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La vittoria francese, nel segno della vecchia scuola italiana

Diciamolo con onestà. Noi italiani avevamo già un senso di repulsione a vedere le partite di questo mondiale. Oltre a non esserci, noi italiani, abbiamo avuto lo “smacco” di vedere la Francia Campione del mondo. Di peggio non poteva esserci. L’unico cosa positiva è che la nostra bacheca è, nonostante la crisi perenne, ancora più grande dei cugini transalpini.
Una Francia che, vado controcorrente, a me non è piaciuta.

In realtà è un mondiale che ha mostrato tanto deficienze calcistiche, dove le grandi giocate non sembrano esserci state. Solo delle parvenze di buon calcio, non stratosferico. Ci sono state tante stelle che hanno marcato visita. Su tutti menzionerei Messi, l’emblema del non mondiale. Per non parlare del gioco che in quest’edizione di Russia 2018 non è sembrato essere di gran livello. Alla fine la Francia di Deschamps ha vinto con il vecchio e classico contropiede all’italiana. Se lo avessimo fatto noi italiani saremmo stati criticati sine die. Certo vi è stato l’apporto fondamentale di Mbappe, consacrato miglior giovane del mondiale. In realtà vorrei sottolineare il gioco fondamentale di Griezmann, un giocatore a tutto campo, capace di ripiegare e contemporaneamente far salire la squadra, farla rifiatare per poi colpire l’avversario senza alcun modalità di contrasto.

Si aggiunga una coppia centrale come Umtiti e Varanne, entrambi il vero centro nevralgico dei blues, l’asse portante dello scheletro di DD, ed ecco che si ha il giusto frullato. L’amalgama che ha permesso ai cugini transalpini di ergersi al centro del mondo. È una seconda volta per i blues. Certo dalla loro hanno un’età media decisamente bassa che, si presuppone, potrà garantire un futuro ad alti livelli per almeno altri due quadrienni. Insomma, le basi ci sono per immaginare un dominio calcistico senza precedenti. La vittoria francese è anche una vittoria di una società multietnica che di fatto contrasta con le problematiche politiche di questi mesi che stanno pervadendo la vecchia e cara Europa. Infine è da sottolineare che la vecchia e cara Europa rimane, obtorto collo, ancora la migliore espressione del calcio mondiale.

L’unica scuola calcistica che potrebbe contrastare lo strapotere europeo è quella sudamericana; peccato che il calcio brasiliano ed argentino, quello più rappresentativo, è in una fase di grave crisi. Il prossimo mondiale, che segnerà per la prima volta, una versione a 48 squadre, sarà, proprio per questa peculiarità, una mini vagante che potrebbe inscenare delle evidenti sorprese. Intanto “godiamoci” la gioia della Francia campione, sperando che i signorotti, i padroni del nostro calcio,  sappiano fare mea culpa per la dissennata politica che ha ridotto il movimento calcistico italiano ai minimi termini, e riportarlo, quindi, sul tetto del mondo. Magari strappandolo agli odiati, sportivamente, galletti Francesi, nella prossima edizione 2022, targata Quatar.

Martina squaderna una segreteria che cancella il partito plurale . E i Popolari?

La composizione della nuova segreteria Martina non permette una decodificazione politica immediata e semplice, a colpo d’occhio. È come un’opera astratta la quale, se pensata e creata con arte – e Martina, nel suo incedere guardingo e riservato, coltiva un’ambizione alta – contempla senz’altro i possibili laudatori del gesto superiore e imprevedibile. Invece a un osservatore di normale gusto e attenzione riserva un che di indecifrabile e misterioso.

Colpisce a dire il vero la cancellazione di qualsiasi testimonianza della componente cattolico democratica. Quella sorgente, un tempo presentata da Castagnetti e Marini alla stregua di un fiume originariamente capace di alimentare l’esistenza del partito unico dei riformisti, appare esaurita. Non se ne ha più traccia. Dunque, prima ancora di tornare a riflettere sulla continuità o il superamento del patto dei fondatori, si compie un passo in direzione di un’altra dimensione operativa.

La scelta di Martina punta evidentemente a esaltare l’aspetto pragmatico della soluzione organizzativa. Prescinde dagli interrogativi nascosti: in qualche modo, sapendone l’insidia, li rimuove. Il nuovo corso prescinde dallo stesso dibattito sul ritorno alle origini del Pd. Vince piuttosto la concentrazione sulla immediatezza dell’oggi, con la consegna del “silete theologi in munere alieno” che un immaginario Alberico Gentile, oscuramente, oppone in anticipo al tentativo di rianimare la disputa sulla natura e la funzione del Pd.

Siamo dinanzi a una predisposizione non dichiarata verso il superamento del partito plurale? Certo, un tale riparo nella neutralità, se di questo in definitiva si tratta, può avere il significato di un annuncio che spezza, oggi o domani, la catena del DNA di questa travagliata figura di unità riformista trionfante sulle passate divisioni della Guerra Fredda. Il problema allora è più serio di quanto un’esile comunicazione, all’apparenza burocratica, possa effettivamente indicare. Non si capisce a questo punto quale contributo possa ancora offrire, nel contesto prefigurato dal segretario Pd, il vecchio e nobile drappello degli ex popolari. Impossibile far finta di maneggiare gli stessi temi, con eguale premura e sicurezza, come se nulla fosse successo e,soprattutto, come se nulla debba accadere.

Non è antipatico far presente che tutto congiura a che una storia, nel bene e nel male, volga definitivamente al suo epilogo.

A Viverone può muovere i primi passi il congresso dell’Associazione dei Comuni

Viverone, località turistica sul lago omonimo, a ridosso di Biella, ospita oggi la XVIII Conferenza Nazionale dei Piccoli Comuni. Non saranno molte le attenzioni ad essa riservate, anche se il titolo in inglese (Small City & Small Land) scelto dai solerti comunicatori ANCI vorrebbe smentire le previsioni negative. Inutili dettagli o fastidiosi ingombri: in realtà, sul piano più schiettamente politico, deve essere colta una dinamica nascosta, non priva d’interesse, un qualcosa cioè che può crescere e fruttificare, potremmo dire un principio di novità.

Infatti, giunti a metà dell’anno, già si avverte l’atmosfera tipicamente pre-congressuale, che accompagnerà l’Anci fino alla elezione, nel 2019, dei nuovi organi dirigenti.
Sì guarda avanti per non appesantire la critica sull’oggi, dato che l’Associazione attraversa una dellle fasi più grigie della sua quasi centenaria esperienza. Decaro, unico presidente nella storia dell’Anci ad essere stato imposto dal governo, ovvero direttamente da Palazzo Chigi nel pieno fulgore del renzismo, si limita ad interpretare il declino con  bizantina furbizia e vocazione imbonitoria.

I grandi sindaci non hanno più molto da proporre, come pure avevano fatto nel passato, dal 1995 ad oggi, in  termini di fascino e attrattività. L’egemonia esercitata per oltre vent’anni, con dubbi risultati, dopo tutti i funambolici discorsi sul federalismo (di cui nessuno parla più) si sta rapidamente esaurendo. La crisi è maturata silenziosamente con Fassino, un presidente incapace di afferrare il vero spirito dell’Anci, benché all’altezza del compito nel camuffare questa incomprensione con l’autorevolezza di una lunga e prestigiosa carriera politica.

La polvere della retorica e di un certo trionfalismo finalmente si è depositata.  Non sono le città a suscitare un moto di simpatia per la Repubblica delle autonomie. Ora è il momento di guardare alla ricchezza delle piccole comunità, agli uomini che ne amministrano le sorti, senza godere della copertura mediatica del sindaco di Milano o di Napoli, alle tante testimonianze di vitalità del tessuto civile e morale della cosiddetta “Italia minore”. Dunque, un sindaco espressione dei piccoli comuni potrebbe rilanciare la sana cultura autonomistica – non la prassi di potere del “big government” metropolitano – strappando l’Anci al brutto ancoraggio nelle rade del corporativismo parastatale.

Ci vuole un sindaco, magari di un borgo di poche migliaia di abitanti, che restituisca un soffio di genuinità al discorso sulle comunità e le autonomie locali. Forse Viverone è proprio l’inizio del congresso Anci, disgraziatamente posizionato, a meno di decisioni imprevedibili, nelle lontananze dell’autunno del 2019.

Il Pd o 2 Pd?

Tutto secondo copione. Sotto il tetto dell’attuale Partito democratico ci sono ormai due partiti con due linguaggi diversi, due prospettive politiche diverse, due approcci diversi e forse anche con due radici culturali diverse. Certo, come sempre capita in politica, le “genuflessioni” a cui eravamo abituati ormai da 4 anni verso Renzi e il Renzismo di larga parte del Pd sono ormai alle nostre spalle. Ne è un esempio emblematico, tra i tanti, l’ex sindaco di Torino Fassino, ultimo segretario della filiera Pci/Pds/ Ds, poi accanito e focoso fan di Renzi e del renzismo al punto da individuarlo come l’ultima speranza della sinistra italiana e poi, puntualmente dopo il 4 marzo, ritenuto un elemento che non può più essere riproposto alla guida di quel partito.

Ma, al di là di questi atteggiamenti largamente noti e collaudati della politica italiana, resta il fatto inconfutabile che dopo il disastro elettorale del 4 marzo – l’ennesimo di una lunga serie – il Pd, di fatto, non esiste più. O meglio, e’ un luogo politico che contiene al suo interno due soggetti politici diversi. L’uno interpretato, al di là dell’atteggiamento con cui lo declina, dall’ex segretario Renzi e l’altro legato sostanzialmente alla riproposizione della vecchia “ditta”, seppur in forma aggiornata, rivista e modernizzata. Sono, appunto, due progetti politici diversi in quanto alternativi.

Due soggetti diversi frutto di una semplice considerazione. Dopo 4 anni di “partito personale” il Pd scopre all’improvviso che il cosiddetto “partito plurale”, frutto della originaria intuizione dei fondatori e che coincise con la gestione di Veltroni, e’ terminato da un pezzo ed è ormai consegnato alla storia. Fuorché si pensi fanciullescamente che uno dei due contendenti abbassi la testa e alzi bandiera bianca in segno di resa ma anche di insignificanza politica e culturale.

Non mi pare, però, che questo possa essere l’epilogo finale della disputa politica e di potere. E la naturale conseguenza di questo risultato non può che essere il ritorno delle tradizionali identità politico e culturali – anche riviste, corrette e modernizzate – che sono e restano disponibili per dar vita ad una coalizione o alleanza alternativa alla destra ma senza confondersi all’interno dello stesso contenitore.

Non c’è da stupirsi, quindi che la recente Assemblea Nazionale del Pd abbia riproposto in tutta la sua ruvidezza la presenza di due partiti diversi che formalmente continuano a definirsi entrambi “democratici” ma che sostanzialmente sono già conflittuali e competitivi. Perché se la sinistra coltiva, legittimamente, la necessità di ricostruire dopo la debacle storica del 4 marzo un campo politico e culturale omogeneo e compatto, e’ altrettanto legittimo che chi ha di fatto “distrutto” la sinistra tradizionale, cioè Renzi, persegua un altro disegno politico e culturale.

E credo che un disegno del genere aiuti addirittura il centro sinistra ad irrobustirsi e a rendersi maggiormente competitivo nei confronti della destra e del movimento antipolitico e anti sistema dei 5 stelle. Ecco perché in un quadro del genere e’ sempre più necessaria, se non indispensabile, una autentica presenza politica cattolici democratica e cattolico popolare. Ovviamente aperta a tutti in virtù della laicità che da sempre caratterizza quest’area culturale ma consapevoli che con il ritorno delle identità – a cominciare, appunto, da quella della. sinistra – il cattolicesimo politico non può più stare alla finestra a contemplare e a commentare ciò che capita nella politica italiana.

La lezione del consiglio costituzionale francese

Non vorrei in alcun modo che possa sfuggire a qualcuno la grandissima recente pronuncia del Consiglio Costituzionale francese. Esso ha dato a tutti noi Europei una formidabile lezione di coerenza con i principi che salvaguardano la vita umana a partire dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino alla base del mondo nuovo generato dalla Rivoluzione Francese.

I supremi Giudici del Grande Paese di Voltaire, Rousseau, Diderot e d’Alembert hanno applicato per la prima volta il Terzo Principio base della Rivoluzione, e cioè la Fraternità che segue gli altri due, Libertà ed Uguaglianza. Il Consiglio Costituzionale lo ha applicato per annullare quella legge in base alla quale era stato condannato a quattro mesi di reclusione un agricoltore, che avendo un terreno accanto alla frontiera francese, vi aveva portato ed accolto alcuni migranti.

Il Presidente del Consiglio Costituzionale, Laurent Fabius, ha spiegato: “Come la libertà e l’uguaglianza, che sono gli altri due termini che compongono il motto della nostra Repubblica, la fraternità dovrà essere rispettata come principio costituzionale dal legislatore e potrà essere invocata nelle giurisdizioni” .

Secondo il Consiglio Costituzionale, il principio di fraternità ha forza giuridica e si esplica “nella libertà di aiutare il prossimo, con uno scopo umanitario, senza tener conto della regolarità del suo soggiorno sul territorio nazionale”.

Una volta di più dobbiamo grande riconoscenza a questo paese che ha inventato lo stato moderno basato sul rispetto della dignità umana. Due aspetti però meritano la nostra attenzione.

In primo luogo se ci dobbiamo rallegrare di questa incredibilmente importante affermazione, non possiamo che rattristarci del fatto che siano stati i giudici – anche se per l’ordinamento della Repubblica di Francia si tratta di giudici “particolari” – a doverci riportare sulla retta via.

Molti politici europei a caccia di voti e facili consensi, sembrano disposti a ignorare quei principi che hanno fatto fare all’umanità un passo avanti definitivo, ma per fortuna, come molti giudici americani contro le assurdità di Trump, i giudici francesi si sono riaffermati garanti di questi essenziali principi.

D’altro canto il senso della fraternità che ci è stato ricordato viene da una dichiarazione di 229 anni fa: abbiamo bisogno di ritornare a un documento così vecchio? Rischiamo di tornare indietro di più di 200 anni?

Sono sicuro che una grande maggioranza silenziosa di italiani la pensa come i giudici francesi, ma è forse il momento di uscire allo scoperto manifestando loro la nostra riconoscenza per averci ricordato i valori fondanti di uno stato di diritto e di una democrazia.

P.S. Chi vuole potrebbe scrivere le seguenti righe al Conseil Constitutionnel di Francia:

“Merci Messieurs les Juges pour avoir réaffirme l’importance du principe de fraternité pour la protection de la dignité humaine dans le cadre de la démocratie et de l’Etat de Droit“

L’indirizzo mail a cui mandarlo è: communication-presse@conseil-constitutionnel.fr

Con un affettuoso saluto.

Mentana, i giovani e il “dilemma” del giornalismo

Domenica scorsa, direttamente sulla sua pagina Facebook, il direttore del Tg La7, Enrico Mentana, ha annunciato la volontà di fondare un nuovo quotidiano on-line, realizzato interamente da giovani, assunti e regolarmente contrattualizzati.

Ciò che più impressiona delle reazioni alla notizia, non è tanto il conteggio (pur significativo) dei commenti e delle condivisioni sui social, quanto il contagio sociale. L’euforia dei giovani “leoni da tastiera”, il sogno collettivo di un ambiente di lavoro protetto e stimolante, in cui crescere sotto l’ala di un protagonista dell’informazione. Una scuola socratica per giornalisti che inviano valanghe di curriculum a Mentana, spingendolo a precisare che la “road map” operativa sarà non prima di settembre.

Con quali risorse si manterrà il nascituro giornale on-line, non è dato sapere. Il direttore Mentana ha garantito: “in caso di passivo, ci penserò io”. In questa sede, ci limitiamo ad alcune brevi riflessioni sullo “stato dell’arte” del giornalismo in Italia.

Il giornalismo nel nostro Paese è oggettivamente indebolito negli introiti (pubblicità, abbonamenti, copie vendute) e nella credibilità. Si sbraccia affannosamente in una spirale di gratuità e compromessi, sopravvivenza e mercato. Un vortice che inizia con l’iscrizione all’albo, miraggio in fondo ad anni di schiavitù continuativa, con casi accertati di finti pagamenti (se non di ragazzi paganti).

In questo contesto, non è facile trovare una “guida” autorevole. In un susseguirsi di nuovi giornali on-line (isole della speranza spesso autogestite), sono pochi i maestri di giornalismo ancora in circolazione con la pazienza e la perseveranza per far crescere una “nuova leva” di giornalisti. Perché poi dovrebbero farlo gratuitamente?

Cosa vuol dire essere giovani, oggi, in Italia? Domanda sospesa su una voragine generazionale e su un esercito di stagisti. Nel mezzo, una generazione “cancellata”, che si convince di essere giovane perché lo è nel costume, spesso purtroppo non lo è più all’anagrafe.

Il sogno del giornalismo è fondamentale in una società aperta e democratica: raccontare quanto accade, nel bene e nel male. Ma intanto il mondo cambia rapidamente e all’esperienza e agli attestati di stima, seguono i bisogni di una sempre più necessaria indipendenza. Così oggi, per molti giovani, il fuoco del giornalismo brucia ma non riscalda: è una passione, un hobby, non una vera professione.

Personalmente scrivo su “Il Domani d’Italia” dal 2011, con riconoscenza verso l’opportunità che questo giornale mi ha dato, nell’imparare un mestiere e nel conoscere qualificati professionisti, di alcuni dei quali sono diventato amico.

Più in generale, nonostante una “mano tesa” come quella proposta da Mentana, il giornalismo si salverà quando qualcuno riuscirà a compiere un ragionamento così elevato da superare il concetto stesso di giornale come strumento quotidiano d’informazione. Non si tratta soltanto di rinnovare il giornalismo, ma di trovare una chiave nuova per attualizzarne i principi nella società contemporanea.

Questa Italia, oltre che di una “Rete Bianca”, ha un grande bisogno di senso critico e di un dibattito culturalmente impegnato. Una volta un giornalista importante mi disse: “Informarsi è il primo passo per migliorare le cose, a cominciare da noi stessi”.

E questo è il messaggio che anche la nostra piccola redazione vuole lanciare.

Vengono mesi decisivi per un nuovo impegno

Pubblichiamo l’articolo apparso sull’edizione odierna di Avvenire a firma del nostro amico Giorgio Merlo 

Il momento di superare frammentazione e personalismi Caro direttore, torno a scrivere perché dopo il voto del 4 marzo, è inutile negarlo, c’ è stato un sussulto di vivacità all’ interno della vasta e variegata area cattolica italiana. Una volontà di impegno politico accompagnata da una disponibilità concreta a mettersi in gioco per la ricerca e la promozione del Bene comune.

Si moltiplicano, infatti, iniziative in tutto il Paese e cresce la consapevolezza che il cattolicesimo politico italiano non può continuare a essere il ‘grande assente’ nel panorama pubblico. Una assenza di classe dirigente, di progettualità politica e, soprattutto, di rappresentanza politica e istituzionale. Un merito particolare di questa rinnovata consapevolezza politica di larghi settori dell’ area cattolica italiana va indubbiamente al cardinal Bassetti, presidente della Cei, che con i suoi interventi ha contribuito in modo determinante a far uscire dal letargo, dalla contemplazione dell’ esistente e dalla sola denuncia e lamentela. Ora, di fronte a questo risveglio politico e culturale e al proliferare di iniziative di gruppi e associazioni che pongono il tema della partecipazione politica al centro del loro impegno, non pare possibile mancare di dare risposta a una domanda sempre più incombente.

E cioè: è positivo che ci sia una forte domanda di una nuova rappresentanza politica, ma per evitare che si consolidi il virus della frammentazione e della dispersione politica e organizzativa, com’è possibile dar vita a uno ‘strumento’ il più possibile unitario? Per uscire dalla metafora, e pur senza evocare l’ immediata formazione di un partito, come si può tradurre questa vivacità culturale e ideale in un progetto politico che non sia di mera testimonianza? Qualche tempo fa ho evocato l’ immagine di una ‘rete bianca’. Faccio un passo avanti. Certo, tutti noi sappiamo che l’ esperienza dei cattolici italiani nelle diverse fasi storiche è sempre stata racchiusa in tre parole: pensiero, azione e organizzazione.

Seguendo rigorosamente questo percorso. E questo per un semplice motivo. Perché senza l’ elaborazione di un pensiero frutto di una specifica e mirata cultura politica il tutto si riduce a un organizzativismo spurio e inconcludente. Ma è vero, al contempo, che senza una rete organizzativa e una presenza politica qualificata la stessa elaborazione culturale rischia di trasformarsi in un esercizio accademico del tutto avulso dai meccanismi che disciplinano i rapporti politici, sociali e istituzionali nel nostro Paese. Quindi, pensiero, azione e organizzazione, cioè l’ elaborazione di un progetto politico culturalmente qualificato che sappia diventare una proposta aperta a tutti.

Senza pregiudiziali, senza steccati e soprattutto senza ridursi a una nicchia clericale o confessionale. Ma la sfida vera resta sempre quella, ovvero dar vita a un soggetto unitario che sappia superare la frammentazione che per troppi anni ha costellato la galassia cattolico democratica, cattolico popolare e cattolico sociale italiana. Un soggetto unitario che non predica e non pratica l’ unità politica dei cattolici che, del resto, non è mai esistita nel nostro Paese. Neanche quando c’ era un grande partito popolare, democratico, interclassista e di ispirazione cattolica come la Democrazia cristiana. Ma con l’ intelligenza politica di saper ‘ricostruire’ oggi una presenza che sappia anche superare e rimuovere definitivamente quegli insopportabili protagonismi personali che hanno contribuito a rallentare e a fermare, nel tempo, la spinta e l’ originalità di una presenza politica popolare e di ispirazione cristiana.

Del resto, se si vuole dar seguito responsabile all’alto invito a una rinnovato presenza, così sentito da molti esponenti dell’ associazionismo cattolico di base e da una fetta consistente della società italiana che non riesce a identificarsi politicamente nelle proposte politiche in campo, ci vuole una risposta intelligente, unitaria e di qualità. Credo, che i prossimi mesi saranno decisivi sotto questo profilo e che la responsabilità di ridare autorevolezza e profondità al cattolicesimo politico italiano sarà di tutti coloro che si rendono conto della necessità di un tale impegno, ma che sino a oggi non sono riusciti a tradurlo in uno sbocco omogeneo e compatto.

La via normale per il monte Bianco

Poche volte nella vita ci si trova in una paradiso naturale come quello della Val Veny.
Una vallata alpina situata in Valle d’Aosta, ai piedi del massiccio del Monte Bianco, a sud del paese di Courmayeur, modellata dai ghiacciai del Miage e della Brenva e dalla Dora di Veny, che si congiunge nei pressi di Dolonne con la Dora di Ferret a formare la Dora Baltea.

Un punto di partenza importante per i molti escursionisti che vogliono percorrere in lungo e in largo il monte Bianco.

Ma, fra tutti i sentieri che si possono percorrere, ve ne è uno che possiede un misticismo particolare.

La via normale italiana per il Bianco.

Non è strano incontrare delle vie, non alpinistiche, che salgono sulle montagne, ma questa è veramente particolare, non tanto per la sua struttura, quanto per coloro che la percorsero per primi.

Dopo la prima storica ascesa al monte Bianco compiuta nel 1786 ad opera di Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard, sul lato francese, sono state individuate molte vie di salita.

La via normale italiana venne aperta nel 1890 da Luigi Graselli, Giovanni Bonin e Achille Ratti, il futuro papa Pio XI.

Questa via, oggi denominata via Ratti, non fu la sola ad essere percorsa dal futuro Papa.

Pio XI fu un grande alpinista: scalò diverse vette delle Alpi e fu, inoltre, il primo – il 31 luglio 1889 – a raggiungere la cima del Monte Rosa dalla parete orientale.

Nel 1899, ebbe, anche, un colloquio con il famoso esploratore Luigi d’Aosta,  Duca degli Abruzzi per partecipare alla spedizione al Polo Nord che il Duca stava organizzando. Ratti non venne preso, si dice, perché un sacerdote, per quanto eccellente alpinista, avrebbe intimidito gli altri compagni di viaggio, rudi uomini di mare e montagna.

La via del Papa, oggi, si svolge normalmente in due giorni.

Il primo viene impegnato nell’avvicinamento e nella salita al rifugio Francesco Gonella; il secondo per la salita finale e per il ritorno.

Ma non è obbligatorio seguire l’intero percorso.

Credo che delle tappe non previste possano essere necessarie per riuscire ad apprezzare la valle nel suo insieme.

Partendo da Courmayeur e iniziando a inerpicarsi per la Val Veny, la prima tappa dovrebbe essere il santuario di Notre-Dame de la Guérison, che si trova sullo sfondo del maestoso ghiacciaio della Brenva, in un luogo che fin dal Seicento è stato teatro di numerose guarigioni miracolose. Già in epoca antica infatti, nella zona era venerata una statua dedicata alla Vierge du Berrier, dapprima esposta in una semplice nicchia, poi trasferita all’interno di un vicino oratorio, costruito sulla roccia.

I moltissimi ex voto presenti, riguardano maggiormente alpinisti che hanno scampato il pericolo durante i tentativi di risalita del Bianco o l’attraversamento dei tanti valichi.

Da qui ci si può spostare verso il lago Combal (1900 m), fermandosi per la notte al rifugio Elisabetta.

Per i più avvezzi alla montagna non sarà troppo complicato, arrivati a questo punto, raggiungere il rifugio Francesco Gonella (3071 m) collocato su uno sperone roccioso sopra il ghiacciaio del Dôme.

Dal rifugio Gonella, è possibile risalire il ghiacciaio del Dôme in tutta la sua estensione arrivando al colle di Bionassay. E, una volta percorsa la cresta di Bionassay e aggirato il Dôme du Goûter, si incrocia la via normale francese. Su cui prosegue la salita.

Nasce l’ostello senza barriere gestito da disabili

Nasce a Verona la nuova struttura turistica “StraVagante”, realizzata e gestita dalla cooperativa sociale l’Officina dell’Aias. L’ostello, che sorge vicino alla stazione, è stato realizzato con il finanziamento a tasso zero del fondo di rotazione regionale previsto per strutture e servizi innovativi sociali e sociosanitari.   Il prestito regionale venticinquennale senza interessi, garantisce 1.540.000 dei 1.857.510 euro di spesa complessiva del progetto.

“L’idea di un ostello senza barriere e gestito da persone con disabilità – ha detto l’assessore regionale alle politiche sociali, Manuela Lanzarin  – rappresenta un importante servizio di accoglienza turistica e sociale per una città come Verona, che è una delle prime mete dei flussi turistici in Veneto. Ma soprattutto è una testimonianza di vera integrazione e di un modo diverso di guardare alle persone con problemi fisici o psichici: saranno loro i veri protagonisti dell’accoglienza, con la gestione diretta di  camere, prenotazione, reception, bar e ristorante. E’ per questo alto valore sociale, che promuove i talenti e le potenzialità delle persone superando ogni logica assistenzialistica e offre vere opportunità occupazionali, che il progetto dell’ostello  sociale è stato selezionato tra le iniziative  venete più innovative, meritevoli del sostegno pubblico”.

“Dopo dieci anni di lavoro e impegno, L’Officina dell’Aias può festeggiare questo straordinario traguardo, un sogno che si è concretizzato e che merita di essere festeggiato da tutta la città – ha sottolineato l’assessore comunale ai Servizi sociali, Stefano Bertacco – Il Comune non può che sposare questa nuova filosofia di servizio sociale, in cui la vocazione turistica della nostra città si apre alla cooperazione e diventa occasione di integrazione per ragazzi disabili. Sono pronto a scommettere sul successo di questa iniziativa, un luogo in cui viaggiatori da tutto il mondo si sentiranno come a casa, grazie anche al calore umano di persone davvero speciali”.

Una Rete Bianca per il futuro del cattolicesimo politico

Le elezioni del 4 marzo hanno rappresentato un vero tsunami nel panorama politico nazionale. È inutile negarlo. Come sarebbe del tutto inutile continuare a pensare che gli equilibri politici del dopo 4 marzo ripropongono la geografia politica precedente. Occorre prenderne atto per evitare di disegnare scenari del tutto virtuali.

Innanzitutto è tramontata la cosiddetta “mescolanza”, ovvero quella pluralità che caratterizzava l’esperienza di alcuni partiti. In particolare del Pd. Nato come partito plurale con la segreteria Veltoni nell’ormai lontano 2007 e che contava la presenza al suo interno delle migliori culture riformiste e costituzionali, progressivamente ha smarrito quella cifra per trasformarsi con Renzi definitivamente in un “partito personale”, il cosiddetto Pdr. Una mutazione genetica di quel partito che, accompagnato dal profondo cambiamento della sua line politica ne ha, di fatto, stravolto i suoi connotati tradizionali ed originari. Ed è pertanto del tutto legittimo che oggi quel partito abbia come ragione sociale quasi esclusiva la ricostruzione della sinistra.

Certo, una di sinistra moderna, post ideologica, riformista ma comunque una sinistra tout court. Una esigenza che si imporne anche e soprattutto dopo le continue e ripetute sconfitte politiche ed elettorali che il Pd ha subito dal 2015 in poi. Con tanti saluti, di conseguenza, al partito plurale e al modello veltroniano. Stessa sorte è toccata, per motivi diversi ma complementari, all’altro partito plurale che ha dominato, comunque sia, la politica italiana per 25 anni, dall’indomani della caduta della prima repubblica sino alle elezioni politiche del 2018, cioè Forza Italia di Silvio Berlusconi. Un partito dichiaratamente personale e di proprietà esclusiva del suo leader ma un partito che contava comunque al suo interno varie culture e che è stato per molto tempo il punto di riferimento di vasti settori che si erano riconosciuti nei partiti democratici della prima repubblica. Appunto, sino al voto del 4 marzo. Un voto che, d’un tratto, ha cancellato il vecchio centro destra, l’antico centro sinistra. Cioè quel bipolarismo che ha caratterizzato il sistema politico italiano per quasi 25 anni.

In secondo luogo è tramontata la vecchia definizione di destra e di sinistra. Non perché siano scomparse la destra e la sinistra. Ma, molto più semplicemente, i settori che storicamente si riconoscevano nella sinistra si sono sentiti più protetti da altri partiti, nello specifico dalla Lega di Salvini e dal movimento “oltre” la destra, la sinistra e il centro, cioè il movimento 5 stelle. Ovvero, le periferie, il ceto medio impoverito, la stragrande maggioranza delle giovani generazioni, quel che rimane del mondo operaio, i nuovi poveri, i precari, gli ultimi. Confluiti tutti, o in gran parte, verso i lidi pentaleghisti. E, quel che politicamente va evidenziato, non è del tutto escluso che possa decollare nel futuro un nuovo e del tutto inedito bipolarismo tra una destra a trazione leghista e un movimento populista e demagogico del tutto avulso dalle tradizionali categorie politiche. Con un ex centro sinistra del tutto marginale e periferico rispetto agli equilibri politici nazionali.

Ecco, all’interno di questo quadro, c’è un grande assente. Ed quello che possiamo tranquillamente definire come il cattolicesimo politico italiano. Una tradizione che è’ stata decisiva in tutti i tornanti cruciali della democrazia italiana. Decisivo per la qualità della sua classe dirigente, per le scelte politiche compiute, per l’efficacia del suo progetto politico. Dalla Costituente al centrismo degasperiano, dal centro sinistra alla solidarietà nazionale, dalla difesa delle istituzioni allo stesso Ulivo. Ma, al di là del del richiamo storico, dov’è oggi il cattolicesimo politico italiano?

Il sasso nello stagno lo ha lanciato recentemente, con un intervento singolare e coraggioso, addirittura il Presidente della Cei cardinal Gualtiero Bassetti di fronte all’assemblea dei vescovi italiani. Ricordando Sturzo, il magistero di De Gasperi, l’attualità del popolarismo di matrice sturziana, il centenario dell’appello ai “liberi e ai forti”. Ma, ed è quel che più conta, invitando espressamente i cattolici italiani all’impegno politico diretto, responsabile ed immediato. Un appello importante che ha evidenziato, con forza e coraggio appunto, l’attuale irrilevanza dei cattolici in politica e la sostanziale emarginazione di questa cultura. Un elemento, questo, che si incrocia con la trasformazione dei partiti in partiti personali dove l’apporto delle varie culture e’ del tutto ininfluente