documenti, così come il profilo sanitario sintetico (Patient Summary) del singolo cittadino ed integrarlo. Questo processo potrà avere anche effetti decisivi in casi di emergenza. Importante tra l’altro il notevole risparmio di tempo per i cittadini i quali in futuro avranno meno necessità di recarsi agli sportelli sanitari per il ritiro di indagini di laboratorio o di analisi del sangue. Ovviamente le informazioni contenute nel fascicolo sanitario elettronico potranno fornire preziosi ausili per decisioni da adottare da parte del personale specializzato con una migliore governance della sanità da parte dell’ente pubblico. La realizzazione del progetto è resa possibile grazie all’impegno della Ripartizione salute, in particolare dell’Ufficio governo sanitario, dell’Informatica Alto Adige e dell’Azienda sanitaria provinciale.

Quante Dc?

Dunque, per lunghi 50 anni abbiamo conosciuto la Democrazia Cristiana. Quella che è nata dopo la guerra di liberazione ed è finita nel 1994 con la nascita del Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli. Ormai ne conosciamo vita, morte e miracoli anche se da qualche tempo aleggia uno strano sentimento in chi ha trascorso una intera una vita a ridicolizzare se non a disprezzare quel partito, la sua classe dirigente, le sue scelte politiche e lo stesso ruolo che ha svolto nel nostro paese per un cinquantennio. Ovvero, serpeggia una sorta di rimpianto, e non solo nostalgico, di quel partito e del suo modo di declinare la politica nella società, nelle istituzioni e nella concreta azione di governo. Oltre a rimpiangere molta di quella classe dirigente, per la sua levatura culturale e per la sua autorevolezza politica. Di qui la tentazione di paragonare la Dc con qualsiasi partito che si affaccia sulla scena politica italiana quando riscuote un grande consenso popolare. Così è capitato con Forza Italia a cominciare dal 1994 e sino a quando questo partito ha dominato la scena politica italiana. Quintali di articoli per spiegarci che l’elettorato democristiano – e forse qui un pizzico di verità c’era – era traslocato quasi integralmente nel partito del Cavaliere perché la politica che declinava nel nuovo contesto dopo la fine della prima repubblica era pressoché simile. Archiviato il paragone con Forza Italia, adesso qualche buontempone, ritenuto intelligente e anche acuto nonche’ addirittura considerato autorevole, paragona la Dc al partito di Grillo e Casaleggio. E questo sia per il consenso elettorale che riscuote e sia, soprattutto, per la sua capacità di contenere al suo interno tanto le componenti di destra quanto quelle di sinistra o semplicemente di centro.

Ora, come sempre capita, ogniqualvolta un partito di un certo peso politico ed elettorale svolge un’azione di governo il paragone con la Democrazia Cristiana e’ sempre dietro l’angolo. E debbo dire che è un paragone del tutto fuori luogo nonché volgare perché le diversità tra la storia, l’esperienza, il progetto politico, il ruolo e la funzione della Dc sono sideralmente lontani rispetto ai partiti succitati. È appena sufficiente ricordare alcuni aspetti essenziali del profilo politico della Dc per rendersi conto della diversità profonda sia rispetto all’esperienza di Forza Italia ieri e dei 5 stelle oggi. O addirittura della Lega, come sostiene disinvoltamente qualche osservatore interessato.

La Dc era un partito di “centro che guarda a sinistra”, per dirla con De Gasperi; la Dc era un partito profondamente democratico al suo interno, articolato per correnti che ha sempre respinto la sua identificazione con un “capo”; la Dc aveva una chiara collocazione europea ed internazionale in materia di politica estera senza sbandamenti riconducibili all’approssimazione e alla superficialità politica; la Dc contava una classe dirigente con una statura politica, culturale e di governo neanche lontanamente paragonabili alle esperienze successive; la Dc ha sempre avuto nella sua lunga storia, una “visione” della società frutto della sua cultura di riferimento cattolico democratica, cattolico popolare e cattolico sociale; la Dc, infine, era un partito di ispirazione cristiana che non poteva tollerare alleanze disinvolte ed approssimative, anche quando per ragioni di Stato o per emergenza democratica ha dovuto privilegiare accordi con partiti che esulavano dalla sua prospettiva politica e di governo.

Insomma, come dicevo poc’anzi, e’ appena sufficiente anche solo una fugace rilettura della storia e della azione concreta della Democrazia Cristiana per arrivare alla conclusione che gli attuali attori politici non hanno nulla in comune con il profilo di quel partito, salvo per il consenso significativo che raccolgono tra gli elettori italiani. Nulla di più. E questa è anche la ragione politica decisiva per cercare, oggi, di ridare cittadinanza ad una formazione politica che, pur senza ripetere quella nobile e gloriosa esperienza – com’è ovvio e risaputo si tratta di una stagione storica irripetibile perché ormai storicizzata – cerchi tuttavia di recuperare quella cultura e quella ispirazione per declinarle nella società contemporanea. E questo dopo il definitivo tramonto dei cosiddetti “partiti plurali’, cioè del Pd e di Forza Italia dopo il voto spartiacque del 4 marzo scorso, e con l’esaurimento definitivo e poco glorioso dell’Udc. Una riproposizione e un rilancio di una cultura politica e di un progetto politico che confermino, appunto, la lontananza, se non l’alternativa, tra la Dc e altri soggetti politici. Che siano Forza Italia di ieri o i 5 stelle oggi poco importa. Si tratta sempre di esperimenti e di soggetti politici estranei, esterni e alternativi rispetto alla concreta esperienza politica, culturale, sociale e di governo della Democrazia Cristiana.

 

Un Declino

Qualsiasi partito o movimento resta in vita fino a quando registra pulsioni, forza, volontà e desiderio di trasformare le condizioni dell’uomo, della società, del lavoro e delle istituzioni. Quando cioè ha una freschezza ancora integra o per lo meno se non lo è, almeno abbia tratti significativi di freschezza e quindi di vitalità. Ma come la storia ci insegna e più volte ha mostrato, tutto questo bagaglio iniziale può finire. Cioè si avverte lo smarrimento del suo senso, vale a dire il motivo per il quale esiste. Va però riconosciuto che in alcuni frangenti della storia molte realtà sono rimaste in sella solo in virtù di una certa inerzia e questo non ha mai fatto bene ne al paese dove questo si manifestava, ne tanto meno ha fatto il bene per chi registrava questo flusso dettato solo dalla abitudine.

Per solito, invece, almeno nella stagione che stiamo vivendo, dove tutti i processi sembrano essere animati da una frettolosità nell’apparire come nel tramontare, quando capitasse una condizione di spegnimento delle finalità e degli ideali, allora è altamente probabile che la decadenza non si possa più arrestare.

Questa premessa, perché ai miei occhi quello che appare nella politica attuale è una manifestazione chiara di chi sia in salute e di chi, invece, versi in gravi condizioni.

Non c’è alcun dubbio che scintillante è la Lega e possiamo anche affermare che lo siano pure i 5Stelle anche se qualche opacità, nell’uno e nell’altro, di possano registrare.

Ma ben altro sta capitando invece alle altre forze in campo e lasciando perdere le realtà minuscole che vivono un dramma proprio per la loro poca consistenza (mi riferisco a FdI a LeU e ad altre ancora di piccole dimensioni), dove il medico sembra ormai al capezzale.

La faccio volutamente cruda l’immagine perché è preferibile non nascondere alcunché a chi sta passando un gramo periodo. Semmai potrebbe essere appunto utile per individuare terapie che in caso contrario sarebbero dimenticate.

Il PD e Fi che fino a qualche lustro fa sembravano inossidabili e veleggiavano verso destini trionfanti, nel corso di queste ultime stagioni politiche hanno visto drasticamente una inversione di tendenza e un aggravio così intenso da fare intravvedere un orribile precipizio.

Sono entrambi ridotti a parlare di cene o in qualche ristorante romano o ad Arcore. Ma mentre per quest’ultimo tale caratteristica appariva normalmente anche nei periodi fausti, nel caso del PD è il sintomo del malessere di cui facevo cenno; vale a dire quello smarrimento della funzione della vitalità che dovrebbe sempre animare una forza politica perché esplichi al meglio la sua funzione.

Se dovessi chiedere oggi a un elettore ipotetico del PD per quale ragione simpatizzi ancora per quelle orme, sono convinto che resterebbe interdetto e lascerebbe un silenzio inquietante.

Non si capisce come in così breve tempo abbiano scialacquato un patrimonio e una speranza almeno per un terzo degli italiani. Purtroppo e quasi inevitabilmente, quando si dimenticano le ragioni di quella nascita, si veleggia verso direzioni non più in sintonia con gli inizi ed è inevitabile, prima o dopo, uno stucchevole smarrimento.

Bene, siamo giunti a questo giro di boa.

Mi sono soffermato sui caratteri romani perché segnano maggiormente un triste tramonto. Se dovessi guardare alle periferie e in questo caso alla Regione Fvg, qui lo sconcerto sarebbe ancora più eclatante. Perché? Perché da una condizione di ricchezza politica senza precedenti, il PD è rimasto orfano di chi sembrava, fino a qualche anno fa, avere in seno qualche massimo dirigente nazionale.

Ed oggi, non solo orfano di costoro, ma squagliato in un aeriforme nulla: i circoli non hanno più iscritti o se ne hanno, sono ridotti a una manciata di inossidabili fedelissimi. Eppure, come è triste la storia, rammento ancora i sorrisi e le bandiere spiegate.

E, invece, oggi siamo a testimoniare un abbandono senza più alcun salvifico freno.

I Sindaci contro la legge Basaglia: neanche Nogarin (M5S) si dissocia

“Liberiamo i sindaci” è lo slogan, un po’ ambiguo, proposto dall’Associazione dei Comuni (ANCI) a sostegno della proposta di legge d’iniziativa popolare, che dovrebbe rappresentare nelle intenzioni dei proponenti un passo importante di sburocratizzazione, destinato a influire a cascata sui rapporti tra Comuni e cittadini. Il condizionale è d’obbligo perché si  rintraccia a fatica, leggendo il testo, quale sia la trama di questa virtuosa correlazione che unirebbe i cittadini ai primi cittadini nella lotta al burocratismo.

In larga parte l’operazione consiste invece in una serie di rivendicazioni corporative in nome – ecco la motivazione – di un necessario rispetto della funzione dei sindaci. Nella realtà si traduce nela pretesa di abusare elegantemente di un potere, come quando si richiede l’abolizione dell’obbligo di dimissioni del sindaco (per i comuni superiori a 20.000 abitanti) 180 giorni prima della scadenza ordinaria delle elezioni per il Parlamento.

Non a caso l’abuso, che renderebbe diseguale la competizione con un candidato privo di analogo potere, in passato era nettamente contrastato dai grandi partiti democratici. Lo statuto della Dc, ad esempio, obbligava i segretari provinciali del partito, intenzionati a candidarsi, a rispettare la medesima norma prevista per i sindaci.

Tuttavia, non è questa la nota più preoccupante. Fin qui siamo alla dimostrazione di come la “rivoluzione dei sindaci”, iniziata con la elezione diretta e gonfiata all’epoca dal fenomeno di Mani Pulite, si stia accartocciando in una malinconica rappresentazione di vanagloria e furbizia. Preoccupa di più, semmai, ciò che il disegno di legge dell’Anci prevede laddove, sulla L. 180/78, arriva inopinatamente alla cancellazione della firma del sindaci sul ricorso al Trattamento Sanitario Obbligatotio (TSO) a carico di una persona affetta da malattia psichiatrica.

Si tratta di un errore molto grave. La legge 180, altrimenti detta “legge Basaglia”, ha uno strano titolo che non c’entra nulla con la chiusura dei manicomi. Il legislatore volle far vedere, con grande chiarezza, che la scelta irreversibile consisteva nella rimozione della logica di “misure speciali di polizia” per i malati di mente.

Il cosiddetto TSO, in precedenza affidato dal Regolamento della legge Giolitti del 1904 alla polizia, cui faceva seguito la ratifica del giudice penale, fu ricondotto a una misura sanitaria e quindi non più di ordine pubblico, con ciò legando la responsabilità dell’atto – ecco la rivoluzione! – non più all’intervento della Questura, ma alla autorità sanitaria locale, ovvero il Sindaco. E il magistrato ratificante divenne il Giudice Tutelare. Questo principio ordinatore della legge risplende nel suo incaccellabile significato morale e politico. Non si può privare, in fin dei conti, della libertà personale un soggetto malato allo stesso modo con cui si limita quella di un criminale.

È giusto che sia il capo dell’amministrazione locale a mettere il sigillo, per così dire, su questo particolare e delicato provvedimento sanitario. Che ciò appesantisca il lavoro del sindaco è tesi suscettibile di controindicazioni, rischiando a dire il vero di scadere nel ridicolo. D’altronde, quanti casi di quarantena portuale o epidemie di peste e colera ci sono state in questi ultimi decenni? L’intervento dell’autorità locale, anche in queste circostanze, ha fatto leva (e fa leva) sullo strumento del TSO. Certo, il più frequente TSO è proprio quello psichiatrico, affidato in realtà a un funzionario delegato che, salvo inconcepibili disfunzioni organizzative dell’ente locale, interviene e provvede sulla base di moduli prestampati.

Ora, il desiderio di “liberazione” dalla fatica di una firma può forse  giustificare questa sorta di fuga dalle responsabilità? È lecito  plaudire a ciò che l’iniziativa dei sindaci lascia presagire? Dobbiamo cioè fare un percorso a ritroso, magari dopo aver commemorato i 40 anni della legge Basaglia, riportando perciò in capo alla polizia il compito di decidere il ricorso al TSO? Vogliamo in sostanza archiviare, in nome di una istanza di presunta sburocratizzazione dell’attività dei comuni, l’umanizzazione del trattamento psichiatrico, vera conquista di civiltà della legge Basaglia?

L’Anci ha preso un abbaglio, ora non lo prendano i cittadini. Sottoscrivete la sua proposta di legge non vuol dire liberare i sindaci, ma degradare in vari settori la qualità della nostra legislazione. Purtroppo è una pagina nera nella storia del movimento autonomistico, meritevole di essere guidato con diversa lungimiranza politica rispetto all’oggi. Neppure il sindaco di Livorno, il pentastellato Nogarin, ha trovato modo dopo la sua recente nomina a vice-presidente Anci di prendere le distanze da questa ben poco lodevole iniziativa.

 

http://www.anci.it/index.cfm?layout=dettaglio&IdSez=821212&IdDett=63733

Una grande lista per l’Europa

Articolo già apparso su www.huffingtonpost.it

Nel Vangelo si legge del chicco che per dare frutto deve morire. Il senso è chiaro. Ed è chiaro anche per noi, in questa fase politica, con i problemi legati ad una opposizione che non può fertilizzare il suo campo se non facendo come il chicco. Dobbiamo pensare che solo il sacrificio del Pd può essere il passaggio per una nuova opposizione, più forte e incisiva.

Alle elezioni europee dobbiamo presentare una lista che aggreghi le forze anti-sovraniste e anti-populiste. Ma sarebbe sbagliato affastellare confusamente spezzoni di classe politica, senza chiarezza di principi, senza un disegno programmatico. L’opinione pubblica deve cogliere, da qui alle elezioni, la novità di un progetto ricostruttivo, per l’Europa e con l’Europa. Molti elettori disertano le urne perché non si sentono più rappresentati.

A essi bisogna parlare il linguaggio della coerenza politica, dicendo apertamente che gli errori e i limiti dell’Unione europea richiedono maggiore impegno, non l’abbandono perciò del sogno europeista di De Gasperi e Spinelli.

Del resto, mentre conosciamo l’indirizzo politico di Salvini, di quello grillino non indoviniamo ancora i contorni. In questa ambiguità il M5S contribuisce direttamente o indirettamente a rafforzare la destra xenofoba e nazionalista. Per questo è decisivo il modo con il quale l’opposizione organizzerà la sua proposta. Quanto più avrà coraggio, andando oltre le colonne d’Ercole del social-progressismo di vecchie sigle e vecchie bandiere, tanto più renderà plausibile la scommessa di un nuovo movimento europeista di cultura liberal-popolare.

Un’Europa rinnovata può contribuire alla stabilità e alla sicurezza delle relazioni internazionali. Troppe tensioni, specie nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, suscitano allarme. La pace è un bene che impone sforzi costanti di manutenzione. Ed è un bene, ancora, minacciato da numerosi focolai di crisi. È una pace circondata da guerre, alcune alle porte di casa nostra. Far finta d’ignorarlo è segno di irresponsabilità, a maggior ragione se si pensa di diminuire o sminuire il ruolo dell’Europa. Nel nostro futuro c’è il fantasma di questo declino a due facce: un mondo senza pace, un mondo senza Europa. Due facce della stessa medaglia.

Di questo dovremo parlare in campagna elettorale. Se lo faremo attraverso una grande lista per l’Europa, potremo mettere in moto tante energie sopite e tante energie nuove. Altrimenti daremo l’immagine dei combattenti e reduci dei gazebo, tutti impegnati a votare per Zingaretti o mister x, rinunciando a un “oltre” possibile, ovvero alla speranza capace di dare senso alla battaglia, così da riscaldare il cuore e riaccendere la passione.

Dovremmo temere, in conclusione, di atteggiarci a quei tardivi imperatori dell’impero romano declinante, che non si accorsero dell’arrivo dei barbari e si trovarono governati dai barbari, fino al punto di diventare barbari essi stessi. Apriamoci dunque a una sfida nuova e non avremo rimorsi, come invece potremmo averne se malinconicamente finiremo di occuparci della investitura dell’ultimo segretario di un partitino che convoca i gazebo mentre l’italia e l’Europa bruciano.

La sinistra Pd deve superare l’ossessione del governo del partito anche perché così facendo non governerà più ne l’Italia e neppure l’Europa.

Il chicco, se muore, può dare grande frutto.

Tempi lunghi per Genova

Un tempo la Protezione Civile Nazionale aveva disponibili strumenti legislativi per interventi d’urgenza che oggi non ci sono più. Conosciamo le ragioni storiche e politiche che poi hanno cambiato l’impostazione delle possibilità che il Dipartimento nazionale della Pc aveva. Da qui, i nuovi provvedimenti legislativi che hanno ristretto enormemente la sue capacità. E, senza contare, la forte riduzione delle disponibilità finanziarie che l’hanno pesantemente limitata nella sua operatività.

Ora, stante le diverse calamità naturali e antropiche che hanno colpito l’Italia, e grazie anche al nuovo capo del Dipartimento della PC, vi è una nuova visione che permetterà una maggiore capacità esecutiva e di incisività a supporto della protezione civile.

Quindi, di fronte a una sua riacquisita capacità di operare concretamente che si basa anche in una lucida analisi degli scenari e delle modalità d’intervento come nel caso dell’evento genovese, sembra invece che la politica sia sintonizzata su una lunghezza d’onda non sempre condivisa.

Purtroppo si assiste a un continuo rimbalzo delle responsabilità che prefigura uno scenario nel quale la ricostruzione del ponte richiederà dei tempi molto lunghi.

Non solo, sembrano esserci tutte le premesse per l’insorgere di continui contenziosi che non aiuteranno la ricostruzione e che si riverbereranno in danno allo Stato e, quindi, alla collettività, costretta a subire nuovi balzelli di tassazione, qualora dovessero soccombere le attuali scelte del Governo.

Il Governo dovrebbe rapidamente demandare ai tecnici la individuazione e l’applicazione delle procedure in deroga per il ripristino del ponte, la demolizione delle case e la loro ricostruzione in apposite nuove aree. Per fare questo ci vuole un Commissario che ancora non è stato nominato, che governi le complesse fasi attuative.

Una decisione del Governo necessaria a ricreare le condizioni di normalità con decisioni rapide ma efficienti che riportino fiducia ai cittadini.

Allo stato attuale, però, queste condizioni non sembrano esserci ma, piuttosto, c’è  un puntiglioso rimpallo di responsabilità che fa perdere tempo prezioso facendo sentire la comunità genovese più sola.

Speriamo vivamente di sbagliare ma nulla fa presagire che entro un anno, come afferma il Ministro delle Infrastrutture, il ponte Morandi sia ricostruito.