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Nuove Zone speciali di conservazione per limitare le minacce agli habitat naturali

La designazione delle Zsc è un passaggio assai rilevante per l’attuazione della Rete natura 2000, al fine di garantire l’entrata a regime di misure di conservazione specifiche contrastando la perdita di biodiversità.

Le Zone speciali di conservazione dell’area alpina sono 35 e tra  queste: le Dolomiti Ampezzane, il gruppo Sella, la Marmolada, il lago di Misurina.

Sessantuno invece, quelle della regione biogeografica continentale, sempre nel territorio veneto: i Colli Asolani, la Laguna medio-inferiore e superiore di Venezia, il Delta del Po (in particolare il tratto finale e delta veneto).

A seguito dell’emanazione del decreto da parte del titolare dell’Ambiente Sergio Costa, sono stati pubblicati la cartografia delle Zone speciali di conservazione, i tipi di habitat naturali e le specie di fauna e flora selvatica, già comunicati alla Commissione europea, nonché gli atti regionali che individuano obiettivi e misure di conservazione per la designazione dei siti.

Entro sei mesi la Regione Veneto dovrà provvedere ad assicurare l’allineamento tra le misure di conservazione e la Banca dati Natura 2000 comunicando, altresì, al Ministero dell’Ambiente il soggetto gestore di ciascuna Zona.

La Banca dati Natura 2000 rappresenta un quadro di riferimento utile per organizzare in forma standardizzata le diverse misure di conservazione (elemento essenziale per la designazione), contiene i campi fondamentali su cui articolare le misure sito specifiche per gli habitat e le specie di interesse comunitario, secondo gli orientamenti e gli indirizzi tecnici espressi dalla Commissione europea.

“America first” non funzionerà, funzionerà il “World first”

Articolo già apparso sulla rivista “Servire l’Italia”

È probabile che il “ciclone” Trump, una volta passato (e potrebbe passare molto prima di quanto non si pensi), possa lasciare l’amaro in bocca a chi crede nella validità dell’obiettivo sovranista lanciato da Trump con il poco diplomatico slogan di “AMERICA FIRST”.

Il “ciclone” potrebbe passare presto, perché la politica economica protezionista di Trump è destinata a essere contraria agli interessi degli stessi Stati Uniti e del resto del mondo. È infatti naturale che sia preferibile vivere in un mercato mondiale quanto più aperto, dove è nell’interesse dei paesi più forti aiutare a crescere i paesi più deboli. La tendenza verso la globalizzazione dell’economia mondiale è inarrestabile. È quindi meglio anticiparne i tempi piuttosto che ritardarli con il protezionismo, che nella storia non ha mai funzionato.

I primi segnali della miopia dello slogan “AMERICA FIRST” si vedono nella riduzione del turismo estero negli Stati Uniti, nel crollo degli investimenti immobiliari degli stranieri (soprattutto cinesi) in California e Florida, nella riduzione del portafoglio titoli del Tesoro Usa (soprattutto da parte della Cina, della Russia e del Canada) e nell’abbandono del dollaro come valuta di pagamento per le compravendite petrolifere in Asia. Tutto ciò è causato dal cambiamento dell’immagine degli Stati Uniti, passati da decenni di politica della “mano tesa” tipica del buon commerciante al “muso duro” e al “vittimismo” di Trump nei confronti dei concorrenti esteri.

Vi è inoltre da segnalare l’attuale forte protesta degli agricoltori e degli industriali statunitensi danneggiati dalla politica protezionista di Trump per la prevedibile riduzione delle loro esportazioni. Il forte aumento di queste nel secondo trimestre è anomalo, perché dovuto allo svuotamento delle scorte di magazzino prima che entrasse in funzione il rialzo dei dazi deciso dai paesi importatori come misura di ritorsione.

Il Presidente cinese mostra maggiore saggezza e diplomazia nel sostenere che una guerra commerciale non conviene a nessuno. E nel frattempo la Cina sta aumentando gli investimenti produttivi in mezzo mondo (soprattutto in Africa e in Sud America), con un occhio di particolare favore anche per la Russia e l’India. Tanto che è giunto il momento di pensare alla creazione della Grande Europa (dall’Atlantico agli Urali) per far “rinsavire” non solo gli europei, ma anche gli americani (il dopo-Trump non tarderà).

La pace (politica e commerciale) si realizza con gli accordi di libero scambio e con le aperture dei confini nel reciproco interesse, non con la protezione del proprio mercato nazionale, sempre piccolo se paragonato a quello di un mercato potenzialmente enorme come quello globale. La “mano tesa” conviene a tutti. La cultura del dialogo costruisce, la non cultura del conflitto distrugge. È tempo che i governanti siano governati dai loro rispettivi angeli custodi del buon senso…

USA, l’immigrazione e il caso California

Il dissesto portato da un’immigrazione fuori controllo, l’indifferenza di fronte ai danni per la società, e la necessità di cancellare o cambiare programmi di immigrazione che risalgono a mezzo secolo o un secolo prima, in nessun luogo negli USA sono più evidenti che in California. Con una popolazione di quasi 40 milioni di persone, la California è lo stato USA più popoloso, ed è il terzo per estensione. Circa il 27% della popolazione è nato all’estero; si stima che circa 10 milioni siano immigrati giunti negli ultimi 15 anni, e che un quarto dei 10 milioni siano immigrati illegali. Il 60% delle famiglie di immigrati si sostiene grazie al welfare; tutte ne ricevono sussidi. La California è lo stato con il maggior numero di residenti miliardari; d’altro lato, i dati ufficiali dicono che un quinto della popolazione vive sotto il “livello di povertà”. Le tasse regionali e locali sono molto alte, eppure lo stato è al limite della bancarotta. Su 40 milioni di persone, metà del reddito viene da 150 mila contribuenti ricchi. La ricchezza è concentrata nelle grandi città della costa; invece, nell’interno e nel nord dello stato vi sono aree di indigenza. Nell’istruzione primaria e media, sulla costa vi sono scuole private ancora di buon livello, ma nell’interno, dove l’istruzione è pubblica, insegnanti, programmi e strutture sono inadeguati. Il debito della California è il 96% del suo PIL, benché il governo di Sacramento incassi 400 miliardi di dollari l’anno in entrate fiscali (le più alte degli USA) e riceva 360 miliardi l’anno di fondi federali. Senza voler attribuire gli squilibri o il dissesto di bilancio soltanto all’immigrazione, la realtà è che la California, cioè lo stato dove molti politici (a cominciare dal governatore Jerry Brown, che in gioventù aveva completato gli studi per divenire gesuita) esaltano i confini aperti e la multi-etnicità come un valore, è anche lo stato che ha il maggior numero di poveri in rapporto alla popolazione.

La California non è più quella di Ronald Reagan. Il non più Golden State, che fu un tempo l’oggetto del desiderio delle carovane di pionieri che attraversavano il continente da est verso ovest, è divenuto una rassegna dei mali americani. Da oltre dieci anni la California è deformata dalla pratica delle “città-santuario”, che danno rifugio a immigrati illegali e piccoli criminali. È debilitata dalla diffusione della droga, iniziata con il permesso alla marijuana, arrivata poi alla presenza di droghe pesanti. È condizionata da regole soffocanti in molti settori civili. Nelle grandi città, la società è gonfiata dall’immigrazione, è disorganica, pletorica. Eppure, quando il governo Trump propone medicine per abbassare la febbre, i politici Democratici, i gruppi dei diritti civili, le ONG finanziate dai magnati di Hollywood, gli attivissimi siti liberal, spendono decine di migliaia di dollari in cause legali per fermarne le azioni. Nel settembre 2017 il governo di Sacramento ha approvato una legge che fa dell’intera California uno “stato-santuario”, mettendosi – con il sostegno dei media locali, marcatamente liberal, di finanzieri come Tom Steyer e Soros, e di Hollywood – su una rotta di collisione con il governo Trump. La scellerata legge arriva a proibire a polizia e altre autorità locali di collaborare con le autorità federali in materia di controllo dell’immigrazione: per esempio, quando un immigrato illegale che ha commesso un crimine viene rilasciato dopo un periodo di detenzione, uno sceriffo non può informare i federali (cioè l’agenzia ICE), a cui la legge impone di mettere in atto l’espulsione. La Homeland Security afferma che nel 2017 oltre 80 membri di gang criminali sono stati rilasciati in California, e si sono dileguati. La strada per riparare il sistema dell’immigrazione negli USA è molto lunga, ma senza dubbio una tappa necessaria è la collaborazione tra le autorità locali e i federali. La Costituzione americana, ribadita da sentenze della Corte Suprema, afferma che gli stati non possono revocare il controllo federale su temi come l’immigrazione, che rimane una competenza del governo di Washington.

La tracotanza con cui sindaci e politici locali, per interessi elettorali, si oppongono al governo nazionale va oltre i confini della legalità, e rimane impunita a causa della protezione di magistrati al servizio di ideologie immigrazioniste. Un esempio tra i tanti: nel marzo 2018 il sindaco di Oakland (Libby Schaaf) ha avvertito gli immigrati illegali, tramite i media e i social media, che l’ICE (Immigration and Customs Enforcement) preparava una retata, e li ha consigliati di “mettersi in contatto con le ONG locali”. Così facendo la Schaaf ha commesso un reato, perché ha consentito che quegli illegali, tra cui vi erano condannati per piccoli crimini, si sottraessero all’arresto. Inoltre, come ha dichiarato il direttore dell’ICE (Thomas Homan), nei quartieri dove sono presenti gang criminali la Schaaf ha messo a rischio di imboscate gli agenti federali. Trump ha chiesto di indagare il sindaco per ostruzione della giustizia; altre voci ne hanno chiesto l’arresto; niente di ciò accadrà. Così come non vengono accolte le richieste di residenti californiani che, di fronte alla diffusione della droga e alla presenza di gang criminali, chiedono massicce espulsioni. L’utilizzo sotto costo degli immigrati per raccogliere le arance, o per fare le pulizie negli alberghi e nelle ville, non giustifica l’avvenuta invasione in grandi numeri. Voci californiane credibili affermano che i servizi sociali sono saturi. Quelle voci contestano anche altre priorità politiche del governo di Sacramento, affermando, per esempio, che l’alta velocità ferroviaria (abbandonata a metà per mancanza di fondi) è meno importante di nuove riserve d’acqua davanti a una siccità che ha devastato e impoverito intere valli; o che lo sviluppo di energie alternative è una buona cosa, ma i maggiori costi per l’utente ricadono sulle zone agricole, mentre i sussidi vanno alle industrie “verdi” che finanziano i politici Democratici.

Da quando il governo Trump si è insediato, il ministro della Giustizia Sessions ha più volte prospettato di togliere i fondi federali alle “città-santuario”, ma tali città (o contee come Santa Clara in California) ne hanno finora bloccato l’azione iniziando cause legali. Nonostante i bilanci dissestati, sindaci e governi locali stanziano fondi per i gruppi che difendono i diritti degli immigrati e per i loro avvocati, a supporto di cause volte a bloccare le azioni del governo federale e le espulsioni. Secondo dati della Homeland Security, il 70% di tali espulsioni riguarda abusivi già condannati per piccoli crimini, a volte già espulsi e rientrati negli USA. Le “città-santuario” sono un magnete per l’arrivo di nuovi illegali e di pregiudicati. Il criminale che nel 2015 ha ucciso la giovane Kate Steinle ha affermato, durante il processo, di essere andato a San Francisco perché sapeva che le autorità locali non lo avrebbero consegnato ai federali. Nelle “città-santuario” i rilasci di detenuti sono frequenti. In una testimonianza in Senato, il direttore dell’ICE ha affermato che nel 2016 sono stati rilasciati oltre 10 mila illegali che avevano condanne penali. Il rifiuto che i paesi d’origine oppongono a riprendersi i loro cittadini è tra le cause dell’incredibile dissesto, ma per superare quel rifiuto sono disponibili strumenti decisivi e progressivi: il taglio degli aiuti finanziari, o la mancata concessione di visti, o l’espulsione di diplomatici. Gli stessi strumenti che sono a disposizione dei paesi europei. In California prevale l’opportunismo di politici che hanno le riserve di voti nelle comunità di immigrati; e prevale la tirannia delle ideologie terzomondiste e antiamericane della sinistra USA e dei suoi media. Qualsiasi azione del governo Trump per correggere quanto accade, e peraltro qualsiasi appello del pensiero conservatore alle esigenze di convivenza e di sicurezza, vengono presentati come liberticidi, o magari “razzisti”, o anche fautori della “supremazia bianca”.

Il danno che ne deriva all’ex Golden State è misurabile ma non pubblicizzato. Scuole e infrastrutture, un tempo esemplari, sono deteriorate. La California è l’incubo del federalismo americano. Nonostante i molti residenti ricchi e le tasse alte, le entrate vengono divorate da sussidi e welfare. Nonostante la Silicon Valley, vi è una perdita di vitalità economica, tra le cui cause vi sono: il potere dei sindacati del pubblico impiego; l’alta tassazione; la pletora di regolamenti; la diffusione dissennata delle cause legali per qualsiasi contenzioso; e il governo di un partito unico, i Democratici. Agricoltori e piccoli imprenditori lasciano lo stato (molti diretti in Texas). Quasi quattro milioni di californiani hanno cambiato residenza in meno di dieci anni. Il degrado della convivenza è percepibile persino dal comune turista. San Francisco potrebbe essere la più bella città americana. Invece vi regna il degrado. In alcune strade si cammina tra file di postulanti, molti dei quali drogati, che vivono, dormono, urinano per strada. Per le notti vi sono tende nei parchi pubblici, a Union Square, sulle banchine del porto. Abusivi e piccoli criminali sono richiamati in città da un governo locale che distribuisce modesti sussidi e voucher per il cibo. I drogati non sono in grado di lavorare, devono mendicare o commettere crimini.

Tutto ciò sta portando, lentamente, a una ribellione. Nella Orange County – una delle maggiori contee della California, con 3,2 milioni di residenti, sede di alcune decine di società di largo fatturato e nota per attrazioni come Disneyland – voci significative si dichiarano stanche dell’invasione di illegali e di persone senza casa, che si accampano in tende fornite dalle ONG, anche per chilometri sui bordi di strade principali, con conseguenze sull’igiene e l’ordine pubblico. I governi locali di alcune piccole città nell’interno della California hanno contestato la legge che rende l’ex Golden State uno “stato-santuario” e proibisce alla polizia di collaborare con le autorità federali. Della possibile rivolta contro il governo di Sacramento si è avuto di recente un segnale quando alcuni sindaci, alcuni sceriffi, procuratori ed esponenti di consigli comunali si sono riuniti alla Casa Bianca per esprimere a Trump il loro disagio. Le elezioni del prossimo novembre diranno se la strada per cambiare è percorribile, in una California che da due decenni è uno stato con un partito unico. Nel giugno 2018 il Los Angeles Times (giornale molto liberal) ha scritto che un progetto di dividere la California in tre stati separati sarà oggetto di referendum in novembre. Il progetto, che andrebbe comunque incontro ad anni di battaglie legali prima di approdare in Congresso, non ha possibilità di successo, perché chi governa lo stato non vuole perderne il controllo: per esempio, non vuole perdere i 55 voti elettorali (quasi un quinto del totale, che è di 270) attribuiti a chi ha la maggioranza in California nelle elezioni presidenziali. Ma la richiesta di dividere lo stato è significativa dei conflitti esistenti.

Come altrove negli USA, il dominio del partito unico comincia con l’istruzione. Il pensiero liberal controlla scuole e università. Per trovare lavoro in un campus come insegnante o amministratore, bisogna dimostrarsi avversi al pensiero conservatore. Un professore può essere anche di qualità scadente, purché sia di sinistra. Se poi è “non-white”, l’impiego è più facile. Gli studenti assorbono il messaggio; vi sono testimonianze che in molti casi essi vengono indottrinati, più che istruiti. Il voto è lo scopo finale. Lo scopo, per esempio, della sanità gratuita ai nuovi immigrati (tramite il programma Medicaid), o delle spese scolastiche pagate dallo stato anche ai figli di immigrati illegali. E per votare in California è sufficiente avere la patente di guida, che tutti hanno, e per ottenere la quale non è richiesta la residenza legale. Quando dati ufficiali hanno indicato che circa un milione di non residenti hanno la patente di guida, il governatore Brown ha affermato che la patente li costringe ad avere l’assicurazione per l’auto, rendendo le strade più sicure. L’argomento ha una logica, ma la patente facile è un altro magnete per nuovi immigrati, e un altro strumento per nuovi voti. Vi è una tracotanza della politica liberal: quando il nuovo censimento federale, in programma nel 2020, ha previsto una domanda sulla cittadinanza dei dichiaranti, il governo di Sacramento ha iniziato una causa legale per cancellare la domanda, perché essa potrebbe “scoraggiare gli immigrati dal partecipare al censimento” e indirettamente scoraggiarli dall’andare a votare.

Tale tracotanza non è una prerogativa della California. A New York City, dove, su una popolazione di oltre otto milioni di persone, circa la metà sono nate all’estero, il sindaco De Blasio ha trasformato la “Grande Mela” – a cui da oltre un secolo nel mondo intero si guarda come a un miraggio – in una “città-santuario”, e indegnamente ha imposto condizioni alla polizia affinché non collabori con i federali in materia di immigrazione. Non solo: il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo (di cui si parla come candidato Democratico alla presidenza) si fa pubblicità attaccando l’agenzia federale ICE quando quest’ultima, di recente, conduce a New York un raid con l’arresto di 225 illegali (di cui 180 con condanne criminali in atto); Cuomo arriva a minacciare gli agenti federali di cause legali per aver “violato proprietà private”. Cioè: non è lecito entrare in casa di un piccolo criminale per arrestarlo, però è lecito – su mandato del procuratore speciale Mueller, autorizzato dal vice ministro della Giustizia Rosenstein – forzare a New York gli ingressi nelle abitazioni dell’avvocato di Trump (Cohen) o di un suo ex collaboratore (Manafort) per sottrarre documenti che non hanno relazione con l’indagine, fin dall’inizio priva di fondamento, di cui Mueller fu incaricato. La spaventosa realtà di due diversi livelli di giustizia, divenuta pubblica (ma occultata dai media) con il recente rapporto dell’Ispettore Generale del Dipartimento Giustizia, trova frequente rappresentazione.

La guerra civile nella società e nella comunicazione che la sinistra politica, il globalismo e il terzomondismo hanno dichiarato al governo Trump danneggia gravemente la California e l’intera nazione. La dimensione del problema degli “stati-santuario” (anche l’Illinois lo è divenuto nel settembre 2017, il Maryland sta per divenirlo, l’Oregon lo è di fatto) e delle “città-santuario” (parliamo di decine di grandi città, da Filadelfia a Seattle a Baltimora, da Boston a Denver a Los Angeles, e di decine di contee) è poco conosciuta. Interessi elettorali e abbiette ideologie impongono agli USA una conflittualità i cui effetti disgreganti possono divenire maggiori di quelli degli stati del Sud contrari, negli anni Sessanta del Novecento, alla parità dei diritti per i neri. Riguardo strettamente alla California, il sogno poco realizzabile dei conservatori è quello di trovare un governatore che, come Ronald Reagan negli anni Settanta, faccia appello agli istinti migliori dei cittadini, opponendosi all’immigrazione senza freni e alla dipendenza dal welfare – ciò che Reagan definiva “mettere a lavorare i fannulloni (bums) del welfare” –, e prospettando una battaglia vincente contro la criminalità e la droga. Coloro che coltivano tale sogno tendono a rievocare Reagan governatore (e poi presidente) come un dispensatore di radioso ottimismo americano; ma Reagan fu a lungo l’interprete di una gestione senza compromessi. Non si vede chi oggi possa assumere un ruolo analogo nella sovraffollata, confusa, al tempo stesso edonista e pauperista, e stremata da incendi devastanti, California. Forse Trump, se nel 2020 deciderà, contro ogni probabilità, di fare campagna elettorale in California e chiedere un cambiamento.

Un capitale fermo. Il sistema turistico Italiano deve rinascere

In questi anni di crisi galoppante, l’opinione pubblica trasuda di una sorta di allergia nell’apertura dei giornali, siano essi cartacei o online, perché questi sono percepiti come un corollario di notizie sempre in territorio negativo. Come dargli torto?

Non sempre è così, fortunatamente. Oggi vogliamo rendervi conto di un qualcosa che riguarda il turismo nostrano. Seppur non si tratti di notizie così positive. In questo periodo di grandi trasformazioni, di crisi economiche che attanagliano le democrazie occidentali, vedere che l’Italia, forse il paese con il più alto patrimonio artistico, culturale e turistico al mondo, sia catalogato agli ultimi posti nella classifica del World Economic Forum è decisamente triste.

Nei 14 parametri utilizzati per definire la graduatoria, tra tutti i 136 paesi presi in esame, delle nazioni più virtuose dal punto di vista dell’attrattiva turistica, l’Italia arranca nelle retrovie. Quindici le nazioni classificate alla fine, con l’Italia, appunto, in posizione defilata, attorno all’undicesima piazza. Non si potrebbe immaginare un qualcosa di peggiore. Soprattutto perché il sistema Italia dovrebbe essere lassù in cima alle classifiche del turismo, quelle che, giocoforza, determinano i movimenti economici più importanti. Laddove si genera l’indotto più grande, quello che garantisce la ricchezza di un paese. Non si può vivere di sola rendita, quando il belpaese era il top del turismo mondiale ; non si può immaginare che l’Italia sia adiacente all’approssimazione.

C’è bisogno di intercettare i grandi flussi turistici, provenienti dai paesi stranieri, quelli capaci di spendere cifre impensabili ai nostri occhi. Perché l’Italia non ha nulla da invidiare a coloro che occupano, attualmente, le prime posizioni; c’è però bisogno di politiche d’insieme che sappiano calamitare il turista. Oltretutto, noi non abbiamo bisogno di inventarci il turismo, noi siamo già una cartolina a cielo aperto. Siamo il turismo, per eccellenza. Vi è solo la necessità di generare dell’attrattiva, in termini economici e di accoglienza, per calamitare i visitatori nella nostra penisola. Se pensiamo, in questi giorni di gran caldo, alle spiagge della Sardegna e della Puglia, o alle Isole Eolie, o, ancora, ad Ischia o a Capri, dovremmo preoccuparci della concorrenza di altri lidi sparsi qua e là nel globo?

Se pensiamo alla cultura che emanano le quasi ottomila nostre città, ognuna delle quali capaci di generare una determinata peculiarità turistica senza alcun eguale nel mondo, secondo voi dovremmo impensierirci?

Non basterebbe un libro per evidenziare per sommi capi la straordinaria offerta che siamo in grado di offrire ad un ipotetico turista. Allora perché ci si ritrova, quasi sempre, in basso nelle varie classifiche? dubbi ed altrettanti interrogativi che fanno male al cuore alle tasche. Questi demoni ci angosciano e ci spingono a chiedere il perché accada tutto questo. Tante sono le colpe, tutte legate alla scarsa competitività che è figlia di prezzi e servizi non all’altezza. Esistono località che offrono dei prodotti decisamente più bassi rispetto all’Italia, ma decisamente più performanti sotto ogni punto di vista. Se pensiamo che il turismo di lusso in Italia, quello che genera remunerazioni elevate, è in mano a società straniere, fa comprendere che vi sia la necessità di una virata; di una decisa ventata di cambiamenti.

Capitalizzare in moneta tutta l’arte, tutta la cultura e l’intero patrimonio turistico significherebbe aumentare il Pil ed in generale estirpare tutte le problematiche che pervadono e si alimentano nel meridione d’Italia. E ridarebbe le motivazioni ai nostri giovani, sempre più disillusi, incastonati in una bolla di negativa, ad oggi, mortificante.

Nel Belpaese crescono le start up ma la distribuzione geografica resta eterogenea

Dal dicembre 2012, con l’entrata in vigore della policy dedicata, le start up innovative si sono gradualmente affermate come una presenza di rilievo nel tessuto imprenditoriale nazionale.

Al 4 luglio 2018, data di riferimento del Report, erano 9.396 le start up iscritte nella sezione dedicata del Registro delle Imprese, il 3% di tutte le società di capitali costituite in Italia negli ultimi 5 anni e tuttora in stato attivo.

Basti poi pensare che oggi, rispetto a tre mesi, fa si contano quasi 500 imprese innovative in più. Un dato che appare assai significativo se si considera che, per effetto degli specifici requisiti di ammissione anagrafici e dimensionali previsti dalla disciplina il database delle start up è soggetto a un turnover continuo: da un lato, si registra un costante flusso in entrata da parte di imprese appena costituite; dall’altro, la progressiva fuoriuscita di quelle ormai diventate “mature” (in quanto hanno superato il limite, stabilito dal d.l. 179/2012, dei cinque anni di età, o dei cinque milioni di fatturato annuo). Una crescita, insomma, che si riflette anche nell’incremento dei valori occupazionali espressi. Al 31 marzo 2018 le start up innovative coinvolgevano 48.965 persone tra soci e lavoratori subordinati. I dati sui dipendenti a metà 2018 non sono ancora disponibili, ma i trend storici lasciano intravedere che alla data odierna la forza lavoro espressa dalle imprese innovative italiane abbia già ampiamente superato la soglia delle 50mila unità.

Realizzato da Mise e InfoCamere, con la collaborazione di Unioncamere, il Rapporto presenta approfondimenti su diversi aspetti del fenomeno che vanno dalla distribuzione geografica alle caratteristiche dei soci, dai settori di attività economica ai principali dati di bilancio.

Tra le rilevazioni più significative vediamo che la Lombardia risulta essere la regione capofila per numero di start up innovative, raggiungendo a metà 2018 quota 2.286, il 24,3% del totale nazionale. Di queste, ben 1.598 si trovano nell’area di Milano e proprio nel capoluogo quasi il 5% delle società di capitali avviate negli ultimi 5 anni è attualmente in possesso dello status speciale.

La provincia con il più elevato rapporto tra start up innovative iscritte e nuove società di capitali è invece Trieste (7%), seguita a breve distanza da Trento (6,9%). Al contrario, a La Spezia e a Crotone vi è solo una nuova azienda su 200.

Populisti e sovranisti, l’asse del male antieuropeo

Articolo già apparso sulle pagine dell’huffingtonpost

Combattere il populismo, specie se congiunto alla percepita incontrollabilità dell’immigrazione, significa adottare tecniche sofisticate di lotta e comunicazione pubblica. C’è chi suggerisce di temporeggiare, evitando ad esempio di inseguire Salvini sul suo stesso terreno politico. Il rischio è che però, rimanendo muta, l’opposizione finisca per apparire ininfluente o peggio corriva con le posizioni oltranziste del leader della Lega. Un conto è capire le ragioni del disagio che genera sentimenti di xenofobia, altro è giustificare indirettamente, al seguito del motto “prima gli italiani”, l’esplosione di questi sentimenti. Bisogna fissare una linea di demarcazione, ben sapendo che si tratta del primo atto di contrasto nei riguardi della piaga etno-populista.

Ad oggi, in Europa, la posizione più coraggiosa sul tema dell’immigrazione è stata quella elaborata ed espressa da Angela Merkel. Minniti, a confronto, è stato meno aperto, sicuramente per il peso in Italia di una pubblica opinione surriscaldata e iper-reattiva a causa della dura propaganda della Lega. Ciò spinge, di conseguenza, a valutare con tutto il rispetto necessario l’enorme sforzo di equilibrio della longeva cancelliera tedesca.

La bestia del nazionalismo, cambiando solo pelle, torna a rialzare la testa nel Vecchio Continente. Come un secolo fa le tensioni maggiori, armate di razzismo, si manifestano lungo l’asse tra Vienna Monaco (con la propaggine ungherese). Qui i due partiti di tradizione cristiano-sociale, l’ÖVP del giovane Kurz e la CSU di Seehofer e Söder, si sono spostati a destra con l’obiettivo di recuperare il voto di protesta. Così facendo, Kurz ha vinto nelle ultime elezioni federali, per poi formare un’alleanza di governo, sotto la sua direzione, con la destra radicale del Partito della Libertà (FPÖ). A ottobre la CSU conta di vincere a sua volta, puntando a riguadagnare la maggioranza assoluta nel Parlamento del land bavarese. In entrambi i casi una medesima politica di mimetizzazione, con il centro radicalizzato a destra, mette a dura prova la fedeltà a una certa tradizione moderata dei Partiti Popolari dell’area austro-germanica.

Contro questa pericolosa involuzione, destinata se non corretta a squilibrare l’esperienza del popolarismo mitteleuropeo, decisamente più conservatore di quello italiano, si è levata la voce del Card. Marx, vescovo di Monaco e presidente della Conferenza episcopale tedesca. Mesi or sono aveva contestato la scelta del Presidente della Baviera, il già citato Söder, diretta a imporre l’esposizione del Crocefisso nei locali pubblici. Un monito, il suo, contro l’uso strumentale dei segni religiosi, che avrebbe motivo di attagliarsi alle scorribande comiziesche a base di rosari e Vangelo cui abbiamo dovuto assistere in Italia.

Punto fermo è che nazionalismo e razzismo, secondo il Cardinale, non sono in sintonia con il messaggio della Chiesa: “L’Europa non deve diventare una fortezza, questa è sempre stata la nostra convinzione”. Poi l’alto prelato ha voluto aggiungere: “La penso come Jean Monnet: l’Europa dovrebbe essere un contributo per un mondo migliore. Creativo, aperto e curioso”. Non sono parole, queste, che possono valere solo per le coscienze dei credenti bavaresi e tedeschi (e per vicinanza austriaci). Le dobbiamo assumere e metabolizzare anche noi italiani, visto per altro che la Chiesa, con i ripetuti interventi del Card. Bassetti, ha stigmatizzato l’atteggiamento oltranzista e violento, in fondo disumano, che sulla questione dei migranti caratterizza la linea del governo a trazione leghista.

Dunque, un conto è discutere sulla razionalizzazione dei flussi immigratori, altro è speculare sulla paura di una ipotetica invasione dall’Africa. Un’Europa aperta non vuol dire una civiltà in procinto di suicidarsi. Occorre proporre una “politica realista”, ragionando sugli equilibri da rispettare, ma senza ignorare l’apporto prezioso dei migranti al futuro delle nostre economie nazionali. L’asse del male, rappresentato dall’unione di sovranisti e populisti, condanna al declino l’Europa che i Padri fondatori hanno pensato prospera e dinamica, come in fondo è stato nel corso di questi 60 anni, con la crescita e l’ampliamento della Casa comune europea. Di questo dobbiamo essere fieri, consapevoli che l’alternativa, quando trascolora nel grigiore della paura e della chiusura, costituisce il vero pericolo per lo sviluppo dell’Europa e il benessere dei suoi cinquecento milioni di cittadini.

Tommie Smith e John Carlos: The Black Power

Ci sono foto che resteranno nella nostra memoria nonostante non si fosse ancora vivi per seguire da vicino quegli eventi. Gli esempi sono infiniti. Ma solo alcune riescono a raccontare un evento o un periodo storico nella sua interezza attraverso un click.

Siamo nel 1968, anno della primavera di Praga, degli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy, anno delle impiccagioni di neri in Rhodesia e in Sudafrica, e del maggio francese.

Le Olimpiadi vennero organizzate in Messico. L’evento non si aprì senza molte polemiche.

Infatti, il 2 ottobre 1968, dieci giorni prima dell’apertura dei Giochi, nella Piazza delle Tre Culture a Città del Messico, durante una manifestazione, i soldati iniziarono a sparare ad altezza d’uomo. Fu una strage.

Ne rimase coinvolta anche Oriana Fallaci, che fu creduta morta e portata in obitorio e, solo grazie all’intervento di un prete, che si accorse che era ancora viva, si salvò.

In questo il clima iniziarono le XIX Olimpiadi.

Un contesto “peggiore di quelli che ho visto alla guerra”, come disse la stessa Fallaci.

Tutto questo, in una data che rimarrà impressa nella storia delle Olimpiadi, il 17 ottobre 1968, portò Tommie Smith e John Carlos, durante la cerimonia di premiazione, a compiere quella che, probabilmente, è ricordata come la più famosa protesta della storia dei Giochi olimpici.

Salirono sul podio scalzi e ascoltarono il loro inno nazionale chinando il capo e sollevando un pugno con un guanto nero, a sostegno del movimento denominato Olympic Project for Human Rights (Progetto olimpico per i diritti umani) e, più in generale, del potere nero.

Smith, nato nel Texas, settimo di undici figli, aveva 24 anni e veniva da una famiglia in cui il padre raccoglieva cotone. Carlos, 23 anni, era figlio di un calzolaio, nato e cresciuto ad Harlem.

Nella cerimonia tutto fu fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indice della povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos si mise al collo (ogni pietra era un nero che si batteva per i diritti ed era stato linciato).

Non saranno solo loro, però, che a Città del Messico protesteranno. L’atleta Vera Càvlaska, ginnasta ceca, sul podio “chiuse gli occhi e abbassò il capo in segno di tacita protesta” per la repressione seguita alla primavera di Praga.

Salvini e Famiglia Cristiana, e i cattolici dove sono?

La recente polemica tra il capo della Lega Salvini e Famiglia Cristiana non e’ la sola che costella il confronto, articolato è difficile, tra il mondo cattolico e la nuova maggioranza di governo. Certo, questo è stata la più eclatante perché ha investito direttamente il vice Premier e un organo di stampa importante per il prestigio della testata e per l’autorevolezza delle tesi sostenute.

Ma, al di là di questa polemica, quello che emerge in modo sempre più evidente da questo scambio di opinioni non è tanto la virulenza del confronto quanto l’assenza di un interlocutore politico che sappia interpretare, laicamente, una ispirazione, una cultura, un modo d’essere che in questi anni si sono pericolosamente seppur inconsapevolmente eclissati nella dialettica politica italiana.

Perché se è positivo, nonché corretto, che la stampa cattolica nelle sue multiformi espressioni partecipi al dibattito sulle principali scelte politiche della maggioranza di governo di turno, e’ altrettanto importante per i cattolici riscoprire una partecipazione politica diretta, attiva, consapevole e incisiva.

Del resto, e’ noto a tutti – e ormai lo diciamo da tempo, ma lo dicono anche tutti i principali osservatori delle cose politiche italiane – che questa presenza politica e culturale nei partiti tradizionali si è del tutto affievolita ed è radicalmente inespressiva sotto il profilo della progettualità e dell’incidenza politica. Tramontati i partiti plurali come il Partito democratico e Forza Italia, ridotti al lumicino e all’insignificanza le varie sigle elettorali come l’Udc, l’unico compito a cui i cattolici popolari e democratici debbono assolvere oggi è quello di attrezzare ed affinare una rinnovata presenza politica organizzata e diffusa territorialmente. Non ci sono più alternative realisticamente percorribili a questa prospettiva. Il tempo della testimonianza, delle divisioni pretestuose ed impotenti, della delega alla gerarchia per affrontare e cercare di risolvere i problemi sul tappeto appartengono ad una stagione che ormai è alle nostre spalle.

È francamente imbarazzante, nonché singolare, continuare ad assistere ad un confronto tra le nuove formazioni politiche populiste, o di destra o di sinistra e il mondo cattolico senza la presenza di uno strumento politico pertinente, cioè un partito di quest’area culturale. È’ inutile continuare ad aggirare l’ostacolo.

La priorità politica, dopo il voto del 4 marzo e dopo i pronunciamenti e le scelte concrete del governo pentaleghista, richiedono una rinnovata presenza cattolico democratica e popolare nello scenario politico italiano. Una presenza facilitata anche da un patrimonio culturale, politico, sociale e forse anche etico che affonda le radici in quel cattolicesimo politico che per troppi anni anni e’ stato sottovalutato o ritenuto ormai un pezzo di antiquariato.

E proprio la rilettura di uno dei caposaldi di questo pensiero, e cioè il popolarismo di Luigi Sturzo, a cent’anni dal famoso “appello ai liberi e forti” può e deve rappresentare uno stimolo potente per recuperarlo e declinarlo nella società contemporanea. Sarebbe curioso, infatti, se in un clima di ritorno delle identità politiche e culturali solo il pensiero cattolico popolare brillasse per la sua assenza ed inconsistenza.

Ci troveremmo in una situazione dove l’assenza dalla politica dei cattolici non avviene per una imposizione della gerarchia, ma per manifesta incapacità del laicato. Ecco perché, adesso, e’ opportuno esserci.

Sturzo e Giretti: risposta a Palladino

Giovanni Palladino, proseguendo sulle orme del padre Giuseppe, economista ed esecutore testamentario di Sturzo, porta avanti da anni il suo qualificato impegno intellettuale come cultore della memoria di don Luigi. Anche solo per questa ragione, né piccola né banale, devo essere grato per l’attenzione da lui prestata al mio recente intervento sulla “opzione sturziana” – confesso, per me sorprendente! – di Marco Taradash. Con parole garbate, di cui lo ringrazio, ha voluto tuttavia sollevare una obiezione cruciale, che merita una ricognizione e una replica.

Ecco, dunque, quello che ha scritto nel suo intervento riproposto ieri dal nostro giornale online. “Il Direttore de “Il Domani d’Italia”, nello scrivere un equilibrato e in definitiva favorevole commento alla svolta sturziana di Marco Taradash (svolta che tuttavia non è una sorpresa, perché già compiuta da tempo), fa due riferimenti non corretti. Nel primo, non solo storpia il cognome di Gobetti con Giretti, ma sembra fare del giovane Gobetti il leader di una scuola radical-democratica alla quale avrebbe aderito anche Sturzo, nato ben 30 anni prima di Gobetti”.

Ora, con altrettanto garbo, vorrei replicare all’obiezione del mio interlocutore. Naturalmente non ho proposto una lettura incongrua di Sturzo, trasformandolo in un radicale pannelliano ante litteram. Semmai ho posto l’accento sulla convergenza di giudizi tra il sacerdote calatino e alcuni democratici radicali degli anni ‘20, specie sul punto dell’antigiolittismo e quindi sulla polemica contro la politica statalista, di fatto corriva con gli interessi monopolisti dei grandi gruppi industriali del nord, a tutto danno del Meridione.

Salvemini e Sturzo, ad esempio, convergevano sulla battaglia tesa ad affrancare l’economia e la politica italiana dal blocco di potere giolittiano, salvo il bon ton del fondatore del Ppi, che a differenza di Salvemini mai avrebbe chiamato “Ministro della malavita” lo statista di Dronero. Ciò nondimeno la forte personalità di Sturzo non consente di confondere, né in sede storiografica né in ambito strettamente politico, il cattolico sociale con il democratico radicale. I due rimarranno se stessi, facendosi entrambi paladini della libertà e della democrazia, ma certo con premesse e contenuti ideali affini e diversi, tanto prima quanto dopo l’avversata esperienza della dittatura mussoliniana.

Ora, se mi è consentito, devo ricorrere a una citazione di Sturzo per non soccombere all’accusa più antipatica rivoltami da Palladino, quella cioè di aver storpiato il cognome Gobetti in Giretti, tanto da associare in maniera inopinata il leader popolare al giovane e combattivo fautore della “Rivoluzione liberale”. Mi dispiace, non è affatto una storpiatura e non mi sono confuso. Edoardo Giretti è stato un economista e uomo politico, di matrice appunto liberista, aderente al Partito radicale del pre-fascismo (non omologabile, questo, al posteriore partito di Marco Pannella). Sturzo lo chiarisce da par suo in un articolo pubblicato su “La Via” il 6 ottobre del 1951 (ora in Opere scelte di Luigi SturzoII Stato, Parlamento e partiti, Bari 1992, pp. 119-124). La lettura cancella ogni dubbio e chiarisce, fin dal titolo (Un “liberista” fuori stagione) quale fosse la “vera” posizione di Sturzo, mai sostanzialmente modificata nel corso della propria vita.

“Secondo il prof. Ernesto Rossi – esordisce in questo suo illuminante scritto l’ideatore del popolarismo – io sarei un liberista manchesteriano di cento anni fa. Non c’è dubbio che io sia stato sempre coerente ad un ideale temperatamente “liberista”, fin da quando, sull’altra sponda, mi trovavo sulla medesima linea di Napoleone Colajanni, combattendo contro il dazio sul grano, e partecipando alla corrente guidata da Edoardo Giretti. Però, e prima e dopo il fascismo – continua Sturzo -, in Italia e all’estero, ho sempre ammesso e, occorrendo, sostenuto apertamente, un equilibrato intervento statale a fini politici e sociali ben chiari e determinati”.

Dunque, questo era il modello a cui il primo segretario del Ppi sentiva di appartenere, senza tema di abiura o misconoscimento anche a molti anni di distanza dall’incontro, amichevole e dialettico, con i liberisti alla Giretti. Spero allora di aver contribuito a far chiarezza, ben al di là, s’intende, di questioni formali, ovvero di presunti errori che avrebbero intaccato alla radice, ove confermati, la mia sintetica valutazione in ordine a tale decisivo aspetto del pensiero e l’opera di Luigi Sturzo.

Lo sforzo di precisazione non ha nulla di lezioso. In vista del centenario, il prossimo 19 gennaio 2019, dell’Appello ai liberi e forti, abbiamo necessità di non appiattirci sulla canonica e dunque ripetitiva rappresentazione di Sturzo. Urge interpretare e capire, con spirito nuovo, il grande significato dell’invenzione sturziana, ovvero il popolarismo. L’intuizione della sua originalità, tuttora valida per il suo carattere di dottrina politica incentrata sulla libertà e la responsabilità, ha bisogno di essere inverata in una proposta di riaggregazione dell’area dei democratici, portando a sintesi i contributi migliori provenienti dai progressisti e dai conservatori

La città; la mia casa

In agosto le città respirano, anche loro! Molte case di residenza abituale si svuotano almeno per alcuni giorni, perché “si va in ferie”.

Da quelle bellissime e comode fino ai tuguri (purtroppo esistono) gli abitanti che vi alloggiano le considerano il tetto protettivo, il luogo di tutte le esperienze esistenziali, serene o drammatiche: di felicità e di dolore.

Sulla casa, e sulle case, si può dire di tutto e la letteratura, non solo sociologica o architettonica, descrive modi di abitare che fanno sintesi di mondi, di contesti, di sentimenti. Tanti palazzi sono somme di case, che costituiscono il tessuto urbano. Dove ci sono abitazioni scorre la vita della città.

Ogni amministratore comunale avverte che la città non è solo territorio, ma “una casa comune in cui tutti gli elementi che la compongono sono organicamente collegati; come l’officina è un elemento organico della città, così lo è la Cattedrale, la scuola, l’ospedale. Tutto fa parte di questa casa comune. Vi è dunque una pasta unica, un lievito unico, una responsabilità unica che è collegata ai comuni doveri.” E ancora Giorgio La Pira, venerato sindaco di Firenze negli anni 50, esortava i cittadini della nuova città satellite dell’Isolotto “Amate questa città come parte integrante, per così dire, della vostra personalità. Voi siete piantati in essa e in essa saranno piantate le generazioni future che avranno in voi radice. È un patrimonio prezioso che voi siete tenuti a tramandare intatto, anzi migliorato ed accresciuto, alle generazioni che verranno”. Ogni città – aggiunse –racchiude in sé una vocazione ed un mistero. Amatela dunque come si ama la casa comune destinata a voi e ai vostri figli”.

Una grande responsabilità, non solo per gli amministratori, perché la città è di tutti anche se non se ne è pienamente consapevoli.

È vero che anche le nostre case possono essere modeste e, per molte persone per le più diverse circostanze, non sono nè linde nè lussuose; tuttavia è comune il sentimento di protezione che inducono. Chissà perché non dobbiamo coltivare lo stesso sentimento nei confronti della nostra città, che sia metropoli o borgo.

Osservando lo stato di salute dei nostri territori non possiamo non sentirci colpevoli, singolarmente e tutti insieme, per il disimpegno, l’indifferenza e il maltrattamento che dedichiamo. La città non si sporca da sola e costa molto pulirla. È un’affermazione di Lapalisse, eppure la maleducazione regna sovrana. Vediamo persone che gettano per terra mentre camminano, o dai finestrini, quando sono in auto, qualsiasi oggetto. Lo faremmo a casa nostra? La fatica di scaricare gli ingombranti sul ciglio delle strade sarebbe la stessa anche per raggiungere un’isola ecologica… è proprio la testa che manca!

Mancano anche i controlli! Se fioccassero un po’ di multe salate (forse non basta uno per educarne tanti), i Comuni otterrebbero due vantaggi: economico ed ecologico.

Non mi nascondo che la prima responsabilità per la gestione ordinata della città è dei suoi amministratori. Questi devono amare la loro città, conoscerla in ogni meandro: la periferia è città come il centro storico. Si muovano per il territorio; verifichino quali sono le vicissitudini dei cittadini che affrontano quotidianamente il traffico. Conoscerebbero semafori collocati in modo sbagliato, le buche delle strade, gli alberi malati, i tombini ostruiti di tutto, le pedonalizzazioni che ‘uccidono’ la città perché rendono più difficile e lento il traffico, per cui si inquina anche di più e si consuma più energia.

Se il sindaco e tutti gli amministratori si immedesimassero nei propri concittadini non renderebbero impossibile utilizzare i mezzi di trasporto pubblico la cui velocità commerciale è uguale a quella pedonale, perché troppi pullman turistici e panoramici rovinano la città. Ci sono parcheggi di scambio fuori città. A Roma, per esempio, durante il giubileo 2000 i pullman non entravano in città: sarebbero stati uno sfacelo. Gli amministratori hanno un esempio da copiare. Vale anche il ricordo del Giubileo 2000 (sindaco Rutelli): agli amministratori non giunse un avviso di garanzia e furono molte le opere. Sarebbe stato così anche per le Olimpiadi a Roma. Sarebbero giunti finanziamenti utili al restayling della città. Inutile temere la corruzione se si è incorruttibili. In questo ambito sarebbe bello poter finalmente constatare che per le opere pubbliche le gare prevedano date e fondi certi, altrimenti non si avviino. Ai ritardi corrispondano pesanti penalità e si preveda di lavorare giorno e notte, per rispettare i tempi di consegna e risparmiare disagi ai cittadini utenti.