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L’isola che non c’è

Anche quest’anno i sardi che lavorano in Continente, assieme ai vacanzieri diretti sull’isola, devono fare i conti con le compagnie aeree e navali. Prezzi esorbitanti. Non pochi preferiscono ripiegare in Puglia, in Calabria, persino in Egitto. Molti altri rimangono a casa. La Sardegna non ce la fa.

Gli amministratori pubblici non tentano di organizzare un tavolo di confronto con le compagnie navali e aeree, per calmierare i costi dei viaggi. Se parliamo dei servizi sul territorio, è meglio che stendiamo un velo pietoso. Da un lato, le tasse causano l’aumento dei prezzi di cibi e servizi. Un gelato, tra l’altro di discutibile fattura, costa in media due euro “a pallina”. Roba che non si usa più nemmeno nelle più infime località turistiche il gelato “a pallina”. Dall’altro lato, gli esercizi commerciali, dovendo contare su un flusso turistico che dura circa sei mesi, cercano di “mungere” quanto possono in tutto il periodo possibile. La maggior parte dei lavoratori sull’isola è impiegato negli esercizi turistici per un periodo limitato: in media da Pasqua a settembre. Dopo di che, vanno in disoccupazione. Possibile che non si riesca a strutturare una filiera di servizi che duri tutto l’anno? La Sardegna non è soltanto mare e cibo, come fa comodo pensare.

Non poche strutture archeologiche, ben più importanti di Pompei, sono lasciate a se stesse, allo stato brado. Quante Pompei in Sardegna possono essere valorizzate attraverso tour di autobus turistici tutto l’anno? Quante strutture a tema possono essere erette attorno a nuraghi et similia? Il fascino della cultura archeologica sarda è incommensurabile. Tuttavia, pare che il governo locale non sia particolarmente sensibile a questo. Lo sono invece alcuni sardi che, autonomamente, cercano di valorizzare la propria terra come possono, con passione e coraggio. Sono molto pochi, purtroppo. Pensiamo alle scoperte archeologiche fatte da Leonardo Melis, da semplice cittadino, riaprendo un dibattito quasi spento su Shardana e popoli del mare. Pensiamo alle strutture megalitiche presenti sull’isola e lasciate a se stesse. Pensiamo al Monte d’Accoddi, attribuito alla Cultura di Abealzu-Filigosa, della Sardegna prenuragica: una vera e propria piramide “sumera” nei pressi di Sassari; attorno ad essa potrebbe sorgere un parco a tema, fatto da bar, ristoranti, sale multimediali per turisti e scolaresche. E invece niente. Un altro privato cittadino, Manuel Dettori, ha intitolato il suo locale gastronomico “Rima Bar Bistrot” dedicandolo ai sumeri, con tanto di simbolo sacro del dio Anu, rimarcando l’origine ancestrale del popolo sardo. Pensiamo allo storico Hotel San Pantaleo, eretto nella medesima località, gemma incastonata in una gemma, a zero impatto ambientale, tra le montagne ocra, rosse al tramonto, e il mare turchese.

Non bastano le idee, l’eroismo, il coraggio, l’intraprendenza dei singoli. Serve che l’amministrazione dell’isola riconosca il suo statuto di “speciale” anche quando bisogna creare progetti sul territorio, uscendo fuori dal campanilismo e dalla logica sussidiaria. In caso contrario, la Sardegna rimarrà sempre, suo malgrado, un’isola che non vuole esserci, mancando di riconoscere il suo valore nelle nuove logiche del mercato globale e del turismo internazionale.

Da Genova giunge una lezione di pietosa compostezza

Da Genova giunge una lezione di pietosa compostezza. Il silenzio è divenuto  parte di quell’innalzamento verso Dio di ciò che il cardinal Bagnasco ha definito “ un’onda di preghiera”. Eppure, sembrava che tutto fosse, invece,  sovrastato solo da scambi di accuse reciproche, da una polemica politica senza esclusione di colpi. Avviate già prima che la polvere del crollo del ponte Morandi finisse di depositarsi sui corpi martoriati di oltre 40 persone.

Questa gente del Nord,  discreta, operosa, colta, per alcune vicende ricorda l’atavica capacità di sopportazione dei napoletani, tante sono le sciagure naturali che la colpiscono periodicamente nella loro città e nelle sue  immediate vicinanze.

Da questa gente viene un insegnamento  di cui è necessario fare tesoro, davvero,  al di fuori di ogni retorica. Crediamo nella stessa certezza del cardinale Bagnasco: Genova si rialzerà e il suo popolo potrà “ costruire ponti nuovi e camminare insieme”.

I  genovesi, come i napoletani, come tutti gli italiani, sanno però che il fondamento delle loro questioni irrisolte affonda in una lunga  storia, non sempre fatta di cose chiare e raccontabili. Le responsabilità sono spesso obnubilate. Finisce per mancare ogni volta una porzione di autocritica. Limitata l’analisi oggettiva dei fatti e delle vicende che  perpetuano, lasciano pesanti scie di lacrime e di sangue.

Come nel resto d’Italia, riconosciamolo tutti noi, le questioni irrisolte affondano  pure nel perverso rapporto istauratosi tra l’inanità di una classe dirigente debole e le pretese individualistiche di troppi. Il degrado ambientale, così come quello sociale ed economico, dunque, ha tante madri e tanti padri. A partire da noi, singoli cittadini.

Anche dall’assenza di molte delle bare compassionevolmente composte è giunto un messaggio  che obbliga a meditare. Si tratta di quelle i cui parenti hanno voluto far ricevere l’ultimo omaggio in un contesto più familiare e di vicinanza, anche per esprimere così uno sdegno, una rabbia repressa,  la cui forza non ha bisogno di grida ed improperi. Forse, per questo è più possente e ammonitrice.

Resta un ponte lacerato.

Tra i suoi grigi detriti , ancora si agita un gruppo di donne ed uomini che dimostrano come questo Paese non si debba considerare ancora perduto del tutto.

Vigili del fuoco, forze dell’ordine, uomini della Protezione civile e della Croce Rossa, giorno e notte sulle ripe del fiume Polcevera per un senso di solidarietà e di dovere straordinari. Pur sapendo, come accaduto dal Belice in poi, che il grazie per loro diventerà sempre più rarefatto e finirà per restare una flebile eco.

Incalza , intanto,  la doverosa necessità richiamata dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di “ un accertamento rigoroso delle responsabilità”,  assieme alla necessità che il Paese sia unito perché ciò “ rende più forte l’accertamento della verità che va perseguita con rigore”.

Da sempre sono convinto che questo accertamento debba essere avviato sulla base della  più ampia conoscenza possibile.

L’esperienza di tante vicende del passato ci dice che,  dopo il primo furore e l’espressione delle buone intenzione,  molto si perde  per strada: compromessi, costrizione dell’opportunità, deviazioni, depistaggi.  Dovremo, quindi, armarci di santa pazienza sperando in una sollecita definizione di colpe ed omissioni.

Intanto, anche alla luce delle polemiche delle ultime ore, appare chiaro che,  con il ponte Morandi, è caduto molto altro. E’ su questo che dobbiamo cominciare a ragionare. Al di là del fatto che le responsabilità “ ultime” di un tale disastro finiranno per avere precisi nomi e cognomi. Dobbiamo ragionarci perché esiste la possibilità concreta per provare, almeno, ad ottenere dei cambiamenti, delle rettifiche, delle modifiche.

Non è crollata, infatti, un’Italia indistinta ed imprecisata come molti commentatori vogliono raccontarci. Metodo comodo per scrivere aulici editoriali e tenersi ben distanti da quanto si propone come scomodo da indagare.

Tra i resti precipitati dei 210 metri della luce principale del ponte, dobbiamo raccogliere, infatti, quelli di una cultura politica ed economica insinuatasi  fino nelle nostra midolla. Accreditata da slogan miracolistici, non veritieri, perché spesso basati su pure ipotesi ideologiche. Oggi ne stiamo pagando grosse conseguenze.

Mi riferisco a quelle teorie di pensiero secondo cui “ privato è bello” e risolutore di tutti i mali. Su quanto  è stato costruito un vero e proprio altare del “ liberismo” più sfrenato abbiamo alienato parecchio del patrimonio nazionale. Senza per questo aver  ripianato il debito pubblico ed evitato di assistere a gravi incidenti per quanto riguarda, nel campo dei trasporti, la viabilità stradale e ferroviaria. Neppure possiamo dire di  ritrovarci con servizi più efficienti e meno costosi . Anche altre aree vitali, cui è stata applicata la pratica delle privatizzazioni, possono portarci alle stesse riflessioni.

La logica del profitto a favore di pochi interessi,  visto che le privatizzazioni non sempre sono state accompagnate da autentiche liberalizzazioni, è ovviamente preminente rispetto a tutto il resto. Ciò non mette il Paese nelle condizioni di svilupparsi come sarebbe necessario in materia di infrastrutture,  reti e servizi.

Questo vale proprio per quei settori  il cui vero profitto è dato dalle prestazioni offerte ai cittadini ed  alle imprese che assicurano la tenuta dell’economia italiana. Eppure, c’è chi ancora parla di altre svendite destinate ad  interessare quote di Poste, Enel, Finmeccanica, Eni.

Beppe Grillo, che guarda alla polemica momentanea con il mondo dell’informazione, non ha neppure tutti i torti, si avventura in una proposta di privatizzazione della Rai che sarebbe, per me, ferale. Forse la verve polemica non lo aiuta a mantenersi con le idee chiare e distinte.

Evidentemente, allora,  è giunto il momento di intraprendere un’altra strada.  Una in grado di farci sfuggire alla logica del liberismo senza regole. Così come a  quella che, all’opposto, ci vorrebbe far tornare al vecchio statalismo il cui progressivo degrado ha creato le basi culturali e politiche per giustificare la situazione in cui ci troviamo oggi.

La via non può che essere quella di una nuova dimensione comunitaria della gestione del patrimonio pubblico degli italiani.

Molti economisti di estrazione cattolica democratica, è forse un caso?, da tempo insistono sulla necessità che si dia vita alla cosiddetta “ economia Civile” in grado di consentire la creazione di un ambito, più ambiti, anche d’impresa, in cui il pubblico, i privati e la società civile organizzata possano trovare, insieme, occasioni di cooperazione fattuale.

A Genova, è caduta poi la pretesa di quanto non vogliono assumersi la responsabilità del proprio passato.

Matteo Salvini ha giustamente addebitato molte omissioni ai governanti di ieri,  anche per quanto riguarda il ponte del capoluogo ligure. Bene.

The Economist di due giorni orsono  ricorda che, già nel 1999, uno studio ha rilevato come circa il 30% dei ponti stradali in Europa presentava un qualche tipo di difetto, in particolare,  la corrosione del loro rinforzo in acciaio o dei cavi precompressi. Può essere il caso di Genova?

Allora è il caso che il vice presidente Salvini , puntando il dito sul passato,  ricordi come dal 1999, anno dello studio sopra citato, si sono succeduti al ministero dei trasporti e delle infrastrutture suoi alleati: Pietro Lunardi 2001/2006, Altero Matteoli 2008/2011, Maurizio Lupi 2013/2015 ( anche se Lupi aveva traslocato con una maggioranza che La lega contrastava). Non sono pochi, mi pare, 10 anni di responsabilità di gestione su 19.

Altro crollo da segnalare è quello della visione ascientifica che sembra si sia impadronita di molti italiani. Dalle credenze sugli Ufo, ai no vax. Basata su sentimenti esclusivamente di rabbia, dietrologa, in base alle quali dappertutto ci sono complotti, corruzione, colpevoli da esporre al pubblico ludibrio. Non intendo proprio dire che l’Italia non abbia bisogno di pulizia: no, ne serve  tanta di pulizia.

E’ necessario, però,  che nasca una vera consapevolezza laica che i problemi si affrontano e si risolvono sulla base di analisi, di lunghi  studi, di pareri tecnici validi e non dando corso a reazioni istintive. Quando queste sono, poi, espresse da una larga parte della popolazioni è necessario rifletterci e pensarci adeguatamente. Sapendo, però, che il tutto deve essere portato ad una  sintesi e reso operativo da una decisione politica,non affidabile, certo, solo a consultazioni digitali tra chi non ha competenze adeguate.

Finisco. Un’altra brutta fine, ammettiamolo finalmente dopo anni e anni di battaglie politiche condotte con il cuore, da ambo le parti,  è quella che riguarda la storia della destra in grado di rappresentare nei fatti, solo sulla base di una dichiarazione stentorea, un qualcosa di diverso dalla sinistra. E viceversa. Lo ripeto: viceversa.

Eppure, destra e sinistra sono cose diverse.  La loro distinzione esiste ed esisterà sempre.

Prima che indicare la collocazione dello scranno su cui si siede in Parlamento, esse rappresentano  due diversi modi di pensare. Ciascuna propone una opposta scala di priorità e deriva da un differente modo di concepire la vita e la gestione della cosa pubblica.

La verità è che il nostro sistema elettorale ha reso possibile che apparenti scontri,  confronti, dialettiche, riescano a sostituire un fatto sostanziale: siamo di fronte a due realtà etero guidate da ben più forti interessi. Purtroppo, questi interessi sono asociali, amorali e della politica italiana, come dei principali bisogni del popolo italiano, loro non tengono molto in cale.

Di fronte a tutto ciò è necessario cambiare.  Dopo il 4 marzo, siamo stati proiettati in una dimensione nuova. Abbiamo a che fare anche con nuovi interlocutori. Ci dobbiamo dare da fare.

Forse se lo aspettano anche gli innocenti inopinatamente morti a Genova. Ci ricordano: Nil difficile volenti.

Politica, le sigle e simboli contano ancora

In politica le sigle e i simboli contano ancora. Lo dico perché nell’attuale stagione politica italiana l’alternativa alla maggioranza pentaleghista difficilmente la possono costruire quei partiti e quelle sigle che sono state delegittimati dal voto elettorale prima e dalla considerazione comune dei cittadini poi. Non è una affermazione fuori luogo quella secondo la quale in politica si è credibili anche quando le rispettive sigle sono ancora credibili. Il Partito democratico da un lato e Forza Italia dall’altro difficilmente riusciranno a guidare nel futuro una alternativa politica.

E il motivo di fondo è riconducibile alla perdita di credibilità politica e di autorevolezza culturale di questi soggetti politici in questi ultimi anni. Sul fronte dell’ex centro sinistra il Pd attuale, soprattutto dopo la lunga stagione “personale” di Renzi alla guida del partito, non è più il punto di riferimento esclusivo di questo campo politico. La rottura con larghi settori dell’elettorato tradizionale della sinistra e del centro sinistra ha isolato il Pd a livello nazionale. Sia nei confronti del suo elettorato e anche dei suoi potenziali alleati politici, culturali e sociali. Una situazione che sarà difficile rimontare se non a lunga scadenza.

Stesso discorso, se non peggio, tocca a Forza Italia. Dopo il tracollo elettorale e politico di questi ultimi anni, ormai l’egemonia politica, culturale e programmatica di quel campo la esercita in modo quasi esclusivo la Lega salviniana. Per Forza Italia, salvo miracoli pur sempre possibili, non resta che quello di giocare un ruolo puramente ornamentale se non periferico.

Ecco perché una nuova fase politica non può ripartire da sigle e simboli che, piaccia o non piaccia, rischiano di essere sorpassati dalla storia e dalla irruzione di nuovi soggetti politici. Del resto, anche con le migliori intenzioni, le sigle e i simboli che non riescono più ad intercettare le istanze, le domande e i cambiamenti che attraversano la società non riusciranno ad essere l’avanguardia di nuovi processi politici e costituenti.

Siamo in una fase politica, appunto, costituente. Soprattutto a livello politico. Nuovi soggetti si imporranno. Ecco perché il cattolicesimo politico adesso deve “scendere in campo”. Con modalità organizzative nuove rispetto al passato ma con quel coraggio, quella determinazione e quella coerenza politica e culturale che hanno sempre contraddistinto la miglior tradizione cattolico democratica, cattolico popolare e cattolico sociale del nostro paese.

Perché, proprio ora, dobbiamo riscoprire De Gasperi

Sull’onda del sovranismo, è bene ricordare la lezione di europeismo e il mito democratico di Alcide De Gasperi. La riflessione di Lucio D’Ubaldo, già senatore e autore del saggio “De Gasperi l’antipopulista” (Gaffi Editore, 2018)

L’orizzonte elettorale si avvicina. Bisogna preparare bene il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Se passa la linea del sovranismo, la sconfitta peserà sulle spalle dei partiti o movimenti democratici. Una strategia, a riguardo, ancora si fatica a intravedere.

In questo scorcio avanzato di XXI secolo l’Europa asseconda un impulso ancestrale e moderno, che unisce e divide, simultaneamente. Al riparo della demagogia che incombe minacciosa, esiste (o resiste) una pubblica opinione europeista. E ciò costituisce, malgrado il pessimismo dilagante, un fattore di unità e di speranza. Invece, a generare resistenze e ostracismi è la percezione dell’Europa a una dimensione, tutta vincoli e prescrizioni, abbiosciata sotto il castigo della sua burocrazia. Di qui l’assillo dovuto allo strapotere di Bruxelles, assillo che rivela il timore di vivere un progetto andato a male. La delusione alimenta l’antieuropeismo.

Certo, non solo la delusione. Cresce anche la paura che l’immigrazione senza controllo possa innescare il declino del Vecchio Continente. Tanto grande il fenomeno, tanto convulsa la reazione. Eppure il Cardinale Bassetti, Presidente della Conferenza episcopale italiana, ha messo in guardia dal pericolo di strumentalizzazioni. “Guai a chi usa la questione migratoria – ha detto di recente – per distruggere l’Europa politica di De Gasperi”. Ecco il nodo: non un generico appello o una vaga recriminazione, con l’europeismo a far da sfondo, ma un richiamo vigoroso all’opera di De Gasperi, al suo impegno per l’edificazione dell’edificio comunitario, al suo contributo da statista europeo.

Chiamare in causa il leader trentino non può concretizzarsi in una sorta di quietismo della citazione; cioè non autorizza, questo invito del Cardinale, a sorvolare sulla lezione indelebile dell’uomo politico italiano che più ha determinato, nell’immediato dopoguerra e nei primi anni Cinquanta, il percorso della nuova Europa. Insieme ai grandi del suo tempo, egli ha colto nell’ancoraggio al sentire sovranazionale il possibile attracco di un progetto visionario. Se c’è un connotato, grazie al quale identificare una limpida prospettiva europeista, dunque un connotato propriamente politico, questo si sostanzia nella fiducia in un futuro di libertà e democrazia, agli antipodi pertanto della xenofobia e del populismo. L’Europa di De Gasperi è un mito democratico, l’unico capace di muovere le coscienze degli uomini oltre le angustie della guerra fredda, che le giovani generazioni devono saper tradurre, ieri come oggi, nella scommessa di un mondo migliore.

È stato scritto che l’Europa è il dono che lascia al Novecento l’azione politica dei democratici cristiani. Tuttavia De Gasperi lo immaginava più ampio l’impegno a favore di un’Europa che amava definire “nostra Patria”: ovvero “nostra”, in tutto e per tutto, in quanto patrimonio di storia condivisa. Tre culture politiche, a suo dire, concorrevano alla promozione del disegno europeistico. Alla loro base operavano i valori del cristianesimo, della visione liberale e del socialismo democratico: insieme avevano la responsabilità di servire la medesima causa. Il loro contrasto valeva nella fisiologia della competizione politica, non invece nella missione riguardante il destino dei popoli europei. “Dunque, nessuna delle tendenze che prevalgono nell’una o l’altra zona della nostra civiltà – affermava puntualmente De Gasperi, a Parigi, nella Conferenza Parlamentare Europea il 21 aprile 1954 – può pretendere di trasformarsi da sola in idea dominante ed unica dell’architettura e della vitalità della nuova Europa, ma queste tre tendenze opposte debbono insieme contribuire a creare questa idea e ad alimentare il libero e progressivo sviluppo”.

Una coalizione per l’Europa può e deve avere, in conclusione, il sostegno di una coerente rilettura della politica degasperiana. Scriveva Guglielmo Ferrero, storico a lungo trascurato per una “fatwa” di Benedetto Croce, che gli eroi non risorgono. Non per questo, bisogna aggiungere, le idee e le imprese che ne hanno segnato la vicenda terrena subiscono necessariamente il contraccolpo di una perdita di memoria collettiva. Mettere De Gasperi al centro della proposta politica costituisce lo spartiacque tra democratici e sovranisti, l’argine che distingue i popolari dai populisti. Del resto l’area dell’astensionismo, giunta ormai a dilatarsi oltre misura nelle elezioni degli ultimi vent’anni, non può essere abbandonata a se stessa. Molti elettori finora reticenti chiedono a una “politica ricostruttiva” il cenno di un battito d’ali, per tornare a spendere con qualche ottimismo il talento rappresentato dal diritto di voto.

Il futuro positivo dei cattolici popolari

È passato un secolo. Ma i fondamenti basilari del partito popolare prima, della DC poi e di un partito di ispirazione cristiana oggi, restano sempre attuali: la libertà della persona, il rispetto della famiglia come cellula sociale e culla della vita, la dignità del lavoro e la libertà dell’impresa che produce la ricchezza, il ricambio generazionale col lavoro alle giovani generazioni. Tutto ciò senza scosse e obblighi di dittatura che privano delle libertà fondamentali.

La storia della DC e del Partito Popolare è la storia vera di Don Luigi Sturzo, di Don Giuseppe Dossetti, di Alcide De Gasperi, di Aldo Moro e della parte maggioritaria del popolo italiano che ne seguì la fede.
Poi ci sono altre storie. Poiché l’uomo è, per la sua fragilità, incline al peccato e alla menzogna, la storia e le storie di altre persone che si sono identificate nel partito di ispirazione cristiana più rappresentativo del dopo guerra, hanno conosciuto luci ed ombre, che si sono alternate durante i lunghi anni della sua azione politica.

C’è il periodo dell’immediato dopo guerra fino al 1978, c’è un secondo periodo che segui’ al delitto Moro, e c’è poi l’ultimo periodo, dal 1994 a tutt’oggi , il più travagliato, il più anonimo, il più lontano dalle radici popolari e democratico cristiane, dove le luci sono scomparse, le ombre la fanno da padrone e dove il tornaconto, le ripicche, la pretesa di apparentarsi e di accasarsi con altri padroni di casa, e la mancanza di personalità di rilievo hanno marcato l’oblio di un partito e hanno alimentato la sofferenza di coloro invece che hanno continuato a coltivare la speranza di una luce, che sembra essersi ora fatta strada, ma non in grado al momento di reagire sul campo, e tuttavia sempre vigile e operosa nei rispettivi impegni di lavoro e di socialità.

Sono le sentinelle del mattino che hanno vegliato durante tutta la notte e che attendono che sorga l’aurora. Immagine e visione biblica del profeta Isaia, ripresa da Giovanni Paolo il 19 agosto 2000, in occasione della XV giornata mondiale della gioventù, veglia di preghiera a Tor Vergata.

La speranza può farsi certezza solo deponendo le armi del tornaconto personale, del disimpegno demandato ad altri, e prendendo in mano lo scudo delle nostre coscienze e delle nostre aspirazioni, per tornare ad essere, identificandovisi, quelle certezze e quelle speranze che erano alla radice della Nostra Vera Storia.

In alternativa, cadendo prede di gruppi di potere che non appartengono alla nostra comune visione democratico cristiana, resteranno solo le incertezze, le paure e le amarezze di non essere stati capaci di affrontare il futuro, con lo stesso coraggio e la stessa determinazione di chi seppe sacrificarsi per la gente e le loro legittime aspirazioni di libertà, di benessere e di felicità, nella comune ricerca della giustizia e della pace.

Ho fatto un sogno

Al Quirinale è ritornato per un giorno RE GIORGIO. Ha ben presente il ricordo di un dì nel quale chiamò al telefono il Presidente del Consiglio e lo convocò al Quirinale.

All’onorevole Berlusconi, capo del governo, più o meno così disse:

– caro presidente si dimetta e con Lei il suo governo.

– Perché, chiede quello?

– Non mi faccia preoccupare per Lei e per la crisi incombente sul Paese. L’Italia ha bisogno di un salvatore, replica subito Re Giorgio.

Memore di questo precedente, Re Giorgio, nuovamente per un giorno assiso al vertice, fa telefonare a Conte, poco noto Presidente del Consiglio dei Ministri.

Per telefono senza neppure disturbarsi di riceverlo gli consiglia di dare le dimissioni.

– Perché? Gli risponde quello.

– Lo chieda ai suoi due vice, replica secco Re Giorgio.

– Che rischi corro se non lo faccio?

– Ci vuole prudenza, è l’ imperscrutabile risposta che così lo liquida.

Egli, avendo caro il curriculum, va in Parlamento seduta stante e senza nulla dire ai vice, annuncia le sue avvenute irrevocabili dimissioni che trascinano anche i vice.

Re Giorgio non perde tempo e ritorna lo scettro al Presidente in carica.

Questi chiama Cottarelli: lo scongiura di evitare il peggio, il default del Paese, di mandare subito a casa tutto il circo insediato nei Ministeri e negli enti già completamente lottizzati. Lo prega di governare in minoranza per qualche mese sino alle più vicine elezioni.

Mi risveglio, dispiaciuto sia stato solo un sogno.

Ma io ho un altro sogno: vorrei che gli italiani rinsaviscano, puniscano i cialtroni e non riconsegnino il Paese neppure al duo Renzi-Boschi e a un PD in coma irreversibile.

Vorrei vedere al Governo Carlo Cottarelli e Mario Draghi che saprebbero certo cosa fare per tentare di uscire dal baratro che altrimenti ci aspetta.

Compostezza nella tragedia

Un ponte che crolla a Ferragosto può indurre a pensare a una tragica metafora sullo stato del nostro Paese. Le disgrazie possono essere esorcizzate, anche attraverso le immagini di un capo del governo vestito in abiti da Protezione civile, ma resta il sapore di un qualcosa che compendia illusioni, arroganze e miserie di questa guerra italiana dei “Trent’anni”, senza capo né coda, con l’epicentro della crisi identificabile oggi nella devastazione del principio d’ordine legato alla formazione e alla sussistenza di una classe dirigente al servizio della nazione.

In queste ore, prima di tutto, lo spirito di solidarietà avrebbe dovuto campeggiare in ogni atto o discorso o presa di posizione. Molta responsabilità e nessuna demagogia: invece non è stato così. Abbiamo assistito al trionfo di un messaggio di odio preterintenzionale, diffuso e pervasivo, per il quale le responsabilità vanno sempre trovate nel sottofondo di corruzione dei (vecchi) pubblici poteri.

Genova, con il suo carico di lutti familiari e macerie di calcestruzzo, subisce un danno di proporzioni straordinarie. Ma si tratta, in realtà, di un danno inferto all’economia nazionale nel suo complesso. Bisogna intervenire in fretta, con provvedimenti coraggiosi sulla viabilità e i trasporti in un punto nevralgico del sistema Paese. Aver bloccato opere essenziali – come la famosa Gronda, osteggiata finora da Beppe Grillo, decisiva opera autostradale destinata ad alleviare strutturalmente il sovraccarico di traffico sul ponte Morandi – è la maggiore punizione, quantunque indesiderata, che potesse ricevere la città, da tempo in bilico tra declino e speranze di ripresa. Ma non è, appunto, una punizione solo per Genova.

Ancora una volta l’emergenza è stata affrontata bene. La macchina dei soccorsi ha funzionato, come si sono affrettati a dire ministri e sottosegretari. Ne possiamo ricavare, a onore di tutti gli operatori coinvolti, un sincero motivo di orgoglio. Eppure bisogna guardare avanti. Certamente l’Europa capirà, senza che Salvini alzi la voce; ma un progetto va messo in campo per non dare la sensazione, anzitutto a noi stessi, che preferiamo giocare con la retorica e la furbizia, per non prendere decisioni nemmeno in circostanze come quella determinata dalla tragedia di ieri. Vedremo anche da questo se l’esperimento di un Gabinetto all’insegna di populismo e sovranismo evolverà in direzione dei tanti buoni propositi, ancora abbozzolati in una comunicazione da Istituto Luce, almeno per approdare a una rispettabile azione di governo.

 

Ora serve un partito di cattolici popolari

Ormai è un giudizio comune. Lo confermano tutti i sondaggisti senza, com’è scontato ed evidente, indicare i tasselli di una alternativa politica e culturale alla schiacciante maggioranza a trazione pentaleghista. E cioè, il Partito democratico e Forza Italia oggi non sono più percepiti come sigle o partiti in grado di costruire una proposta, come si diceva un tempo, capace di delineare da un lato un progetto politico alternativo alle attuali forze di governo e, dall’altro, a costruire una politica in grado di rilanciare entusiasmo e aggregare consensi nuovi e trasversali. Forza Italia e’ stata una straordinaria invenzione del suo fondatore, Silvio Berlusconi. Un prodotto, però, che oggi non è più spendibile per svariati motivi. Del tutto comprensibili e che non vale la pena neanche elencare. Per quanto riguarda il Partito democratico si è chiusa, forse definitivamente, la felice intuizione dei fondatori. Ovvero, un progetto che prevedeva la confluenza nel medesimo soggetto politico delle migliori culture costituzionali del nostro paese. Un partito che doveva garantire si’ la confluenza delle culture riformiste, democratiche e progressiste ma soprattutto doveva confermare, nei fatti, la natura “plurale” del partito nella sua gestione concreta e quotidiana. L’esperienza degli ultimi anni, oltre ad aver rotto i ponti con il tradizionale elettorato di un partito di centro sinistra, ha modificato in modo radicale il profilo originario di quel partito che da soggetto “plurale” si è trasformato in un partito rigorosamente “personale”. Non a caso il Pd e’ ormai noto come “Pdr”, per dirla con la felice definizione di Ilvo Diamanti. Un partito che oltre ad aver perso tutte le consultazioni elettorali politiche ed amministrative dal 2015 in poi, si è isolato progressivamente non riuscendo più ad intercettare le domande che provenivano dalla società.

Soprattutto da parte di quei ceti e di quegli interessi che storicamente si riconoscevano in un partito convenzionalmente di centro sinistra. Esaurita quella funzione, che non è affatto mutata dopo il voto del 4 marzo – confermata, questa volta, da tutti i sondaggisti – si tratta, dunque, di riscoprire e ricostruire nuove esperienze politiche e nuovi soggetti politici. E, con il ritorno delle cosiddette “identità” politiche dopo il voto spartiacque del 4 marzo, si tratta di rimettere in campo partiti e movimenti che interpretano e incarnano quelle identità. A cominciare dalla cultura cattolico democratica, cattolico popolare e cattolico sociale. Non un partito cattolico come ovvio e, men che meno, un partito con un profilo confessionale o peggio ancora con venature clericali. Semmai, un partito laico e riformista, democratico ed europeo che affonda però le sue radici nella storia e nell’esperienza concreta del cattolicesimo politico italiano. Un partito che sia capace nell’attuale contesto politico di rilanciare un progetto che sappia ridare qualità alla nostra democrazia, che ripari le nostre istituzioni da una pericolosa deriva autoritaria, che rideclini un nuovo europeismo, che rilanci un’economia sociale di mercato senza rincorrere avventure liberiste, che difenda i diritti sociali e non solo quelli individuali, che riscopra la cultura delle alleanze senza le illusioni e le arroganze di una ridicola autosufficienza, che infine sappia anche rilanciare il ruolo dei partito-comunità superando la scorciatoia del “partito del capo” che ha contagiato ormai tutti i partiti italiani.

Insomma, un partito costituzionale che non riproponga le solite polemichette del qualunquismo politico contemporaneo ma che sia in grado di recuperare una cultura politica storica per tradurla nella cittadella politica italiana. Con un progetto politico definito, con una classe dirigente autorevole e, soprattutto, con una bussola chiara ed immediatamente percepibile dai cittadini elettori. Ovvero, un partito a tutto tondo e non un ennesimo movimento del “capo” di turno. Verrebbe da dire, citando uno storico ed efficace slogan, “se non ora quando?”.

Il Governo con i piedi di balsa

Com’è noto il Governo Conte fonda la sua attività sul contratto concordato dal movimento penta stellato e dalla lega. Allo stato attuale non si conoscono le priorità, i tempi di attuazione e le risorse finanziarie per rendere concreta l’azione del governo. Questa situazione non consente di programmare e progettare l’attuazione del contratto e contribuisce a rendere il futuro incerto, infondendo perplessità nei cittadini ai quali propinano banalità senza affrontare i problemi reali. È senz’altro vero che sono passati solo pochi mesi dalla nascita del Governo ma è altrettanto vero che essendoci confusione sul come si darà corpo alle promesse fatte, i mercati finanziari hanno cominciato a dare segnali negativi con lo spread che è cresciuto in termini preoccupanti.

Ciò nonostante, i nostri governanti fanno finta di niente come se l’aumento dello spread non comportasse maggiori oneri finanziari per le già esauste casse dello Stato. Pensano solo a propinarci proposte populistiche pur consapevoli che non avranno prospettiva di realizzo. E anziché fare ciò che il buon senso vorrebbe, un progetto per il Paese con un disegno ben preciso e concreto, annunciano un autunno irto di problematicità dando fin d’ora la responsabilità alle speculazioni finanziarie che volutamente metteranno in forte difficoltà la durata del loro Governo.

Ecco, questo è un modo furbesco per coprire le contraddizioni che sono scoppiate tra i cinque stelle e i leghisti, tra chi vuole e non vuole le grandi opere infrastrutturali, tra i favorevoli e i contrari alle vaccinazioni e sul chiudere le frontiere o meno ai migranti e così via dicendo ….. Nella realtà, ci si trova di fronte alla incapacità di tenuta del Governo perché le condizioni del contratto non sono state concordate come si diceva ma che, anzi, molti dei suoi punti sono stati rinviati ad una fase successiva perché non c’era una intesa ma solo il desiderio spasmodico dei due contraenti di andare al potere. Ma ora che i nodi sono arrivati al pettine, il vulcano del governo giallo verde, è in procinto di eruttare e così facendo distruggerà l’alleanza innaturale creatasi.

Quindi questa avventura di governo non può che terminare rovinosamente come succede sempre per i demagoghi e populisti che fondano la loro azione politica sull’effimero con forzature alla lunga ingestibili. Per governare un Paese come l’Italia ci vogliono progetti seri basati sulle risorse finanziarie compatibili con le effettive disponibilità di bilancio e che tenga conto delle regole concordate con la Comunità Europea. Diversamente la strada segnata è quella che ci porta, inesorabilmente, verso la destabilizzazione della nostra economia già provata da situazioni internazionali dettate dai mercati e dalla incapacità dei nostro Governo di fare una politica di contenimento della spesa pubblica e in favore degli investimenti e dell’innovazione.

Oltretutto la gravità della situazione si acuisce per l’assenza di una qualsiasi opposizione (Pd e FI sembrano essere nel pallone e a rischio estinzione) che faccia sentire la sua voce per contrastare quanto accade e per dare una speranza nuova ai cittadini.

Italia, pochi bimbi e poco lavoro

Come già proposto da Giuseppe Sangiorgi, su questo giornale online, vorrei rimarcare l’esigenza, da lui ben esposta, di avviare una seria fase di discussione su temi di interesse generale. Di seguito il link all’articolo citato: https://ildomaniditalia.eu/la-rete-bianca-uno-schema-di-lavoro/

Penso si debba avviare una proficua discussione sul tema: denatalita’.
Partendo dai dati statistici di Eurostat si può notare come l’Italia rischi di diventare un Paese per pochi adulti, in maggioranza in “pensione”.
Eurostat rileva che dagli attuali 60,6 milioni di abitanti, passeremo a 51,5 nel 2050 e nel 2080 a 39 mln.
L’Istat invece fornisce i dati delle nascite:
464 mila nel 2017
473 mila nel 2016
Il numero medio di figli per famiglia è del 1,34%.
Il confronto con gli altri Paesi europei è impietoso: Francia 1,92%, Svezia 1,85%, Irlanda 1,81%, R.U. 1,79%.
Ultimi Italia e Spagna (1,34%).
Un documento della BCE mostra “l’indice di dipendenza”, ossia il rapporto tra popolazione anziana e quella in età lavorativa, fra 50 anni il numero delle persone in pensione sarà del 60%.
Secondo le previsioni Istat la speranza di vita nel 2065 potrà arrivare ai 90 anni per le donne e 86 per gli uomini.
Come pagheremo le pensioni?
Dobbiamo tutti interrogarci sul futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. È un dovere farlo.
Perché i nostri giovani non “mettono su famiglia”?
Non serve avere la palla di cristallo, basta parlare con amici e parenti per capire che il problema principale si chiama: lavoro.
Se una coppia di giovani fatica a pagare l’affitto, il mutuo, le bollette, l’assicurazione e il bollo auto come può pensare di mettere al mondo, responsabilmente, uno o più figli?
Come può un giovane disoccupato o con lavori saltuari, senza una seria protezione sociale, diventare genitore?
La genitorialità responsabile non può essere tradotta in politica con bonus alla nascita o per i primi anni di vita del nascituro.
Occorre individuare serie politiche per la famiglia che supportino i neo genitori in tutte le fasi della vita a partire dal lavoro.
Papa Francesco in Amoris Laetitia al n. 82 scrive:<< l’insegnamento della Chiesa aiuta a vivere in maniera armoniosa e consapevole la comunione tra i coniugi, in tutte le sue dimensioni, insieme alla responsabilità generativa. Va riscoperto il messaggio dell’enciclica Humanpowe Vitae di Paolo VI, che sottolinea il bisogno di rispettare la dignità della persona nella valutazione morale dei metodi di regolazione della natalità>>. AL 82
Anche nella nostra bellissima e amatissima Costituzione è espressa all’art. 30 la funzione genitoriale: “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”.
In estrema sintesi la politica deve occuparsi più di lavoro, famiglia, dignità della persona e meno di selfie e slogan.
La neonata #retebianca ha l’obiettivo di mettere in rete persone volenterose in grado di trovare soluzioni idonee e concrete ai tanti problemi della nostra amata Italia